sabato 7 agosto 2021

“Tradurre in italiano gli anglicismi”? No, piuttosto “ritradurre in italiano gli anglicismi”.

 Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo

  Secondo me, per stabilire se sarebbe utile e pratico tradurre in italiano le parole e le espressioni inglesi che ormai inondano la nostra lingua, sarebbe importante verificare quali sono gli anglicismi (americanismi, inglesismi, anglismi) che sono d’uso più frequente in Italia.

 Sono quindi stupito dal fatto che i linguisti, negli scritti dedicati agli anglicismi, quasi mai menzionano killer, pressing, in tilt, flop, mix, hub, rider, writer, assist, day, cluster, jackpot, badge, gossip, etc. Eppure questi sono i termini usati ogni giorno dai mass media, e quindi vocaboli da considerare degni di attenzione in scritti dedicati all’invadenza dell’inglese nel nostro vocabolario.

 Stento a capire perché i linguisti non li menzionino. Non ascoltano la radio, non guardano la Tv, non leggono il Corriere della Sera o Repubblica o un qualunque altro quotidiano? Non voglio credere che i linguisti non sappiano che il termine killer, usatissimo, non è una parola italiana, e che in tilt – altro sintagma da asilo infantile – corre nelle bocche italiane “full tilt” ossia va a tutta birra.

 Nelle riviste scientifiche specializzate italiane vi è la presenza di numerosi termini inglesi; assai spesso necessari.  “Peer review”, ad esempio, è un termine da addetti ai lavori e di uso quindi piuttosto raro. Lo stesso dicasi per “fiscal drag”, reso celebre da Berlusconi nel passato (ma che non raggiunse mai la rinomanza del suo “bunga bunga”, strombazzato giorno e notte dai suoi avversari).

 Forse “de minimis non curat linguista”. La distinzione che io faccio, da semplice profano, ponendo da un lato gli anglicismi straccioni vale a dire molto comuni, ma che sono nonostante tutto “prestiti di lusso”, e dall’altro gli anglicismi specialistici (tra questi ultimi troviamo, ad esempio, “stent” termine medico), quasi sempre “prestiti di necessità”, è una distinzione importante che anche gli accademici dovrebbero fare. Perché?  Perché l’erosione della lingua italiana ad opera dell’angloamericano procede molto spedita in relazione soprattutto alle parole italiane d’uso comune, perfettamente capite da tutti, anche talvolta dagli stranieri, e che occorrerebbe quindi proteggere dall’invasività dell’inglese. Un inglese spesso distorto da noi italiani e che i veri anglofoni non sempre capiscono. Ripeto: sono le parole italiane d’uso corrente ad essere sostituite con disinvoltura, a un ritmo crescente, dal loro equivalente inglese.

 Visto allora che questi anglicismi – al contrario di tanti termini tecnici inglesi che colmano talvolta una lacuna – sono perfettamente inutili, perché continuare a farne entrare di nuovi nella nostra lingua?

 L’enumerazione degli anglicismi più comuni ci permette di rispondere senza esitazione alla domanda “Tradurre o non tradurre gli anglicismi?” La risposta: no. Mi riferisco, lo ripeto, a quelli d’uso comune, i quali non sono altro, dopotutto, che una traduzione spesso fantasiosa o addirittura balorda della parola italiana fin allora usata nella penisola ma che è stata scalzata dal suo equivalente inglese, provvisto di una forte dose di glamour. Uso intenzionalmente l’anglicismo “glamour” per dimostrare che io non combatto per la difesa della purezza della nostra lingua (un po’ sul modello –  ci sarà sempre qualcuno pronto a spararla grossa  –  della “difesa della razza”) ma semplicemente mi batto per la chiarezza e la ricchezza della nostra lingua, che continua a perdere pezzi tanto da suscitare il rimpianto, almeno in me, di non essere nato in un paese dove la lingua è una cosa un po’ più seria che da noi, esterofili all’eccesso (Il mio detto: “Franza o Spagna purché se parla come se magna”).

 Dovrebbe arrecarci fastidio il ridicolo di cui ci copriamo scimmiottando gli angloamericani. L’Italia è il solo paese al mondo, almeno io credo, in cui governo, élite, Tv, giornali conducono alacremente una sistematica opera di smantellamento della lingua nazionale. Basti dire che il parlamento italiano usa, compiaciuto, termini inglesi: election day, welfare, stalking, jobs act, question time, step-child adoption, social card, cashback, etc.

 Il colmo della cretineria, noto per inciso, è il sostantivo  “007” (cifra che fortunatamente  viene pronunciata in italiano e non in inglese) con il quale ormai si designano in Italia gli agenti dei servizi segreti. Ma non è la sola baggianata: il cartellino o tessera identificativa che si usa sul posto di lavoro è ormai chiamato dagli Italians “badge”. E i presidenti di regione sono divenuti, sul modello statunitense, “governatori” (traduzione di “governors”).

 Cosa volete, sul teatrino italiano grava pesantemente Hollywood. Oltre che l’esito della 2a guerra mondiale…

 Killer è la traduzione inglese di uccisore, assassino, omicida, sicario… Termini questi ultimi da codice Rocco, fatti sparire in un’operazione epurativa di sano spirito resistenziale. Flop è la traduzione di fiasco, jackpot di montepremi, gossip di pettegolezzo.  Gli inglesi ridono di noi, per questo nostro italiese da magliari e camerieri, e così fanno gli altri popoli.

 Si ristabilirà un minimo di decenza linguistica non certo ritraducendo in italiano anglicismi che spesso sono a loro volta la traduzione di validissime parole italiane preesistenti; ma rimettendo in vigore la parola nostrana che fino a ieri usavamo ma che abbiamo rimpiazzato con un termine inglese mal pronunciato e talvolta sbagliato. Rimettiamo dunque il fiasco al posto del flop, e che i nostri jackass, patiti di  gratta e vinci, tornino a sperare di vincere il montepremi e non il jackpot.

 Ritradurre in italiano certi termini inglesi può rivelarsi, oltre tutto, impossibile perché l’idiotismo installato da noi nel dizionario italiano è frutto spesso di pura idiozia. Giudicate voi: al posto di  graffitaro o imbrattamuri, sul Corriere della Sera e sugli altri giornali  troviamo writer, traduzione inglese di scrittore. Ma chi scrive sui muri non è certo uno scrittore… E così il galoppino, corriere, fattorino che fa le consegne in bicicletta, invece di essere un semplice ciclo-fattorino, è per gli italiani un rider. Ma bisognerebbe pensare anche a certe conseguenze di un eventuale ridimensionamento linguistico ai suoi danni. L’abolizione dell’anglicismo “rider”  rischierebbe infatti d’immiserire sul piano sociale il lavoratore su due ruote, cui   verrebbe tolta  la dimensione cinematografica alla “easy rider” che lo ha aiutato fin qui a pedalare e a mangiare. Ma io invito lui e gli altri a parlare, finalmente, come mangiano.

 Se dovessimo tradurre in italiano certi anglicismi ne vedremmo delle belle. “Smart working” è un anglicismo che troviamo talvolta tradotto. Ma la sua traduzione, “lavoro agile”, è da circo felliniano. Smart working è, in partenza, un’espressione imprecisa e anche sbagliata quando viene usata al posto di telelavoro, lavoro da casa, etc.  Tanto è vero che inglesi e americani ricorrono a “remote working”, “work from home”, e non a “smart working” per designare il lavoro che, in questi tempi di pandemia, si fa da casa grazie alla  Rete.

 Rivolgo quindi un’esortazione agli addetti al lavoro linguistico, i quali si crogiolano in analisi dense di “diacronico” e “sincronico”. Che si sincronizzino anche loro con gli anglicismi plebei, del tipo flop, in tilt, pressing e gli altri termini killer della lingua dell’ex Belpaese divenuto, linguisticamente, una “Banana Republic”.

 È triste. Ma l’imperioso “Yes Sir!”, imposto nel passato attraverso la penisola dai nostri storici liberatori, oggigiorno risuona sgangherato e cacofonico nella  terra dove il “suona bene” e il dolce “sì” prima riecheggiavano solari. Oggi invece tanto  il “suona bene” che il “dolce sì” stanno finendo tristemente in vacca, o per dirla in una maniera più facile da capire per i nostri  Italians, “are going to the dogs”.

 

 

Nessun commento: