Nello sterminato panorama delle parole che attraversano lingue, epoche e discipline, medium si distingue per la sua natura poliedrica e sfuggente. È una di quelle voci che sembrano semplici, quasi trasparenti, ma che in realtà custodiscono una molteplicità di significati, usi e sfumature. Dal latino classico alle taglie delle magliette, dai salotti spiritici ai laboratori digitali, medium si è adattato con disinvoltura ai contesti più disparati, mantenendo sempre una funzione di tramite, di ponte, di spazio intermedio.
Eppure, proprio per questa sua duttilità, è anche una parola spesso fraintesa, storpiata, maltrattata. C’è chi la pronuncia mìdia, inseguendo l’eco anglofona dei notiziari, e chi la femminilizza per convenzione, ignorando la sua struttura invariabile. Queste noterelle hanno lo scopo di restituire a medium la sua dignità linguistica, esplorandone l’etimologia, il significato, gli usi corretti e gli scivoloni più comuni. Perché anche le parole, come i ponti, meritano manutenzione.
La parola medium, dunque, è un piccolo crocevia linguistico, un termine che si presta a molteplici usi e significati, oscillando tra il mondo della comunicazione, quello dello spiritismo, la moda e persino la fisica. La sua versatilità è il frutto di una stratificazione etimologica e culturale che merita attenzione.
L’origine del termine è latina: medium è il neutro sostantivato dell’aggettivo medius, che significa “mezzo”, “intermedio”, “centrale”. Da qui si sviluppano le diverse accezioni che il vocabolo ha assunto nel tempo, passando attraverso l’inglese medium e il francese médium, per poi stabilirsi in italiano con una pluralità di significati. In ogni caso, il concetto di “mezzo” resta il nucleo semantico attorno a cui ruotano le sue declinazioni.
Nel linguaggio comune, medium può indicare:
– un mezzo di comunicazione, come la televisione, la radio, la stampa, Internet. In questo senso, è spesso usato al plurale nella forma media, che è a sua volta un latinismo entrato stabilmente nel lessico italiano. Dire che “la televisione è un medium potente” significa riconoscerne il ruolo di veicolo di messaggi, di ponte tra emittente e ricevente.
Un errore frequente, soprattutto nel linguaggio giornalistico e televisivo, è la pronuncia mìdia al posto di mèdia. Questo scivolone fonetico deriva dall’influenza dell’inglese media, dove la “e” si pronuncia come una “i” lunga. Tuttavia, in italiano media è il plurale latino di medium, e la pronuncia corretta è con la “e” aperta: mèdia. L’uso di mìdia è dunque una contaminazione anglofona che, pur diffusa, è da ritenere scorretta.
– una persona che si ritiene capace di comunicare con entità spirituali o di provocare fenomeni paranormali. Questo uso, legato allo spiritismo e alla parapsicologia, si è diffuso in italiano a partire dalla fine dell’Ottocento, attraverso il francese médium. Il medium, in questo contesto, è l’intermediario tra il mondo visibile e quello invisibile, tra i vivi e i morti. È interessante notare come da questa accezione derivino termini come medianico, medianità, medianismo, che arricchiscono ulteriormente il campo semantico.
Importante sottolineare che medium non si femminilizza. Dire “Giovanna è una medium” è grammaticalmente errato. Il termine, essendo di origine latina e neutro, resta invariato nel genere: si dice Giovanna è un medium. Questo vale anche per altri latinismi invariabili, come forum, curriculum, referendum. La tentazione di adattare il genere al sesso del referente è comprensibile, ma va evitata per rispettare la struttura morfologica della parola.
– una taglia dell’abbigliamento, corrispondente alla misura media. In questo caso, medium è un prestito diretto dall’inglese, entrato nel linguaggio commerciale e quotidiano a partire dagli anni ’60 del Novecento. “Ho preso una maglietta taglia medium” è una frase ormai comune, dove il termine assume una funzione pratica e standardizzata.
– un mezzo espressivo o artistico: si parla di medium pittorico, medium digitale, medium narrativo, per indicare il veicolo attraverso cui si manifesta un contenuto creativo. In questo senso, il medium è ciò che consente la trasmissione di un’idea, di un’emozione, di una visione.
Gli esempi aiutano a cogliere la varietà d’uso:
– “Il medium scelto per la campagna pubblicitaria è stato Instagram, per la sua capacità di coinvolgere il pubblico giovane.” – “Durante la seduta spiritica, il medium ha affermato di percepire la presenza di uno spirito guida.” – “Preferisco la taglia medium, anche se a volte mi va stretta sulle spalle.” – “Il video è stato realizzato con un medium ibrido, mescolando animazione e riprese dal vivo.”
In tutti questi casi, il termine medium conserva la sua funzione di ponte, di tramite, di spazio intermedio. È il luogo linguistico dove qualcosa passa, si trasmette, si manifesta. E proprio per questo il suo uso corretto richiede attenzione al contesto: non è un termine generico, ma uno strumento preciso, che va calibrato con cura.
In conclusione, medium è una parola che vive di transiti. È il mezzo, ma anche il messaggio. È il tramite, ma anche il teatro dove il tramite si compie. Usarlo con consapevolezza significa riconoscerne la densità semantica e la sua capacità di adattarsi, senza perdere il centro. E soprattutto, significa proteggerlo da pronunce infedeli e da femminilizzazioni improvvisate, che ne tradirebbero la natura.
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Ricamatore: tra ago, trama e menzogna
Dopo aver esplorato la doppia vita di arpista, pizzicatore di corde e portafogli, e quella di prestigiatore, illusionista e borseggiatore, proseguiamo il nostro viaggio linguistico nei territori delle mani allusive. Stavolta l’ago è protagonista, e il gesto paziente del ricamo si trasforma in arte della manipolazione narrativa. Perché anche le parole, come i fili, possono essere intrecciate con maestria…
Nel linguaggio comune, ricamatore è l’artigiano che lavora con ago e filo, decorando tessuti con pazienza e precisione. È figura silenziosa, meticolosa, spesso associata all’eleganza del dettaglio e alla bellezza del superfluo.
Ma nel linguaggio figurato, e talvolta gergale, il termine assume una valenza più ambigua: ricamare significa costruire una versione dei fatti abbellita, ritoccata, talvolta falsa. Il ricamatore diventa così colui che imbastisce storie, che orna la realtà fino a travisarla, che cuce menzogne con la stessa cura con cui si decora un tessuto.
Questa accezione nasce da una metafora sartoriale: il gesto tecnico del ricamo, lento e preciso, si trasferisce al piano narrativo. Non si tratta di inventare, ma di abbellire, di aggiungere fronzoli, di rendere credibile l’inverosimile. In ambito giornalistico, giudiziario o quotidiano, si dice che qualcuno “ha ricamato” su una vicenda per renderla più appetibile, più drammatica, più utile.
Il sintagma ricamatore deriva dal verbo ricamare, che affonda le sue radici nell’arabo raqama, “ornare con segni” o “scrivere”, introdotto in Italia probabilmente attraverso il siciliano durante la dominazione islamica. La forma medievale recamare, attestata nel latino volgare, è da ritenere un adattamento fonetico del prestito arabo. Il verbo indica l’arte di decorare tessuti con fili colorati, dando forma a motivi ornamentali o figurativi.
Ancora un’altra curiosità linguistica che ci ricorda come, a volte, la menzogna non si costruisce con la voce… ma con le mani.
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Nota d’autore. Questo articolo esplora le ambiguità semantiche del termine ricamatore, senza alcuna intenzione diffamatoria o allusiva verso persone o categorie professionali. L’analisi si muove esclusivamente sul piano linguistico, tra etimologia, gergo e uso figurato. Ogni riferimento a pratiche illecite è da intendersi come parte di una riflessione sul linguaggio, non come attribuzione di comportamenti reali.
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La lingua “biforcuta” della stampa
"... l’esercito afferma che le truppe della Brigata Golani hanno individuato una cellula di cinque combattenti di Hamas che hanno lanciato lanciarazzi contro un edificio in cui erano di stanza."
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Ecco un caso di anfibologia, di cui la stampa è maestra insuperabile. La frase è costruita in modo tale da far sembrare che i combattenti di Hamas abbiano lanciato razzi contro l’edificio in cui erano di stanza (contro sé stessi, quindi). Il problema nasce dal relativo “in cui erano di stanza”, che sembra riferirsi al soggetto più vicino: i cinque combattenti di Hamas. Ma la logica (e non i "massinformisti") ci permette di capire che non è affatto così.
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C’è un momento, nella scrittura, in cui la sintassi si fa equilibrista. Le parole sembrano in fila, ordinate, eppure qualcosa non torna. Il lettore inciampa, si ferma, rilegge. Qualcosa lo trattiene, lo lascia incerto. È lì che si nasconde lei: l’anfibologia, l’ambiguità che nasce non da un errore, ma da un’eccessiva fiducia nella linearità del pensiero.
L’anfibologia è quella costruzione che può essere interpretata in due modi diversi, entrambi grammaticalmente corretti, ma solo uno voluto. L’altro è un intruso, un significato parallelo che si insinua tra le righe e confonde. Prendiamo questo periodo: “Le truppe hanno individuato una cellula di cinque combattenti di Hamas che hanno lanciato lanciarazzi contro un edificio in cui erano di stanza.” Chi era di stanza? Le truppe israeliane o i combattenti di Hamas? La frase non lo dice con chiarezza, e il lettore si ritrova a chiedersi chi stia facendo cosa.
Non serve il microscopio per riconoscerla, basta l’orecchio. L’anfibologia si rivela quando il pronome non ha un padrone certo, quando la subordinata può legarsi a più soggetti, quando il verbo riflessivo o impersonale crea nebbia. “Ha parlato con il fratello di Giovanni, che era molto agitato.” Chi era agitato? Il fratello o Giovanni? “Ha visto il ladro mentre usciva dalla banca.” Chi usciva? Il ladro o l’osservatore? “Ha detto a Maria che sarebbe partita.” Chi parte? Maria o chi parla?
L’anfibologia non si corregge, si riscrive. Si esplicita il soggetto, si cambia l’ordine, si sostituisce il pronome con il nome. Si restituisce alla frase la sua univocità. “...contro un edificio dove erano acquartierate le truppe israeliane.” “...contro l’edificio che ospitava le forze della Brigata Golani.”
La lingua è specchio del pensiero. E se il pensiero si sdoppia, il lettore si smarrisce. L’anfibologia è la nemica silenziosa della chiarezza, la sabotatrice della precisione. E Lo SciacquaLingua lo sa: ogni frase va lavata fino a farla brillare.

1 commento:
La lingua della stampa non è solo "biforcuta", ma anche assai imprecisa, o addirittura stramba. Lanciare dei "lanciarazzi" non è usuale; come non è usuale avanzare essendo "di stanza". La stanzialità non ha molto a che vedere col movimento.
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