martedì 30 settembre 2025

Sigillare vs suggellare: alla radice della doppia g

 

Perché sigillare si scrive con una sola “g”, mentre suggellare ne richiede due? La domanda, apparentemente capricciosa, rivela invece un nodo affascinante di evoluzione fonetica, stratificazione morfologica e sensibilità stilistica.

Entrambi i verbi derivano dal latino sigillare, che nasce da sigillum, diminutivo di signum, “segno”. Ma nel passaggio all’italiano, questa radice ha generato due forme distinte: sigillare, più fedele alla grafia latina, e suggellare, frutto di una trasformazione fonetica che ha portato al raddoppiamento della consonante. Non si tratta di due etimologie separate, bensì di una biforcazione evolutiva: da un lato il prestito dotto, sobrio e lineare; dall’altro la forma popolare, più marcata e ritmica.

La doppia “g” in suggellare è il risultato di un rafforzamento fonosintattico, un fenomeno per cui la consonante iniziale di una parola viene intensificata quando preceduta da un prefisso o da una particella che ne sollecita l’accento. In questo caso, il prefisso sub- (oggi non più percepito come tale) ha agito sulla “g” di sigillare, generando una pronuncia più incisiva: sub-sigillaresuggellare. Il raddoppiamento non è quindi arbitrario, ma foneticamente motivato.

Al contrario, sigillare conserva la “g” singola perché non subisce alcuna pressione fonetica o morfologica che ne giustifichi il rafforzamento. La “g” intervocalica rimane tale, come in sigillo, regina, magia. La forma è piana, coerente, priva di tensioni.

Sul piano semantico, i due verbi si sovrappongono in molti contesti, ma non sono del tutto equivalenti. Sigillare è più tecnico, notarile, burocratico: si sigilla una busta, un documento, un’urna. Suggellare ha invece un tono più solenne, spesso metaforico: si suggella un patto, un amore, una vittoria. La doppia “g” sembra quasi voler imprimere più forza, più solennità. E in effetti, la lingua non è solo logica: è anche ritmo, intensità, stile.

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Il cognato reale e quello figurato


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l sintagma cognato è curioso perché racchiude due significati distinti: uno familiare (che si potrebbe definire reale), l’altro linguistico (che si potrebbe definire figurato). Nella vita quotidiana, il cognato è il fratello del coniuge o il marito della sorella. In linguistica, invece, un cognato è una parola che condivide la stessa origine etimologica con un’altra, anche se appartiene a lingue diverse.

Entrambi i significati derivano dal latino cognatus, composto da co- (“con”) e gnatus, participio passato di nasci, “nascere”. Il senso originario è dunque “nato insieme”, “imparentato”. Da qui, il passaggio al significato familiare è diretto: il cognato è un parente acquisito, ma comunque legato da un vincolo riconosciuto. In ambito linguistico, invece, il termine è stato ripreso in epoca moderna per indicare parole “imparentate” per origine, anche se divergenti per forma e significato. E.g. madre in italiano, mother in inglese e Mutter in tedesco sono cognate: tutte derivano dal protoindoeuropeo méh₂tēr.

In entrambi i casi, il cognato è un “prossimo non immediato”: non è il fratello, ma il fratello del coniuge; non è la stessa parola, ma una parola che ha radice comune. Il legame è reale, ma mediato. E forse è proprio questa mediazione a rendere il termine così affascinante: cognato è il nome di una prossimità che non si impone, ma si scopre.







lunedì 29 settembre 2025

Il medium è uno, ma parla per molti


N
ello sterminato panorama delle parole che attraversano lingue, epoche e discipline, medium si distingue per la sua natura poliedrica e sfuggente. È una di quelle voci che sembrano semplici, quasi trasparenti, ma che in realtà custodiscono una molteplicità di significati, usi e sfumature. Dal latino classico alle taglie delle magliette, dai salotti spiritici ai laboratori digitali, medium si è adattato con disinvoltura ai contesti più disparati, mantenendo sempre una funzione di tramite, di ponte, di spazio intermedio.

Eppure, proprio per questa sua duttilità, è anche una parola spesso fraintesa, storpiata, maltrattata. C’è chi la pronuncia mìdia, inseguendo l’eco anglofona dei notiziari, e chi la femminilizza per convenzione, ignorando la sua struttura invariabile. Queste noterelle hanno lo scopo di restituire a medium la sua dignità linguistica, esplorandone l’etimologia, il significato, gli usi corretti e gli scivoloni più comuni. Perché anche le parole, come i ponti, meritano manutenzione.

La parola medium, dunque, è un piccolo crocevia linguistico, un termine che si presta a molteplici usi e significati, oscillando tra il mondo della comunicazione, quello dello spiritismo, la moda e persino la fisica. La sua versatilità è il frutto di una stratificazione etimologica e culturale che merita attenzione.

L’origine del termine è latina: medium è il neutro sostantivato dell’aggettivo medius, che significa “mezzo”, “intermedio”, “centrale”. Da qui si sviluppano le diverse accezioni che il vocabolo ha assunto nel tempo, passando attraverso l’inglese medium e il francese médium, per poi stabilirsi in italiano con una pluralità di significati. In ogni caso, il concetto di “mezzo” resta il nucleo semantico attorno a cui ruotano le sue declinazioni.

Nel linguaggio comune, medium può indicare:

– un mezzo di comunicazione, come la televisione, la radio, la stampa, Internet. In questo senso, è spesso usato al plurale nella forma media, che è a sua volta un latinismo entrato stabilmente nel lessico italiano. Dire che “la televisione è un medium potente” significa riconoscerne il ruolo di veicolo di messaggi, di ponte tra emittente e ricevente.

Un errore frequente, soprattutto nel linguaggio giornalistico e televisivo, è la pronuncia mìdia al posto di mèdia. Questo scivolone fonetico deriva dall’influenza dell’inglese media, dove la “e” si pronuncia come una “i” lunga. Tuttavia, in italiano media è il plurale latino di medium, e la pronuncia corretta è con la “e” aperta: mèdia. L’uso di mìdia è dunque una contaminazione anglofona che, pur diffusa, è da ritenere scorretta.

– una persona che si ritiene capace di comunicare con entità spirituali o di provocare fenomeni paranormali. Questo uso, legato allo spiritismo e alla parapsicologia, si è diffuso in italiano a partire dalla fine dell’Ottocento, attraverso il francese médium. Il medium, in questo contesto, è l’intermediario tra il mondo visibile e quello invisibile, tra i vivi e i morti. È interessante notare come da questa accezione derivino termini come medianico, medianità, medianismo, che arricchiscono ulteriormente il campo semantico.

Importante sottolineare che medium non si femminilizza. Dire “Giovanna è una medium” è grammaticalmente errato. Il termine, essendo di origine latina e neutro, resta invariato nel genere: si dice Giovanna è un medium. Questo vale anche per altri latinismi invariabili, come forum, curriculum, referendum. La tentazione di adattare il genere al sesso del referente è comprensibile, ma va evitata per rispettare la struttura morfologica della parola.

– una taglia dell’abbigliamento, corrispondente alla misura media. In questo caso, medium è un prestito diretto dall’inglese, entrato nel linguaggio commerciale e quotidiano a partire dagli anni ’60 del Novecento. “Ho preso una maglietta taglia medium” è una frase ormai comune, dove il termine assume una funzione pratica e standardizzata.

– un mezzo espressivo o artistico: si parla di medium pittorico, medium digitale, medium narrativo, per indicare il veicolo attraverso cui si manifesta un contenuto creativo. In questo senso, il medium è ciò che consente la trasmissione di un’idea, di un’emozione, di una visione.

Gli esempi aiutano a cogliere la varietà d’uso:

– “Il medium scelto per la campagna pubblicitaria è stato Instagram, per la sua capacità di coinvolgere il pubblico giovane.” – “Durante la seduta spiritica, il medium ha affermato di percepire la presenza di uno spirito guida.” – “Preferisco la taglia medium, anche se a volte mi va stretta sulle spalle.” – “Il video è stato realizzato con un medium ibrido, mescolando animazione e riprese dal vivo.”

In tutti questi casi, il termine medium conserva la sua funzione di ponte, di tramite, di spazio intermedio. È il luogo linguistico dove qualcosa passa, si trasmette, si manifesta. E proprio per questo il suo uso corretto richiede attenzione al contesto: non è un termine generico, ma uno strumento preciso, che va calibrato con cura.

In conclusione, medium è una parola che vive di transiti. È il mezzo, ma anche il messaggio. È il tramite, ma anche il teatro dove il tramite si compie. Usarlo con consapevolezza significa riconoscerne la densità semantica e la sua capacità di adattarsi, senza perdere il centro. E soprattutto, significa proteggerlo da pronunce infedeli e da femminilizzazioni improvvisate, che ne tradirebbero la natura.


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Ricamatore: tra ago, trama e menzogna


Dopo aver esplorato la doppia vita di arpista, pizzicatore di corde e portafogli, e quella di prestigiatore, illusionista e borseggiatore, proseguiamo il nostro viaggio linguistico nei territori delle mani allusive. Stavolta l’ago è protagonista, e il gesto paziente del ricamo si trasforma in arte della manipolazione narrativa. Perché anche le parole, come i fili, possono essere intrecciate con maestria…

Nel linguaggio comune, ricamatore è l’artigiano che lavora con ago e filo, decorando tessuti con pazienza e precisione. È figura silenziosa, meticolosa, spesso associata all’eleganza del dettaglio e alla bellezza del superfluo.

Ma nel linguaggio figurato, e talvolta gergale, il termine assume una valenza più ambigua: ricamare significa costruire una versione dei fatti abbellita, ritoccata, talvolta falsa. Il ricamatore diventa così colui che imbastisce storie, che orna la realtà fino a travisarla, che cuce menzogne con la stessa cura con cui si decora un tessuto.

Questa accezione nasce da una metafora sartoriale: il gesto tecnico del ricamo, lento e preciso, si trasferisce al piano narrativo. Non si tratta di inventare, ma di abbellire, di aggiungere fronzoli, di rendere credibile l’inverosimile. In ambito giornalistico, giudiziario o quotidiano, si dice che qualcuno “ha ricamato” su una vicenda per renderla più appetibile, più drammatica, più utile.

Isintagma ricamatore deriva dal verbo ricamare, che affonda le sue radici nell’arabo raqama, “ornare con segni” o “scrivere”, introdotto in Italia probabilmente attraverso il siciliano durante la dominazione islamica. La forma medievale recamare, attestata nel latino volgare, è da ritenere un adattamento fonetico del prestito arabo. Il verbo indica l’arte di decorare tessuti con fili colorati, dando forma a motivi ornamentali o figurativi.

Ancora un’altra curiosità linguistica che ci ricorda come, a volte, la menzogna non si costruisce con la voce… ma con le mani.

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Nota d’autore. Questo articolo esplora le ambiguità semantiche del termine ricamatore, senza alcuna intenzione diffamatoria o allusiva verso persone o categorie professionali. L’analisi si muove esclusivamente sul piano linguistico, tra etimologia, gergo e uso figurato. Ogni riferimento a pratiche illecite è da intendersi come parte di una riflessione sul linguaggio, non come attribuzione di comportamenti reali.  


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La lingua “biforcuta” della stampa

"... l’esercito afferma che le truppe della Brigata Golani hanno individuato una cellula di cinque combattenti di Hamas che hanno lanciato lanciarazzi contro un edificio in cui erano di stanza."

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Ecco un caso di anfibologia, di cui la stampa è maestra insuperabile. La frase è costruita in modo tale da far sembrare che i combattenti di Hamas abbiano lanciato razzi contro l’edificio in cui erano di stanza (contro sé stessi, quindi). Il problema nasce dal relativo “in cui erano di stanza”, che sembra riferirsi al soggetto più vicino: i cinque combattenti di Hamas. Ma la logica (e non i "massinformisti") ci permette di capire che non è affatto così.

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C’è un momento, nella scrittura, in cui la sintassi si fa equilibrista. Le parole sembrano in fila, ordinate, eppure qualcosa non torna. Il lettore inciampa, si ferma, rilegge. Qualcosa lo trattiene, lo lascia incerto. È lì che si nasconde lei: l’anfibologia, l’ambiguità che nasce non da un errore, ma da un’eccessiva fiducia nella linearità del pensiero.

L’anfibologia è quella costruzione che può essere interpretata in due modi diversi, entrambi grammaticalmente corretti, ma solo uno voluto. L’altro è un intruso, un significato parallelo che si insinua tra le righe e confonde. Prendiamo questo periodo: “Le truppe hanno individuato una cellula di cinque combattenti di Hamas che hanno lanciato lanciarazzi contro un edificio in cui erano di stanza.” Chi era di stanza? Le truppe israeliane o i combattenti di Hamas? La frase non lo dice con chiarezza, e il lettore si ritrova a chiedersi chi stia facendo cosa.

Non serve il microscopio per riconoscerla, basta l’orecchio. L’anfibologia si rivela quando il pronome non ha un padrone certo, quando la subordinata può legarsi a più soggetti, quando il verbo riflessivo o impersonale crea nebbia. “Ha parlato con il fratello di Giovanni, che era molto agitato.” Chi era agitato? Il fratello o Giovanni? “Ha visto il ladro mentre usciva dalla banca.” Chi usciva? Il ladro o l’osservatore? “Ha detto a Maria che sarebbe partita.” Chi parte? Maria o chi parla?

L’anfibologia non si corregge, si riscrive. Si esplicita il soggetto, si cambia l’ordine, si sostituisce il pronome con il nome. Si restituisce alla frase la sua univocità. “...contro un edificio dove erano acquartierate le truppe israeliane.” “...contro l’edificio che ospitava le forze della Brigata Golani.”

La lingua è specchio del pensiero. E se il pensiero si sdoppia, il lettore si smarrisce. L’anfibologia è la nemica silenziosa della chiarezza, la sabotatrice della precisione. E Lo SciacquaLingua lo sa: ogni frase va lavata fino a farla brillare.







domenica 28 settembre 2025

Distopico, questo sconosciuto. Quando la stampa si innamora di un aggettivo e dimentica il lettore

 



C’è un aggettivo che negli ultimi anni ha invaso titoli, editoriali, recensioni, commenti politici e persino comunicati istituzionali: distopico. Lo si incontra dappertutto. Società distopiche, scenari distopici, romanzi distopici, riforme distopiche, futuri distopici. È diventato una sorta di marchio per descrivere il negativo, il cupo, il minaccioso. Ma siamo sicuri che chi legge (ne) conosca il significato? Siamo certi che questo aggettivo, così abusato, sia davvero comunicativo?

Distopico deriva dal sostantivo distopia, composto dal prefisso greco dys- (cattivo, nocivo) e tópos (luogo). Letteralmente: “luogo cattivo”. È l’opposto dell’utopia, che indica un luogo ideale e irrealizzabile. La distopia, invece, è l’incubo sociale, il futuro degradato, la civiltà che si è persa. Ma non tutti i lettori (e ascoltatori) hanno familiarità con questa genealogia. E non tutti – senza offendere nessuno – sono in grado di coglierne le sfumature. Il risultato? Un aggettivo che pretende di dire molto, ma spesso non dice nulla.

Nel linguaggio giornalistico, l’abuso è evidente. In una recensione televisiva si è parlato di “società distopica” per descrivere un futuro ipercontrollato, dove ogni gesto è tracciato e la riservatezza personale viene meno. In un commento politico, si è evocato “un clima distopico” per riferirsi alla gestione della pandemia, senza chiarire se si intendesse una deriva autoritaria o una semplice misura sanitaria. In un articolo culturale, si è definito “distopico” un romanzo ambientato in una società trasparente fino all’annullamento dell’intimità individuale, lasciando il lettore in balìa dell’ambiguità.

In tutti questi casi, distopico è un aggettivo che non chiarisce, non specifica, non comunica. E allora viene da chiedersi: perché non usare parole più precise, più immediate, più adatte al contesto?

Se la riforma è oppressiva, si può dire autoritaria. Se il futuro è cupo, si può dire catastrofico, desolante, negativo. Se il film mostra una società violenta, si può dire crudele, abietta, disumana. Se la gestione è stata rigida, si può dire repressiva, invasiva, soffocante.

Questi termini non chiedono sforzi di decodifica. Arrivano chiari, netti, senza bisogno di mediazioni.

Eppure, distopico continua a proliferare. Forse perché suona elegante, evocativo, ricercato. Forse perché permette di suggerire senza esplicitare, di criticare senza esporsi, di alludere senza spiegare. Ma la scrittura, specie quella rivolta al pubblico, dovrebbe avere come primo obiettivo la chiarezza. E la chiarezza non è nemica della profondità: è la sua condizione.

In un’epoca in cui la comunicazione è sempre più rapida, frammentata, istintiva, l’uso di aggettivi ambigui rischia di generare incomprensioni, distorsioni, equivoci. E allora, prima di scrivere distopico, chiediamoci: il lettore capirà? Il termine è davvero necessario? Esistono alternative più limpide?

La lingua del divino Dante è ricca, generosa, precisa. Non ha bisogno di aggettivi tuttofare. Ha bisogno di autori che scelgano le parole con cura, con responsabilità, con rispetto per chi legge. Perché ogni parola è un ponte, o un muro. E distopico, troppo spesso, è un muro travestito da ponte.


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La lingua “biforcuta” della stampa

I trasporti

Guasto sull’alta velocità Roma-Napoli, disagi e forti ritardi: treno retrocede e torna a Termini

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Nel contesto ferroviario il verbo retrocedere può risultare ambiguo o poco adatto. In italiano ‘comune’ retrocedere richiama più spesso un’idea di sconfitta, regressione o perdita di posizione (come nel calcio o nella carriera). Meglio: Guasto sull’alta velocità Roma-Napoli: il treno torna a Termini, disagi e forti ritardi. 


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Torna il mercato fuorilegge di Roma: in vendita parmigiano e salmone rubati. E scatta il blitz

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Il mercato non è un bandito o un delinquente, ma illegale perché “fuori (della) legge”. In buona lingua: Torna il mercato fuori legge di Roma. Sorvoliamo sul barbarismo.




sabato 27 settembre 2025

Dal proclama all’esilio: anatomia di un verbo spietato

 

Nel vasto panorama della lingua italiana, alcuni verbi raccontano storie semantiche sorprendenti, fatte di slittamenti, ampliamenti e torsioni di significato che riflettono mutamenti culturali e giuridici. Il verbo bandire è uno di questi: nato con il senso di “annunciare pubblicamente”, ha finito con il significare anche “esiliare”, “interdire”, “proscrivere”. Come si è compiuto questo passaggio? Quali tappe ha attraversato? E cosa ci dice, oggi, questa evoluzione sul potere delle parole?

L’etimologia ci offre il primo indizio. Secondo il Vocabolario Treccani, bandire (antico bannire) deriva dal gotico bandwjan, “fare un segnale”, da cui il franco ban, che indicava un proclama, un ordine pubblico, spesso di natura militare o giudiziaria. Il latino medievale bandire significava “proclamare solennemente”, “rendere noto con autorità”. In epoca comunale, il bando era lo strumento con cui si rendevano pubblici decreti, editti, condanne. Si bandiva una festa, una gara, ma anche una pena. Il verbo conservava dunque un significato neutro: bandire era semplicemente “far sapere”, “rendere noto”.

Il punto di svolta semantico avviene quando ciò che viene annunciato è una condanna all’esilio. Nei comuni medievali, il bando diventa sinonimo di proscrizione: chi veniva “bandito” era espulso dalla comunità, privato dei diritti civili, costretto a lasciare il territorio. Il verbo, pur mantenendo il senso originario di “annunciare”, si carica di un contenuto penale. L’atto di bandire non è più solo comunicazione, ma anche esclusione. Da qui nasce il secondo significato, oggi prevalente: bandire come “esiliare”, “interdire”, “proibire”.

Un esempio emblematico si trova nella biografia di Dante Alighieri, che nel 1302 fu bandito da Firenze con l’accusa di baratteria. La condanna, proclamata pubblicamente, lo costrinse all’esilio perpetuo. Nei suoi scritti, Dante usa il termine bando con questo valore: nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, il concetto di bando è legato alla condizione del fuoruscito, alla perdita della patria e dei diritti civili. Il verbo bandire assume così una valenza giuridica e drammatica, che segna il destino dell’individuo.

Anche Machiavelli, nel Decennale primo, impiega il verbo con questo significato: “bandì i suoi nemici da Firenze”. Qui l’atto del bando è chiaramente una misura punitiva, un’esclusione politica. Il verbo conserva l’eco dell’annuncio ufficiale, ma si carica di valore coercitivo. Il significato di “esiliare” si è ormai stabilizzato, pur conservando la radice semantica dell’annuncio pubblico.

Nel tempo, il verbo ha continuato a oscillare tra i due poli. Ancora oggi, bandire un concorso significa “indire”, “annunciare ufficialmente”, mentre bandire una sostanza implica “proibirla”, “escluderla”. Il contesto determina il significato, ma la radice resta la stessa: un atto pubblico, solenne, che modifica lo status di qualcosa o qualcuno.

Questo slittamento semantico non è un’anomalia, ma una dinamica frequente nella storia delle parole. Il significato originario si piega alle pratiche sociali, si specializza, si carica di nuove sfumature. Nel caso di bandire, l’annuncio si è fatto condanna, l’informazione si è fatta esclusione. E così, da verbo neutro, è diventato verbo di potere.

In conclusione, bandire ci ricorda che le parole non sono mai immobili. Cambiano, si adattano, si trasformano. E nel loro mutamento, raccontano la storia delle istituzioni, delle comunità, dei conflitti. Annunciare ed esiliare: due facce dello stesso verbo, due gesti che, nel tempo, si sono sovrapposti fino a fondersi. Una metamorfosi linguistica che merita di essere bandita - nel senso più alto del termine - alla nostra attenzione.  

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 Prestigiatore: tra palcoscenico e borseggio

Dopo aver esplorato la doppia vita di arpista, termine che oscilla tra musica e furto, ecco un nuovo viaggio linguistico nei territori delle mani allusive. Stavolta il palcoscenico si fa complice, e il gesto teatrale si confonde con quello furtivo. Perché anche l’arte dell’inganno ha le sue dita esperte.

Nel linguaggio comune, prestigiatore designa l’artista dell’illusionismo, maestro nei giochi di mano, capace di stupire il pubblico con trucchi, sparizioni e apparizioni. È figura teatrale, elegante, spesso associata al mondo circense o al cabaret, dove la destrezza manuale si fa spettacolo.

Tuttavia, in alcuni contesti gergali, il termine viene talvolta usato per indicare un borseggiatore raffinato, capace di “far sparire” oggetti con la stessa disinvoltura con cui un mago fa svanire una moneta. Non si tratta di un’accusa, ma di una curiosa sovrapposizione semantica, dove la tecnica si presta a più interpretazioni.

Questa accezione nasce da una metonimia gestuale: il movimento rapido e preciso delle mani, tipico dell’illusionismo, è lo stesso che caratterizza il furto elegante. Non a caso, nel gergo criminale, si parla di “colpi da prestigiatore” per indicare furti compiuti con maestria, senza violenza né clamore.

Il sintagma prestigiatore deriva dal francese prestidigitateur, composto da preste (rapido) e digitus (dito), a indicare chi agisce con dita veloci. La radice latina è esplicita: il prestigio non è solo incanto, ma anche inganno. In latino, praestigiae significava “illusioni, trucchi”, e già conteneva l’ambiguità tra arte e frode.

Il passaggio semantico da artista a ladro, in certi contesti, appare quasi inevitabile. Entrambi operano con le mani, entrambi puntano sull’effetto sorpresa, entrambi si muovono tra realtà e finzione.

Un'altra curiosità linguistica che ci ricorda come, a volte, il confine tra spettacolo e sotterfugio sia… invisibile.

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Nota d’autore. Questo articolo esplora le ambiguità semantiche del termine prestigiatore, senza alcuna intenzione diffamatoria o allusiva verso persone o categorie professionali. L’analisi si muove esclusivamente sul piano linguistico, tra etimologia, gergo e uso figurato. Ogni riferimento a pratiche illecite è da intendersi come parte di una riflessione sul linguaggio, non come attribuzione di comportamenti reali.  


venerdì 26 settembre 2025

Operazione accento: missione parola perduta

 

Nel cuore del paese di Ortografia viveva Lucio, un bambino curioso e vivace, che amava scrivere storie. Ma aveva un piccolo vizio: non rispettava mai le regole della lingua. Saltava gli accenti, confondeva i tempi verbali, e metteva le virgole dove capitava, come fossero coriandoli.

Un giorno, mentre scriveva una fiaba su un drago che mangiava dizionari, accadde qualcosa di strano: la parola libertà sparì dal suo quaderno. Al suo posto, solo uno spazio vuoto. Lucio provò a riscriverla, ma ogni volta che la penna toccava la carta, la parola svaniva.

Spaventato, corse dalla maestra Sintassi, che lo guardò severa: «Quando si maltrattano le parole, alcune decidono di andarsene. La lingua non è solo un mezzo: è una casa. E tu, Lucio, hai lasciato le finestre aperte al caos.»

La maestra lo indirizzò allora al Dipartimento di Polizia Linguistica, un edificio austero con colonne di punti e virgole e porte che si aprivano solo con parole ben coniugate. Lì lo accolse l’ispettore Grammatico, un uomo alto e magro, con gli occhiali a forma di parentesi.

«Hai perso libertà?» chiese l’ispettore. «Non sei il primo. Ogni giorno riceviamo denunce di parole smarrite, frasi ferite, significati travisati. Ma c’è una speranza: devi affrontare il Percorso del Rimedio.»

Lucio accettò. Il percorso era lungo e difficile. Doveva riordinare una frase scomposta da un tornado di avverbi, salvare un congiuntivo imprigionato in una gabbia di condizionali, riconoscere il significato vero di parole abusate come epico, letteralmente e iconico.

Durante il cammino, l’ispettore Grammatico lo portò in missione, per mostrargli come agisce la Polizia Linguistica nel mondo reale.

Nel villaggio di ParlaComeScrivi, un giovane presentatore televisivo aveva dichiarato: «Se io sarei famoso, farei un corso di dizione.» Il congiuntivo, ferito e umiliato, era stato rinchiuso in una gabbia di condizionali. La Polizia Linguistica intervenne con sirene verbali e agenti in divisa semantica. L’ispettore ordinò: «Liberate il congiuntivo! E correggete la frase: Se io fossi famoso, farei un corso di dizione.» Lucio osservò stupito. «Ma è solo una frase!» - «Una frase può educare o confondere migliaia di menti. Le parole sono semi: scegli bene cosa pianti.»

Poco dopo, nel mercato di Scrivonia, il cartello di un fruttivendolo recitava: PESCA a 2 euro. Senza accento. Ma nessuno capiva se si trattasse del frutto o del verbo. La Polizia Linguistica arrivò con il reparto ortografico. L’agente Lessicò indagò e disse: «Qui manca un accento, e con lui è sparita la chiarezza. Restituiamo il senso: Pèsca è il frutto, pésca è l’azione.» Lucio rise. «Un segno così piccolo cambia tutto?» - «Come una virgola in una dichiarazione d’amore. O una pausa in una poesia. La lingua è fatta di dettagli che contano.»

Infine, nel quartiere di Ipérbole, un ragazzo gridava: «Mi è letteralmente esplosa la testa quando ho visto quel video!» La Polizia Linguistica intervenne con il reparto Figurativo. L’agente Metafò spiegò: «La parola letteralmente è stata usata in modo figurato. È un abuso. Se la tua testa fosse letteralmente esplosa, non saresti qui a parlare.» Lucio chiese: «Ma non si può giocare con le parole?» - «Sì, ma bisogna sapere quando si gioca e quando si informa. La lingua è libertà, ma anche responsabilità.»

Alla fine della giornata, Lucio tornò a casa con un nuovo quaderno. Sulla prima pagina scrisse:

“La lingua è come una città: puoi esplorarla, abitarla, reinventarla. Ma non distruggerla.”
















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Arpista: un termine, due percorsi semantici


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el linguaggio comune, arpista designa il musicista che suona l’arpa, strumento antico e raffinato, noto per il suo suono etereo e la tecnica elegante. Tuttavia, in alcuni contesti gergali, il termine assume un significato sorprendente: quello di ladro.

Questa accezione nasce da un’analogia gestuale. Il movimento delle dita che pizzicano le corde dell’arpa è simile a quello impiegato da chi, con destrezza e discrezione, sottrae oggetti dalle tasche altrui. Da qui l’uso figurato del termine per indicare chi “suona” portafogli anziché strumenti musicali.

Il termine arpa deriva dal germanico harpa, attestato già nel latino medievale come harpa, e indica lo strumento a corde verticali. Da qui, arpista come derivato regolare per il suonatore. L’estensione gergale a “ladro” è di tipo metonimico: si trasferisce il gesto tecnico (il pizzicare rapido e preciso) dal contesto musicale a quello furtivo. È un esempio di slittamento semantico basato sull’analogia motoria, frequente nei linguaggi settoriali e nel gergo urbano.

Una curiosità linguistica che mostra quanto la padronanza delle mani possa rivelarsi… polivalente.

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Nota d’autore. Questo articolo esplora le ambiguità semantiche del termine arpista, senza alcuna intenzione diffamatoria o allusiva verso persone o categorie professionali. L’analisi si muove esclusivamente sul piano linguistico, tra etimologia, gergo e uso figurato. Ogni riferimento a pratiche illecite è da intendersi come parte di una riflessione sul linguaggio, non come attribuzione di comportamenti reali.  


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 La lingua “biforcuta” della stampa

Un aereo militare di Mosca è stato rilevato nello spazio aereo vicino dell’Alaska

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 Se esistesse il reato di “lessicocidio” e una legge comminasse, ove occorresse, l’ergastolo, la stampa cesserebbe d’esistere. Per mancanza di personale.  



















giovedì 25 settembre 2025

Lanaia - 6 - ANEMOCRAZIA e ANEMOCRATICO - Se i cinesi ci “prestano” i prestiti inglesi

 


di Alfio Lanaia 

1. Evento audiovisivo

Ascoltando un video di una insegnante e yutuber cinese, Kina (ovvero Bian Qian) che vive in Italia e parla l’italiano, siamo stati attratti da una parola, anemocratico, che non avevamo mai sentito prima. Presi dalla curiosità, abbiamo riascoltato tutto il video (Chi è il politologo cinese che ha umiliato l'ufficiale israeliano?, pubblicato il 22 settembre 2025), di cui trascriviamo il seguente brano:

«Ora in questo momento, secondo Yan Xuetong, il mondo non è dominato né da una tirannia e neppure da un egemone a doppio standard, ma dal primo mandato di Donald Trump in poi il mondo è caratterizzato da una leadership anemocratica, dal greco anemos, quindi letteralmente una ‘leadership guidata dal vento’. Una anemocrazia si comporta in modo ondivago: bullizza gli Stati più deboli ma cede di fronte a quelli più forti, in un ordine internazionale dominato, quindi, da prepotenze e codardia».

  1. I lessici italiani e la fonte di Kina

Volendo saperne di più, iniziamo una breve ricerca su alcuni dizionari cartacei (De Mauro 2000, Zingarelli 2023, Devoto-Oli 2010, Battaglia 1961-2002 – Suppl. 2004 e 2009) e su quelli on-line (Treccani.it). Poiché le due parole non sono registrate in nessuno di loro, si può ipotizzare che siano dei prestiti dall’inglese e che la youtuber li abbia ricavati dal libro del citato politologo Yan Xuetong, Leadership and the Rise of Great Powers. Princeton, NJ: Princeton - University Press, 2019. Non avendo a disposizione il libro, ci affidiamo a una recensione, sempre in inglese, di un politologo indiano, Rajesh Rajagopalan (India Quarterly 75(3) 405–421, 2019 © 2019 Indian Council of World Affairs (ICWA)), da cui estraiamo:

«Yan suggests 4 types of international leadership: humane leadership, hegemony, anemocracy, and tyranny. […] Anemocratic states bully weaker states but kowtow to stronger ones; […]» (‘gli Stati anemocratici bullizzano gli Stati più deboli ma si inchinano di fronte a quelli più forti’).

La nostra brava Kina ha replicato dunque per noi italiani le due parole inglesi, il nome anemocrazia (< anemocracy) e l’agg. anemocratico (< anemocratic).


  1. I lessici inglesi e angloamericani

Non essendo presenti le due parole nella moderna lessicografia scolastica, ci affidiamo all’Oxford English Dictionary (OED) on-line che registra il nome anemocracy ma non l’agg. anemocratic, dandoci tuttavia una preziosa informazione sulla data e sull’opera di prima attestazione («from 1808, in the writing of ‘P. Plymley’»). Molto più ricco di informazioni è il sito <alphaDictionary.com> s.v. anemocracy. Oltre alla sillabazione e alla pronuncia, [æ-ni-mahk-rê-si ], la scheda lessicale riporta a) il significato «(Rare) A government as changeable as the wind, as if blown by the wind»; b) delle «Notes» che contengono dei derivati (l’agg. anemocratic e l’avv. anemocratically); c) degli esempi d’uso, «in Play», p.e. Since 1945 Italy has been an anemocracy with 66 different governments, e, infine, d) la storia della parola («Word History»), della quale si dice che «was created from the English combining forms anemo-, copied from a Greek compound noun, consisting of anemos "wind" + -cracy, adapted from Greek -kratia "government"», ecc.

Fra i dizionari ottocenteschi, il nome anemocracy ‘A government by the wind’ è registrato nel The Century Dictionary, New York 1889, un dizionario enciclopedico della lingua inglese in 6 voll., curato da William Dwight Whitney; un altro dizionario enciclopedico bilingue (Muret, Encyclopaedic English-German and German-English Dictionary, Berlino-New York 1891) registra «anemocracy Winderschaft».

  1. L’attestazione più antica di anemocracy

Come ci informa l’OED, l’attestazione più antica del grecismo inglese risale al 1808 e si trova in una raccolta di lettere al fratello (Letters on the subject of the Catholics, to my brother Abraham, who lives in the country) di Peter Plymley: «Such is the miserable, and precarious state of an anemocracy, of a people who put their trust in hurricanes, and are governed by wind» (VII, p. 53.) ‘Tale è lo stato miserabile e precario di un’anemocrazia, di un popolo che ripone la propria fiducia negli uragani ed è governato dal vento’ (mia traduzione; cito dall’edizione di Baltimora 1809).

Le opere non lessicografiche otto-novecentesche che usano anemocracy utilizzano tutti la lettera di Plymley, citando lo stesso passo.

  1. Il prestito inglese in altre lingue

Nel primo vol. (p. 449) della Vivat's Geïllustreerde Encyclopedie (11 voll., Amsterdam, 1899–1908) viene registrato il prestito in olandese anemocratie glossato come «Windregeering - wanbestuur» (‘governo del vento – cattiva amministrazione’).

Non abbiamo trovato il prestito inglese in altre lingue, se non nel fr. Anémocratie, titolo di un romanzo fantasy (2020) di Vincent Gaufreteau.


  1. Usi di anemocratic


L’agg. anemocratic ha riscontri solo recenti, non è ancora registrato nei lessici, tranne <alphaDictionary.com>, ed è associato al nome leadership. L’espressione anemocratic leadership si può considerare sinonimo di anemocracy e viene usata in ambito geopolitico, per esempio da Mario Telò (Multilateralism Past, Present and Future. A European Perspective, New York 2023) che riprende, tuttavia, l’opera di Yan Xuetong.

Un uso del tutto diverso di anemocratic si può invece ravvisare in una pagina del sito «Libertyprim.com» dedicata al rabarbaro. Leggiamo, infatti, che «The release of the seeds is anemocratic, that is, it is guaranteed by the wind» ‘il rilascio dei semi [del rabarbaro] è anemocratico, cioè, è garantito dal vento.

  1. sp. Especies anemócoras = ingl. anemocratic species

Interessante è, infine, la traduzione in inglese del tecnicismo sp. especies anemócoras ‘specie che disseminano i semi con l’azione del vento’ con l’ingl. anemocratic species (Victor Valenzuela Polo, Régimen de viento, variaciones por el cambio climático y relación con dispersión de propágulo, tesi discussa all’Università di Jaén nel 2020).

  1. Conclusioni

Le voci di cui ci siamo occupati, prestiti angloamericani di voci specialistiche di ambito geopolitico, non ancora registrati dai lessici, e per la verità non molto diffusi ancora, rappresentano un buon esempio delle relazioni interlinguistiche e delle modalità in cui avviene il prestito da una lingua modello a una lingua replica. La voce inglese, coniata in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, prob. dal rev. Pymley, per descrivere l’incapacità del governo inglese di prendere le difese dell’Irlanda di fronte al pericolo di un’invasione francese, facendo affidamento solo sui venti, varcò i confini dell’isola e si trasferì negli USA. Di recente essa è stata ripresa in ambito universitario ed è giunta anche in Italia secondo la trafila che abbiamo descritto. La particolarità, se di questo si può parlare, consiste nel fatto che il canale non è costituito dagli inviati dei telegiornali, ma da una youtuber italocinese in grando di connettere tra loro lingue, culture e geopolitica. Trattandosi, infine, di voci che l’ingl. attinge dal greco, crediamo che non sarà difficile che queste si possano diffondere in italiano.

Sommario

  1. Evento audiovisivo

  2. I lessici italiani e la fonte di Kina

  3. I lessici inglesi e angloamericani

  4. L’attestazione più antica di anemocracy

  5. Il prestito inglese in altre lingue

  6. Usi di anemocratic

  7. sp. Especies anemócoras = ingl. anemocratic species

  8. Conclusioni




(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it) 


mercoledì 24 settembre 2025

Interdetto: il divieto che non stupisce

 

Per chi ama la lingua con passione artigianale, nulla è più irritante di un termine usato a sproposito - o perlomeno impropriamente - quando l’abuso è talmente diffuso da sembrare legittimo, con il beneplacito, purtroppo, dei vocabolari dell'uso. È il caso di interdetto impiegato nel senso di “stupito”, “incredulo”, “attonito” e simili. Un uso scorretto, fuorviante, e per di più insidioso, perché mascherato da apparente plausibilità.

Per smascherare l’"errore", occorre risalire all’origine del verbo interdire, da cui deriva il participio passato interdetto. Il latino interdicere significa letteralmente “dire in mezzo”, nel senso di interrompere con un ordine, una sentenza, un divieto. Da qui il significato proprio: vietare, proibire, sospendere, revocare un’autorità.

Pensiamo all’interdizione giudiziale, che priva un individuo della capacità di agire legalmente, non certo perché sia “sbalordito”, ma perché gli è stata tolta l’autonomia. Oppure al linguaggio ecclesiastico: un luogo di culto interdetto non è in uno stato di “mistico stupore”, ma semplicemente chiuso al culto. Una strada interdetta al traffico non è “basita”, è vietata. Un bando di gara interdetto a certe aziende non le coglie “di sorpresa”, le esclude.

L’equivoco nasce forse da un’associazione mentale con espressioni come “rimanere senza parole”, “essere bloccati dall’incredulità”, come se il divieto implicito nell’essere interdetto si applicasse alla parola o al movimento, generando una sorta di paralisi emotiva. Ma è una forzatura, una distorsione che tradisce il senso etimologico e semantico del termine.

Per esprimere stupore, la lingua del divino Dante offre una tavolozza ricchissima e precisa: sbalordito, basito, allibito, di sasso, a bocca aperta. Lasciamo dunque a interdetto il suo compito nobile e rigoroso: indicare ciò che è vietato. E proteggiamo il lessico da derive semantiche che lo impoveriscono e lo confondono.

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 Il masegnatore: un nome per chi custodisce Venezia sotto i nostri piedi 



C
hi cura Venezia sotto i nostri piedi? Passeggiando per le calli o i calli (sic!) ci lasciamo incantare dai riflessi sull’acqua, dai balconi fioriti, dai silenzi interrotti solo dal passo lento dei residenti. Ma raramente ci chiediamo chi si occupi della pavimentazione che sostiene tutto questo. Chi ripara le masegne, quei blocchi di trachite che compongono il selciato veneziano? Chi le riallinea quando cedono, chi le sostituisce quando si spezzano?

La risposta è sorprendente: non esiste un nome preciso per questa figura. Non un titolo, non un mestiere codificato. E allora, perché non colmare questo vuoto lessicale con un neologismo ben formato, evocativo e funzionale?

Proponiamo masegnatore. Il termine nasce dall’unione di masegna - la pietra squadrata tipica della pavimentazione veneziana - e il suffisso -tore, che indica chi esercita un mestiere o compie un’azione: come muratore, costruttore, intonacatore. Il masegnatore è dunque colui che si occupa della manutenzione, posa, riparazione e cura delle masegne. Un artigiano urbano, custode silenzioso della stabilità della Serenissima.

Usare questo nome significa dare dignità a un mestiere invisibile. Senza un nome, il ruolo resta nell’ombra. Con masegnatore, lo si riconosce, lo si può raccontare, tramandare, formare. Significa arricchire il lessico urbano: le città vivono anche nei nomi dei loro mestieri. Il gondoliere è iconico, il masegnatore può diventarlo. E significa scegliere una parola linguisticamente solida: il neologismo rispetta la morfologia italiana, è trasparente nel significato, e si pronuncia con naturalezza.

Le masegne sono parte integrante dell’identità veneziana. Posati a mano, resistenti all’acqua e al tempo, compongono un mosaico urbano che ha bisogno di cura costante. I tecnici comunali, gli operai specializzati, gli artigiani che intervengono su queste pietre meritano un nome che li rappresenti. Masegnatore è una parola che restituisce loro visibilità e valore.

Usiamolo. Scriviamolo nei regolamenti, nei bandi, nei racconti. Chiediamo ai masegnatori di raccontarci il loro lavoro. Facciamo entrare il vocabolo nei dizionari, non solo come lemma, ma come riconoscimento.














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Battitore: quando il colpo è d’asta o... d’occhio


I
l lessema battitore è uno di quei casi in cui la lingua italiana si diverte a giocare su più registri. In apparenza semplice, nasconde una doppia vita che si rivela solo cambiando contesto.

Nel linguaggio ufficiale, il battitore è il banditore d’asta: figura elegante, spesso in smoking, che scandisce le offerte con il 'celebre' colpo di martelletto. Il suo “battere” è gesto rituale, solenne, che segna l’aggiudicazione di un oggetto. È il protagonista di una scena codificata, dove il ritmo è parte della cerimonia.

Nel gergo urbano, invece, il battitore è tutt’altro: è colui che “batte il terreno”, che fa da palo, che controlla la zona prima di un furto o di un’azione illecita. Il suo “battere” è esplorazione, sorveglianza, copertura. Non c’è martelletto, ma occhi attenti e movimenti rapidi.

In entrambi i casi, il battitore è colui che anticipa, che osserva, che dà il via. Ma il contesto trasforma il gesto da legittimo a clandestino.

Il verbo battere, dal latino battuĕre, ha una gamma semantica vastissima: colpire, percuotere, esplorare, scandire, segnalare. Da qui derivano mestieri e ruoli che, pur condividendo la radice, divergono radicalmente nel significato.

Una curiosità linguistica che mostra come la stessa parola possa vivere due vite parallele: una sotto i riflettori, l’altra nell’ombra.



lunedì 22 settembre 2025

Sgroi - 205 - Perché “COME STAI, TE?” sì? ma “TE, COME STAI?” no?


di Salvatore Claudio Sgroi


1. Quesito televisivo

Un telespettatore romano di RAI Mattina nella rubrica “Pronto Soccorso Linguistico” di domenica 21 settembre, ore 8.20, ha chiesto all’esperto Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca, se sia corretto usare il pronome personale “Te” come soggetto.


2. Diffusione di “Te” come soggetto

Come ha puntualizzato Paolo D’Achille, il “Te” soggetto non è un uso solo romano, ma tipicamente settentrionale e toscano e poi romano (dopo l’unità d’Italia). Mentre è assente nell’italiano meridionale. E in effetti tale uso mi è del tutto innaturale.


2.1. Il “Te” nella lessicografia

In ambito lessicografico, il De Mauro (2000) per “1te pron.pers. di seconda pers.sing.” ricorda: “RE tosc., usato in funzione di soggetto: me e te siamo due stupidi, te vai, poi ti raggiungo”. Lo Zingarelli 2025 amplia la diffusione: “(centr., sett.) tu: te fai come vuoi; pensaci te;ehi, te!, cosa fai?”. In maniera ancora più precisa il Dizionario italiano Sabatini-Coletti di Sabatini-Coletti-Manfredini (Hoepli 2024, e in rete) precisa: “È di uso regionale (nel Nord, in Toscana, a Roma) l’uso di te come sogg. invece che tute ci vai?; fallo te, se sei capace, io sto bene, e te?


3. Uso corretto?

IDevoto-Oli 2025 da parte sua dedica a TE uno spazio nella rubrica “Questioni di stile”, soffermandosi sulla sua distribuzione sintattica, oltre che sulla diffusione geografica e poi sul problema della norma.

Riguardo alla distribuzione sintagmatica:

Nell’italiano parlato è molto diffuso l’impiego di te come soggetto in luogo di tu anche in casi diversi da quelli standard: questo lo dici te (posposto al verbo); noi stiamo bene e te? (in frasi ellittiche); te che ne pensi? (prima di una interrogativa?); te stai fermo (prima di un imperativo)”.

Quanto alla distribuzione geografica e alla norma:

Questi usi, inizialmente molto frequenti a Roma, in Toscana e nelle regioni settentrionali, oggi sono in progressiva espansione in tutta Italia [invero non in Sicilia], ma non sono accettabili nello scritto di media formalità, che richiede per il soggetto il pronome tu”.


3.1. E l’Accademia della Crusca?

Per il presidente della Crusca invece è accettabile il “te” postverbale (“Come stai, te?”), ma non il te preverbale (“Te, come stai?”), senza che si espliciti il criterio alla base del diverso giudizio normativo.

Per me invece, i due usi regionali se sono in bocca (o presenti nello scritto) di parlanti colti (come risulta nella realtà) sono entrambi normativamente corretti.


Sommario

1. Quesito televisivo

2. Diffusione di “Te” come soggetto

2.1. Il “Te” nella lessicografia

3. Uso corretto?

3.1. E l’Accademia della Crusca?