Nella vastità della lingua italiana, alcune parole sembrano gemelle, eppure, quando le osserviamo da vicino, rivelano differenze sottili e affascinanti. Arrecare e recare sono due verbi che, pur condividendo un’origine comune, hanno preso strade diverse.
Uno porta effetti, l’altro porta cose. Uno lascia un segno invisibile, l’altro compie un viaggio concreto. E, proprio come accade nei grandi racconti, questi due verbi hanno una storia da raccontare.
Nel regno di Verbopoli, dove le parole vivono come personaggi, Arrecare e Recare sono i messaggeri di un’antica verità linguistica. Attraverso questa favola i lettori potranno scoprire il loro destino e il segreto della loro differenza.
Nel cuore di un mondo fatto di suoni e significati, esisteva un regno chiamato Verbopoli, dove le parole vivevano in equilibrio, ciascuna con una funzione precisa. Nel palazzo del Re della Lingua, due messaggeri percorrevano le strade della conoscenza: Arrecare e Recare.
Un tempo erano compagni inseparabili, nati dallo stesso antico verbo latino recare, che significa "portare". Ma col passare dei secoli, i loro cammini si divisero.
Arrecare, dal passo solenne e dalla voce possente, non trasportava semplici oggetti né trasmetteva mere notizie. Lui generava effetti. Ovunque si recasse, lasciava un’eco di cambiamento: talvolta era conforto e sollievo, altre volte dolore e danno. Quando il vento di una tempesta attraversava i campi, era lui a lasciare le tracce della sua forza; quando un gesto gentile ridava speranza, era lui a far sentire il suo peso invisibile.
I saggi del regno, che studiavano le parole, lo descrivevano come il messaggero delle conseguenze. Non portava cose, ma effetti, e sempre in modo astratto. Si poteva dire che il suo viaggio aveva arrecato sofferenza o felicità, ma mai si sarebbe detto che aveva arrecato un pacco o un dono.
Recare, invece, era un viandante instancabile, sempre in cammino. Con lui, ogni cosa si muoveva: lettere, notizie, oggetti e persone. Il suo compito era chiaro: far sì che qualcosa arrivasse a destinazione. Gli abitanti di Verbopoli lo vedevano attraversare terre e confini con libri sotto il braccio, messaggi da recapitare, viaggiatori al suo fianco. Se un uomo partiva per una città lontana, si diceva che si era recato là; se qualcuno portava un regalo a un amico, era lui a recare il dono.
Un giorno, durante una grande assemblea nella locale biblioteca, un giovane studioso si alzò in piedi e, con tono sicuro, pronunciò un discorso in cui parlava di un documento che era stato "arrecato" da un lontano regno. Gli astanti tacquero e si guardarono perplessi. In fondo alla sala, un anziano grammatico si alzò e disse con un sorriso: Illustre collega, il suo intervento è stato brillante, ma ha arrecato un piccolo danno alla grammatica! Da quel giorno, il giovane non sbagliò più e il regno intero imparò a distinguere i due messaggeri.
Non molto tempo dopo, un poeta cadde in una profonda crisi creativa. Doveva comporre un sonetto sull’amore tormentato, ma non sapeva se usare arrecare o recare per descrivere il peso di un sentimento. Camminò per ore tra le sale della biblioteca del regno, chiedendo consiglio ai saggi. Alla fine decise per arrecare, perché voleva sottolineare il dolore causato dalla passione. Il suo editore, però, gli suggerì di usare recare, per dare un senso più concreto al sentimento. Il poeta rispose con fermezza: L’amore non si porta, si subisce!
E così, mentre il sole tramontava su Verbopoli, Arrecare e Recare continuarono il loro cammino. Uno lasciava tracce invisibili nel cuore degli abitanti, l’altro consegnava oggetti (e notizie) con passo deciso. Nessuno più li confondeva. E nel grande libro della Lingua il loro racconto era inciso per sempre, a ricordare ai parlanti e agli scriventi che sapere scegliere il verbo giusto significa comprendere la vera essenza del messaggio.
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Nel XVII secolo, con un editto un re (non si conosce il Paese) stabilì che i cittadini dovevano essere puniti se recavano disturbo alle autorità. Un grammatico dell’epoca fece notare che sarebbe stato più corretto scrivere arrecavano disturbo, poiché il disturbo è un effetto, non un oggetto trasportato. L’errore rimase nel testo ufficiale e fu citato nei secoli successivi come esempio di scarsa attenzione alla lingua!
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Si racconta che Gabriele D’Annunzio fosse ossessionato dalle sfumature delle parole. Un giorno, mentre correggeva un suo testo, si fermò a lungo su una frase che parlava di una sofferenza causata da un amore tormentato. Dopo un lungo dibattito interiore, decise che doveva scrivere questo amore ha arrecato dolore, perché recare gli sembrava troppo concreto per un sentimento così astratto.

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