Nel contesto dei concorsi pubblici, la sorveglianza durante le prove scritte è affidata a figure incaricate di garantire il regolare svolgimento dell’esame e di prevenire comportamenti illeciti, quali la copiatura o la comunicazione tra candidati. Sebbene tali personaggi siano spesso definiti in modo generico come “sorveglianti” o “commissari d’aula”, si avverte l’esigenza di una denominazione più specifica, che identifichi con precisione la funzione esercitata in relazione all’atto del copiare.
Il neologismo guardacopiante risponde a tale esigenza, proponendosi come termine composito di immediata trasparenza semantica. Derivato dalla fusione di guardare e copiante (participio presente di copiare), esso designa l’individuo preposto al controllo visivo dei candidati con l’obiettivo di impedire la riproduzione non autorizzata di contenuti durante la prova. La sua applicazione si estende a contesti amministrativi, scolastici e giornalistici, laddove si intenda descrivere con precisione il ruolo operativo di chi vigila sull’integrità della prova scritta.
In testi regolamentari o descrittivi, il termine può comparire in enunciati quali: “Durante la prova scritta, ogni aula era presidiata da due guardacopianti”, oppure “Il regolamento prevede la presenza di almeno un guardacopiante per ogni venti candidati”. In ambito scolastico, si potrebbe affermare che “la funzione del guardacopiante è distinta da quella del docente somministratore”.
Il sostantivo è invariabile nel genere (il guardacopiante, la guardacopiante) e regolare nel numero (i guardacopianti). Può essere impiegato anche in funzione attributiva: presenza guardacopiante, sorveglianza guardacopiante, protocollo guardacopiante. Data la chiarezza morfologica e la pertinenza funzionale, il termine risulta candidabile alla lemmatizzazione nei vocabolari dell’uso contemporaneo della lingua italiana.
guardacopiante /ɡuar.da.coˈpjante/ s.m. (pl. guardacopianti) – Persona incaricata di sorvegliare i candidati durante una prova scritta, con l’obiettivo di prevenire atti di copiatura o comunicazione non autorizzata. Etim. comp. di guardare e copiante (part. pres. di copiare). Uso tecnico-descrittivo in ambito concorsuale e scolastico.
Nel vasto repertorio della lingua italiana, esistono coppie di verbi che si sfiorano semanticamente, si rincorrono nei contesti d’uso, ma non si sovrappongono del tutto. Sturare e sgorgare ne sono un esempio emblematico: non sinonimi, ma affini, talvolta intercambiabili, più spesso distinti da una sottile ma significativa differenza di campo semantico e di azione.
Entrambi evocano la rimozione di un blocco, il ripristino di un passaggio, ma lo fanno con prospettive diverse. Sturare è il verbo generico, il gesto risolutivo che libera un’apertura ostruita, qualunque essa sia. Sgorgare, invece, è il verbo fluido, che riguarda esclusivamente il deflusso di liquidi da un condotto ostruito.
L’etimologia ci aiuta a comprendere la distinzione. Sturare deriva da turare, con il prefisso privativo s- che ne capovolge il significato: togliere ciò che è stato messo a chiusura. Da qui la sua versatilità: si può sturare una bottiglia di spumante per festeggiare, sturare un orecchio dal cerume, o persino sturare un naso congestionato. Il verbo si adatta a ogni contesto in cui un’apertura è stata chiusa, sia essa fisica, organica o meccanica.
Sgorgare, invece, deriva da gorgo, termine che indica un vortice d’acqua, un punto profondo in cui il liquido si raccoglie e ribolle. Il prefisso s- (dal latino ex-) suggerisce l’uscita da quel luogo di accumulo. Sgorgare è dunque il verbo che descrive il fluire impetuoso di un liquido verso l’esterno, il suo liberarsi da un ostacolo. Si usa per descrivere il momento in cui un lavandino intasato torna a funzionare, o quando un torrente, liberato dal ghiaccio, riprende a scorrere. È per questo che si può dire: ho chiamato l’idraulico per sgorgare il lavandino, oppure il fiume, dopo il disgelo, ha sgorgato l’alveo ostruito. Ma non si può sgorgare una bottiglia o un orecchio, perché l’azione si concentra unicamente sulla dinamica dei fluidi.
La differenza tra i due verbi risiede nel tipo di blocco e nella natura dell’oggetto coinvolto. Se l’obiettivo è rimuovere un’ostruzione generica, si usa sturare. Se invece si vuole ripristinare il flusso di un liquido in un condotto, il verbo corretto è sgorgare. Ecco perché si dice: il medico mi ha sturato l’orecchio dal cerume, e non “me l’ha sgorgato”.
Sturare è il verbo dell’atto risolutivo, sgorgare quello del fluire ritrovato. Entrambi raccontano una liberazione, ma con accenti diversi: uno meccanico, l’altro idraulico. E come spesso accade nella lingua, la precisione lessicale è anche una forma di rispetto per la realtà che si descrive.
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Chi non stura, si turba. Il blocco non è solo fisico, ma anche mentale.
Meglio un lavandino che sgorga che mille parole che ristagnano. La fluidità è sempre preferibile all’accumulo.
Quando il cuore sgorga, non serve sturarlo. Per momenti di commozione o confessione.
Stura oggi, sgorga domani. La pazienza del risolutore: prima si agisce, poi si vede il risultato.
Chi sgorga senza sturare, ha trovato la via nascosta. Per i saggi che risolvono senza sforzo apparente.

1 commento:
Guardacopiante? Ma per carità!
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