sabato 24 agosto 2019

Sgroi - 29 - L'errore: Chi è costui?

di Salvatore Claudio Sgroi *

 
1. L'Errore? Un uso sgrammaticato!
    L'errore tradizionalmente inteso come "uso sgrammaticato" e quindi decisamente da condannare implica spesso che individuarne la "causa" o per meglio dire la "Regola" che lo ha prodotto, comporti di per sé in genere l'"assoluzione", la "giustificazione" e quindi la sua "accettabilità".

     1.1. Presunta assoluzione, non accettabile
        Tale rilievo (presunta assoluzione, non accettabile) ci è stato mosso da illustri e stimati colleghi, pubblicamente e privatamente.
        Così a proposito della pronuncia non canonica sàlubre, darsèna, mòllica mi è stato rilevato:
        «Sgroi motiva le varianti anetimologiche [...] con l’attrazione di serie paradigmatiche strutturalmente più forti. Già: ma il problema non è quello di giustificare la forma innovativa (tutte le forme che si allontanano dalla tradizione sono linguisticamente spiegabili: con lo stesso metro, neanche stasse o venghino potrebbero essere definiti “errori”, in quanto forme analogiche sulla prima coniugazione verbale)».
         Tale rilievo critico mi è stato richiamato più di recente da un secondo collega, che lo ha fatto proprio.
         A proposito dell'intervento su "La rimozione dell'inconscio, ovvero la censura della "virgola tematica" (10 aprile) un terzo collega ha così commentato:
         "È assolutamente evidente che gli errori hanno sempre una motivazione, nella lingua, in auto, nella vita, sul lavoro. Non per questo smettono di essere errori".
          Lo stesso collega con riferimento a un precedente intervento su Il congiuntivo e la "regola di adiacenza" (9 febbraio 2019), si era così espresso:
         "Caro Claudio,
         la "regola" che avevi scovato per dare una mano agli analfabeti funzionali della politica e del sindacato sarà senza dubbio buona, perché tu sei un eccellente linguista, e i linguisti sono come gli avvocati, che qualche cosa trovano sempre.
         Non contesto dunque la tua regola, ma mi permetto di pensare che nella lingua ci sono altri valori oltre a quelli della devianza e della marginalità, e il cambiamento non è l'unico motivo di interesse".

1.2. Distinguere (i) la Regola alla base della produzione di un Uso giudicato errato, variamente diffuso e (ii) il Giudizio di valore di tale uso giudicato "errato" sulla base di criteri che vanno esplicitati
         Questa la mia risposta al secondo collega:
         "Questo è un punto fondamentale. Qui il collega [che tu citi] ed altri confondono (i) l'individuazione della "regola" che spiega per es. l'analogico venghino con (ii) il giudizio di corretto/sbagliato, che invece si basa su criteri spesso non esplicitati (qui l'uso pop.), come peraltro ho più volte detto (vedi p.e. Sgroi 2015, Grammatica“clericale” vs grammatica “laica”, che tu citi) e ribadisco nel mio volumetto su Gli Errori ovvero le Verità nascoste (ora edito dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani di Palermo):
          "Un errore, un uso cioè giudicato errato, non è invero un uso «sgrammaticato». L’Errore è un uso, variamente diffuso, generato da una Regola («nascosta», concorrente con o in alternativa a un’altra) e giudicato «errato» con motivazioni diverse (diastratiche, di comprensibilità, ma anche etimologiche, logicistiche ecc.)".
         La mia risposta al rilievo del terzo collega è stata analoga:
         "Tu consideri un “errore“ la virgola tematica. D’accordo. Però da un punto di vista teorico, non puoi confondere la “MOTIVAZIONE” che è in realtà la “Regola” che genera l’uso giudicato errato; qui la virgola tematica. Tale “motivazione” per me invece “Regola”, richiede invero conoscenze di teoria linguistica, a volte anche complesse o raffinate.
          La MOTIVAZIONE è – dal punto di vista teorico – da distinguere dal GIUDIZIO NORMATIVO, che può essere positivo o negativo (nel caso specifico della virgola tematica, il tuo giudizio normativo è negativo).
          Ma anche qui – dal punto di vista teorico – devi esplicitare i criteri per il tuo giudizio. Qui i criteri sono diversi per te e per me. D’accordo, ma vanno esplicitati.
          Per te, se non vado errato, i criteri sono diversi: ora è (i ) quello della maggioranza dei parlanti (colti), ora è (ii) quello etimologico, o (iii) quello dell’uso più antico (vedi il qual è) specchio del troncamento d'antan di quale in qual (l'arcaico qual ragazzo) rispetto al qual'è apostrofato collegabile non più con il troncamento (l'odierno quale ragazzo) ma con l'elisione".

 1.3. Il criterio dell'uso letterario antico
           Il criterio dell'uso letterario dei secoli scorsi se non si è protratto fino all'uso contemporaneo, non può peraltro essere invocato quale criterio pertinente per decidere la correttezza.
          Così forme di congiuntivo possibili in passato come abbi (in Verga e Pirandello), stii (in Verga) e molte altre forme utilizzate, nei decenni precedenti, da autori illustri: leggittima in Verga, presaggio in Capuana, induggia in Pirandello, lascierei in Verga, biricchino in Pirandello, -- non sono giustificabili ovvero non sono "accettabili" perché abbandonate dagli scrittori contemporanei e dagli italografi colti, e ora sono diventate tipiche delle scritture degli incolti.

 1.4. Lapsus letterari di usi popolari
          Nel caso poi del se ipotetico col condizionale (es. se potrei lo farei) si tratta di usi giudicati erronei, perché propri dell'italiano popolare, anche se presenti occasionalmente in scrittori come Sciascia, ecc. in quanto "lapsus" occasionali, dovuti all'emergenza della regola tipica dell'italiano popolare.

          1.5. Il criterio del "pudore linguistico" e dell'"accettabilità"
          Il secondo collega richiama col primo la nozione di "pudore linguistico" o "comune senso della norma linguistica" alla base del "giudizio di accettabilità" per decidere se un uso è corretto o meno.
          Ma anche qui il problema è capire qual'è (sic!) il criterio o i criteri alla base del "comune senso della lingua" da parte del grammatico o dei parlanti in generale, altrimenti si resta nell'ambito del puro soggettivismo.
         Il problema è ancora più delicato quando "la sanzione sociale" riguarda "certe forme considerate (da una fetta della comunità degli utenti linguistici) più sconvenienti di altre, pur senza essere, tecnicamente, dei popolarismi".
         A me sembra che dinanzi a usi controversi, che non siano popolarismi, occorre riconoscere la legittimità dei diversi usi in questione, e non giudicare "errato" un uso solo perché diverso dal proprio.
        Le "diverse opzioni percepite con diversi gradi di accettabilità" vanno invero rispettate nella loro diversità.
        A questo punto però, va anche tenuto presente quale sia "il potere" di chi giudica gli usi diversi degli altri -- per es. un commissario agli esami di un concorso, un professore agli esami di stato, ecc. Perché c'è pure da chiedersi come 'difendersi' da giudici dogmatici, intolleranti, rigidi, nell'attesa di una loro maturazione metalinguistica, di là da venire. La strategia dell'"evitamento", sembra quella più produttiva, dinanzi a certe grafie (pur erroneamente) giudicate errate o certi indicativi pro congiuntivo o certe forme colloquiali in luogo di usi formali, ecc. E quindi il docente farà certamente bene ad allertare i suoi studenti sulle scelte "a rischio" degli usi linguistici, chiarendo nel contempo la situazione "conflittuale" nell'ambito della ideologia sia dei grammatici che dei parlanti.

 1.6. Il criterio della "maggioranza" per decidere l'uso corretto? Sì, ma senza 'rottamare' la minoranza
           Un altro criterio tirato in ballo per decidere la correttezza di un uso è quello della maggioranza dei parlanti (colti o mediamente colti), certamente pertinente. Ma ciò non può implicare ipso facto il colpevolizzare l'uso diverso della minoranza (colta). Mi sembra che si debba sostenere la coesistenza (pacifica) degli usi maggioritari e minoritari (colti), da non -- ribadisco -- colpevolizzare in quanto appunto minoritari, giacché lo standard comporta non solo forme uniche ma anche varianti (colte).

 2. Laicità del grammatico-linguista
           In conclusione, il linguista 'laico', lungi dal fare di tutte le erbe un fascio, distingue -- nell'ambito dell'educazione linguistica -- quale bussola normativa gli usi (comprensibili) dei parlanti colti da quelli tipici dell'italiano popolare, intralcio all'integrazione sociale.

           Sommario
          1. L'Errore? Un uso sgrammaticato!
                 1.1. Presunta assoluzione, non accettabile
                 1.2. Distinguere (i) la Regola alla base della produzione di un Uso, variamente diffuso e (ii) il Giudizio di   valore di tale uso giudicato "errato" sulla base di criteri che vanno esplicitati
                 1.3. Il criterio dell'uso letterario antico
                 1.4 Lapsus letterari di usi popolari
                 1.5. Il criterio del "pudore linguistico" e dell'"accettabilità"
                 1.6. Il criterio della "maggioranza" per decidere l'uso corretto? Sì, ma senza rottamare la minoranza
            2. Laicità del grammatico-linguista
 
* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania








 

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