mercoledì 17 settembre 2025

Strazio: anatomia di una ferita linguistica - Una parola che lacera, attraversa il corpo e l’anima, e lascia il dolore allo scoperto

 

Nel nostro tempo, il linguaggio del dolore sembra aver perso la lama. Si è fatto ovattato, smussato, anestetizzato dalla retorica del conforto. Eppure, alcune parole resistono. Non si piegano alla consolazione, non si lasciano addomesticare. Strazio è una di queste. Non è solo un vocabolo: è un’esperienza. Una fenditura nel tessuto della lingua, che rende visibile ciò che normalmente resta invisibile. Una parola che non descrive il dolore, lo squarcia. In queste noterelle, ne seguiamo la traiettoria: dalla carne all’anima, dalla tortura al tormento, dalla storia alla voce. Perché strazio non è solo ciò che si prova. È ciò che resta.

Alcune parole non si limitano a descrivere il dolore: lo incarnano. Strazio è una di queste. Non è solo un termine, ma un’esperienza linguistica che squarcia, che rende visibile ciò che normalmente resta invisibile: la sofferenza, la lacerazione, il tormento. È una parola che non consola, ma testimonia. E proprio per questo, è potente.

La sua origine è già un grido derivando dal latino distractio, da distrahĕre, “tirare in direzioni opposte”, “lacerare”, “smembrare”. Quando “è nato” il temine indicava la mutilazione fisica, lo squarcio del corpo, spesso come forma di tortura o supplizio. Ma nel passaggio dai supplizi medievali alla lingua moderna, il termine ha compiuto una trasmigrazione: dal corpo all’anima, dalla ferita visibile al dolore invisibile.

Oggi, straziarsi è un verbo che si coniuga soprattutto nel registro emotivo. Si può ancora parlare di “un corpo ridotto a uno strazio” in un contesto tragico: un incidente, una guerra, una scena di violenza estrema. Ma è più frequente incontrarlo nei territori dell’interiorità: “uno strazio indicibile”, “vivere nello strazio”, “fare strazio di sé”. In queste espressioni, il dolore non è solo intenso: è disordinato, frammentato, ingestibile. Come se l’anima stessa fosse fatta a pezzi.

Ecco alcuni esempi che chiariscono meglio l’uso:

  • La notizia ha fatto strazio del suo animo: il dolore è così profondo da devastare la persona.

    Vive nello strazio da mesi: una condizione di tormento continuo, senza tregua.

    Fare strazio di qualcosa: distruggere, sciupare, rovinare. Si può fare strazio di un’opera d’arte, di una lingua, di un sentimento.

Non mancano usi figurati più ironici o iperbolici, che giocano con la potenza del lessema: quel cantante fa strazio della melodia; la grammatica è stata fatta a strazio in quel tema. In questi casi, il verbo conserva la sua carica distruttiva, ma la applica a contesti meno tragici, quasi caricaturali.

Strazio è dunque una parola soglia: tra corpo e spirito, tra violenza e poesia, tra tragedia e ironia. È il linguaggio che si fa esperienza, e l’esperienza che cerca parole per dirsi. Usarla significa evocare non solo il dolore, ma la sua forma, la sua struttura, il suo impatto. È una parola che non si limita a raccontare: squarcia.

È interessante notare, per concludere queste noterelle, che il sintagma strazio compare già in Dante, nel X canto dell’Inferno, per descrivere la carneficina della battaglia di Montaperti: Lo strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso. Ma nel Trecento, fare strazio poteva anche significare dileggiare, umiliare: Petrarca lo usa per distinguere tra danno materiale e offesa morale. Oggi, il vocabolo conserva entrambe le anime: quella che lacera il corpo, e quella che dilania l’animo.

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Ma quanto è “sporco” questo mondo!



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