Per chi ama la lingua con passione artigianale, nulla è più irritante di un termine usato a sproposito - o perlomeno impropriamente - quando l’abuso è talmente diffuso da sembrare legittimo, con il beneplacito, purtroppo, dei vocabolari dell'uso. È il caso di interdetto impiegato nel senso di “stupito”, “incredulo”, “attonito” e simili. Un uso scorretto, fuorviante, e per di più insidioso, perché mascherato da apparente plausibilità.
Per smascherare l’"errore", occorre risalire all’origine del verbo interdire, da cui deriva il participio passato interdetto. Il latino interdicere significa letteralmente “dire in mezzo”, nel senso di interrompere con un ordine, una sentenza, un divieto. Da qui il significato proprio: vietare, proibire, sospendere, revocare un’autorità.
Pensiamo all’interdizione giudiziale, che priva un individuo della capacità di agire legalmente, non certo perché sia “sbalordito”, ma perché gli è stata tolta l’autonomia. Oppure al linguaggio ecclesiastico: un luogo di culto interdetto non è in uno stato di “mistico stupore”, ma semplicemente chiuso al culto. Una strada interdetta al traffico non è “basita”, è vietata. Un bando di gara interdetto a certe aziende non le coglie “di sorpresa”, le esclude.
L’equivoco nasce forse da un’associazione mentale con espressioni come “rimanere senza parole”, “essere bloccati dall’incredulità”, come se il divieto implicito nell’essere interdetto si applicasse alla parola o al movimento, generando una sorta di paralisi emotiva. Ma è una forzatura, una distorsione che tradisce il senso etimologico e semantico del termine.
Per esprimere stupore, la lingua del divino Dante offre una tavolozza ricchissima e precisa: sbalordito, basito, allibito, di sasso, a bocca aperta. Lasciamo dunque a interdetto il suo compito nobile e rigoroso: indicare ciò che è vietato. E proteggiamo il lessico da derive semantiche che lo impoveriscono e lo confondono.
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Il masegnatore: un nome per chi custodisce Venezia sotto i nostri piedi
Chi cura Venezia sotto i nostri piedi? Passeggiando per le calli o i calli (sic!) ci lasciamo incantare dai riflessi sull’acqua, dai balconi fioriti, dai silenzi interrotti solo dal passo lento dei residenti. Ma raramente ci chiediamo chi si occupi della pavimentazione che sostiene tutto questo. Chi ripara le masegne, quei blocchi di trachite che compongono il selciato veneziano? Chi le riallinea quando cedono, chi le sostituisce quando si spezzano?
La risposta è sorprendente: non esiste un nome preciso per questa figura. Non un titolo, non un mestiere codificato. E allora, perché non colmare questo vuoto lessicale con un neologismo ben formato, evocativo e funzionale?
Proponiamo masegnatore. Il termine nasce dall’unione di masegna - la pietra squadrata tipica della pavimentazione veneziana - e il suffisso -tore, che indica chi esercita un mestiere o compie un’azione: come muratore, costruttore, intonacatore. Il masegnatore è dunque colui che si occupa della manutenzione, posa, riparazione e cura delle masegne. Un artigiano urbano, custode silenzioso della stabilità della Serenissima.
Usare questo nome significa dare dignità a un mestiere invisibile. Senza un nome, il ruolo resta nell’ombra. Con masegnatore, lo si riconosce, lo si può raccontare, tramandare, formare. Significa arricchire il lessico urbano: le città vivono anche nei nomi dei loro mestieri. Il gondoliere è iconico, il masegnatore può diventarlo. E significa scegliere una parola linguisticamente solida: il neologismo rispetta la morfologia italiana, è trasparente nel significato, e si pronuncia con naturalezza.
Le masegne sono parte integrante dell’identità veneziana. Posati a mano, resistenti all’acqua e al tempo, compongono un mosaico urbano che ha bisogno di cura costante. I tecnici comunali, gli operai specializzati, gli artigiani che intervengono su queste pietre meritano un nome che li rappresenti. Masegnatore è una parola che restituisce loro visibilità e valore.
Usiamolo. Scriviamolo nei regolamenti, nei bandi, nei racconti. Chiediamo ai masegnatori di raccontarci il loro lavoro. Facciamo entrare il vocabolo nei dizionari, non solo come lemma, ma come riconoscimento.
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Il lessema battitore è uno di quei casi in cui la lingua italiana si diverte a giocare su più registri. In apparenza semplice, nasconde una doppia vita che si rivela solo cambiando contesto.
Nel linguaggio ufficiale, il battitore è il banditore d’asta: figura elegante, spesso in smoking, che scandisce le offerte con il 'celebre' colpo di martelletto. Il suo “battere” è gesto rituale, solenne, che segna l’aggiudicazione di un oggetto. È il protagonista di una scena codificata, dove il ritmo è parte della cerimonia.
Nel gergo urbano, invece, il battitore è tutt’altro: è colui che “batte il terreno”, che fa da palo, che controlla la zona prima di un furto o di un’azione illecita. Il suo “battere” è esplorazione, sorveglianza, copertura. Non c’è martelletto, ma occhi attenti e movimenti rapidi.
In entrambi i casi, il battitore è colui che anticipa, che osserva, che dà il via. Ma il contesto trasforma il gesto da legittimo a clandestino.
Il verbo battere, dal latino battuĕre, ha una gamma semantica vastissima: colpire, percuotere, esplorare, scandire, segnalare. Da qui derivano mestieri e ruoli che, pur condividendo la radice, divergono radicalmente nel significato.
Una curiosità linguistica che mostra come la stessa parola possa vivere due vite parallele: una sotto i riflettori, l’altra nell’ombra.

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