di Salvatore Claudio Sgroi
1. Con riferimento a un nostro
intervento di quasi un lustro fa (31 dic. 2018) Sgroi - "Mi auspico" errato? E perché?", il prof.
Filippo Brancato, preside di Liceo, ha inviato ora il seguente commento:
«Resto fermamente convinto che la forma
riflessiva "auspicarsi" e' errata, frutto di impropria
equivalenza con "augurarsi". Tuttavia e' l'uso corrente
diffuso ad imporre e legittimare le forme linguistiche; con buona pace,
purtroppo, della purezza semantica».
2. Ferma restando la legittimità di giudicare
(soggettivamente) «errata» ovvero «impropria» la forma pronominale auspicarsi col valore di augurarsi, il richiamo alla «purezza linguistica» con la
giustificazione logicistica («equivalenza con augurarsi») lascia invero non
poco perplessi. La nozione di «purezza linguistica» è infatti estranea alle categorie della
linguistica moderna, senza dire che la nozione di «purezza» in generale richiama
inevitabilmente ideologie politiche d'antan.
L'A. distingue in parte il piano della
Norma, ovvero il "giudizio di valore" della forma pronominale (per
lui, ripetiamo, «errata»), dalla Regola che ha
generato tale forma, ovvero l'essere «frutto di equivalenza con augurarsi». E alla fine è costretto
(fortunatamente) a richiamare «l'uso corrente» dei parlanti, che «impone e
legittima le forme linguistiche». Un uso da noi esemplificato con una decina di
autori, accresciuti anche nel nostro Gli
Errori ovvero le Verità nascoste (Palermo, Centro di Studi filologici e
linguistici siciliani 2019, pp. 173-77) di un es. ottocentesco:
1858 Ant.
Ferrari: «Delusione intorno alle interne migliorie da auspicarsi per impulso
del governo» (I misteri d’Italia o gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864),
Venezia, Cecchini 1866, t. II, p. 199),
3. Se per il nostro lettore l'uso è «errato» (lo Zingarelli
2022 ritiene che auspicarsi p. es. nella
frase mi auspico un impegno da parte di
tutti «non è consigliabile», con argomentazione
logicistica «dal momento che già la
forma tr. auspicare significa
'augurarsi'»), per noi invece è "corretto"
per una duplice ragione: a) è del
tutto comprensibile e b) gli utenti
sono italografi colti, senza dire c) dell'avallo
di lessicografi come De Mauro 2000 che etichetta tale forma di uso «CO[mune] »,
noto cioè a laureati e diplomati.
(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)
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