C’è un aggettivo che negli ultimi anni ha invaso titoli, editoriali, recensioni, commenti politici e persino comunicati istituzionali: distopico. Lo si incontra dappertutto. Società distopiche, scenari distopici, romanzi distopici, riforme distopiche, futuri distopici. È diventato una sorta di marchio per descrivere il negativo, il cupo, il minaccioso. Ma siamo sicuri che chi legge (ne) conosca il significato? Siamo certi che questo aggettivo, così abusato, sia davvero comunicativo?
Distopico deriva dal sostantivo distopia, composto dal prefisso greco dys- (cattivo, nocivo) e tópos (luogo). Letteralmente: “luogo cattivo”. È l’opposto dell’utopia, che indica un luogo ideale e irrealizzabile. La distopia, invece, è l’incubo sociale, il futuro degradato, la civiltà che si è persa. Ma non tutti i lettori (e ascoltatori) hanno familiarità con questa genealogia. E non tutti – senza offendere nessuno – sono in grado di coglierne le sfumature. Il risultato? Un aggettivo che pretende di dire molto, ma spesso non dice nulla.
Nel linguaggio giornalistico, l’abuso è evidente. In una recensione televisiva si è parlato di “società distopica” per descrivere un futuro ipercontrollato, dove ogni gesto è tracciato e la riservatezza personale viene meno. In un commento politico, si è evocato “un clima distopico” per riferirsi alla gestione della pandemia, senza chiarire se si intendesse una deriva autoritaria o una semplice misura sanitaria. In un articolo culturale, si è definito “distopico” un romanzo ambientato in una società trasparente fino all’annullamento dell’intimità individuale, lasciando il lettore in balìa dell’ambiguità.
In tutti questi casi, distopico è un aggettivo che non chiarisce, non specifica, non comunica. E allora viene da chiedersi: perché non usare parole più precise, più immediate, più adatte al contesto?
Se la riforma è oppressiva, si può dire autoritaria. Se il futuro è cupo, si può dire catastrofico, desolante, negativo. Se il film mostra una società violenta, si può dire crudele, abietta, disumana. Se la gestione è stata rigida, si può dire repressiva, invasiva, soffocante.
Questi termini non chiedono sforzi di decodifica. Arrivano chiari, netti, senza bisogno di mediazioni.
Eppure, distopico continua a proliferare. Forse perché suona elegante, evocativo, ricercato. Forse perché permette di suggerire senza esplicitare, di criticare senza esporsi, di alludere senza spiegare. Ma la scrittura, specie quella rivolta al pubblico, dovrebbe avere come primo obiettivo la chiarezza. E la chiarezza non è nemica della profondità: è la sua condizione.
In un’epoca in cui la comunicazione è sempre più rapida, frammentata, istintiva, l’uso di aggettivi ambigui rischia di generare incomprensioni, distorsioni, equivoci. E allora, prima di scrivere distopico, chiediamoci: il lettore capirà? Il termine è davvero necessario? Esistono alternative più limpide?
La lingua del divino Dante è ricca, generosa, precisa. Non ha bisogno di aggettivi tuttofare. Ha bisogno di autori che scelgano le parole con cura, con responsabilità, con rispetto per chi legge. Perché ogni parola è un ponte, o un muro. E distopico, troppo spesso, è un muro travestito da ponte.
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La lingua “biforcuta” della stampa
I trasporti
Guasto sull’alta velocità Roma-Napoli, disagi e forti ritardi: treno retrocede e torna a Termini
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Nel contesto ferroviario il verbo retrocedere può risultare ambiguo o poco adatto. In italiano ‘comune’ retrocedere richiama più spesso un’idea di sconfitta, regressione o perdita di posizione (come nel calcio o nella carriera). Meglio: Guasto sull’alta velocità Roma-Napoli: il treno torna a Termini, disagi e forti ritardi.
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Torna il mercato fuorilegge di Roma: in vendita parmigiano e salmone rubati. E scatta il blitz
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Il mercato non è un bandito o un delinquente, ma illegale perché “fuori (della) legge”. In buona lingua: Torna il mercato fuori legge di Roma. Sorvoliamo sul barbarismo.

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