Nel regno incantato della lingua italiana, ogni parola ha un’anima e ogni verbo una storia da raccontare. Alcuni si muovono con eleganza, altri con forza, ma tutti vivono in armonia sulle rive di un lago molto speciale: il Lago dei Verbi. Questa favola nasce per svelare, con dolcezza e fantasia, uno dei segreti più affascinanti della grammatica: la differenza tra verbi riflessivi e verbi pronominali.
Attraverso specchi magici, particelle smarrite e saggi dalle barbe di sillabe, il lettore viene accompagnato in un viaggio dove la grammatica non è più un insieme di regole astratte, ma un mondo vivo e pulsante, popolato da verbi che pensano, si interrogano e si raccontano. Una lettura pensata per chi ama imparare giocando con le parole, e per chi crede che anche la grammatica possa avere il suo lieto fine.
C’era una volta, nel cuore del Regno della Grammatica, un lago splendente e misterioso chiamato Lago dei Verbi. Le sue acque erano fatte di coniugazioni e riflessi, e sulle sue sponde crescevano due alberi molto speciali, ciascuno con frutti grammaticali unici.
Sul lato sinistro del lago si ergeva l’Albero dei Verbi Riflessivi. I suoi frutti erano lucenti e ciascuno portava con sé un piccolo specchio incantato. Quando un frutto come lavarsi voleva compiere un’azione, lo specchio si illuminava e mostrava che l’azione ricadeva su sé stesso.
Il frutto lavarsi diceva con orgoglio: “Io mi lavo… chi lavo? Me stesso! Tu ti lavi… chi lavi? Te stesso!”
E così ogni verbo riflessivo si specchiava e capiva che l’azione tornava indietro, come un’onda che accarezza la riva e poi si ritira. C’erano anche pettinarsi, truccarsi, vestirsi, tutti felici di sapere che ciò che facevano, lo facevano su sé stessi.
Sull’altra sponda del lago cresceva l’Albero dei Verbi Pronominali. I suoi frutti erano vivaci e chiacchieroni, e pur usando le stesse particelle dei riflessivi (mi, ti, si, ci, vi, si), non avevano specchi. Quelle particelle erano per loro come piccoli aiutanti magici, capaci di dare un significato nuovo al verbo.
Il frutto pentirsi spiegava: “Io mi pento… ma non sto pentendo me stesso! È solo il modo in cui esprimo il mio dispiacere.”
E addormentarsi aggiungeva, sbadigliando: “Io mi addormento… non sto addormentando me stesso, è semplicemente l’azione di prendere sonno.”
C’erano anche vergognarsi, innamorarsi, arrabbiarsi, tutti uniti dal fatto che senza quella particella, il verbo non avrebbe avuto senso o non sarebbe nemmeno esistito.
Un giorno, una piccola particella di nome si si smarrì tra le fronde dell’Albero dei Riflessivi. Vedendo il verbo pettinarsi, si sentì a casa. Ma poi incontrò vergognarsi e si confuse: “Aspetta… questo verbo usa me, ma non sta vergognando sé stesso!”
La povera si cominciò a girare in tondo, chiedendo a tutti: “Sono riflessiva o pronominale? A quale categoria appartengo?”
Dal centro del lago, emerse allora il Saggio nonno Verbo, con una lunga barba fatta di sillabe e una voce che sembrava un canto d’etimologia. Si sedette su una roccia di punteggiatura e disse:
“Cari Verbi, la particella che usate, che sia mi, ti, si, ci, vi, si, ha due ruoli. Per i Verbi Riflessivi, è come uno specchio: l’azione che fate torna sempre a voi. Provate a dire ‘...me stesso’, ‘...te stesso’, ‘...se stesso’. Se ha senso, siete riflessivi!”
I frutti dell’albero riflessivo si guardarono gli uni gli altri e annuirono, soddisfatti.
“Invece,” continuò nonno Verbo, “per i Verbi Pronominali, la particella è come un compagno inseparabile che modifica il significato del verbo. L’azione non torna indietro. Pentirsi, vergognarsi, addormentarsi… non potete dire ‘pentire qualcuno’ o ‘vergognare te stesso’. Senza la particella, il verbo perde la sua magia.”
La particella si si illuminò di gioia. Aveva finalmente capito il suo ruolo: a volte specchio, a volte compagna, ma sempre fondamentale.
Da quel giorno, i verbi riflessivi continuarono a usare le particelle come specchi, e i pronominali come chiavi segrete per esprimere emozioni, stati e trasformazioni. E ogni volta che qualcuno si confondeva, bastava chiedersi: “L’azione ricade su me stesso?”
Se la risposta era sì, il verbo era riflessivo. Se no, era pronominale. E così, nel Regno della Grammatica, tutti vissero felici, ordinati e… ben coniugati.
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La lingua “biforcuta” della stampa
Il caso
“Falsità su Almasri”: indagata Bartolozzi, la capo di gabinetto di Nordio. Il ministro la difende
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Il femminile di capo, secondo la grammatica italiana, è “capa”. I sostantivi maschili in “-o” nella forma femminile mutano la desinenza “-o” in “-a”: sarto/sarta; cuoco/cuoca; nonno/nonna; bambino/bambina; ragazzo/ragazza. Riportiamo, in proposito, la nota d’uso del Garzanti: Il femminile regolare di capo, nel significato di persona che esercita un comando o dirige un’impresa, è capa, e così si può chiamare una donna che svolge tale funzione; tuttavia, poiché questa forma ha spesso un uso scherzoso, molti preferiscono chiamare anche una donna capo, al maschile. Si tratta di una scelta, però, che può creare nel discorso qualche problema per le concordanze.

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