In un tempo in cui le parole si moltiplicano, si sovrappongono, si urlano, chi scrive ha sentito il bisogno di inventarne una che facesse il contrario: che pacificasse. Così è nato il racconto di Elio, figura silenziosa e presente, che non consiglia né corregge, ma calma. Non per magia né per mestiere, ma per vocazione. Una bambina lo ha chiamato “sediante”. E da lì, il termine ha preso forma, etimologia, definizione, proverbi.
Il sediante non è un mediatore, non è un terapeuta, non è un guru. È qualcuno che sa stare. Che sa ascoltare senza invadere. Che sa modulare la propria presenza fino a renderla fertile per gli altri. Nel racconto, questa figura diventa riconosciuta, persino istituzionalizzata. Ma il suo potere resta intatto: non è quello di agire, ma di permettere.
Abbiamo scritto questa favola come si pianta un seme: con la speranza che germogli nel pensiero di chi legge. E se il termine “sediante” non è nei dizionari, forse è nel vocabolario emotivo di chi cerca un modo diverso di stare al mondo.
Buona lettura.
C’era una volta, in una cittadina stretta tra boschi antichi e distese di fili elettrici un uomo, Elio. Nessuno, degli abitanti, sapeva dire di preciso cosa facesse. Non vendeva nulla, non insegnava, non aggiustava. Eppure, tutti i giorni si recava in luoghi diversi: uffici pieni di scartoffie, asili dove i bambini urlavano per gioco, case dove le coppie si parlavano solo per litigare.
Elio non interveniva, non consigliava: ascoltava, respirava lentamente. E mentre era lì, accadeva qualcosa: le parole si spezzavano in silenzi più gentili, i volti rilassavano le mascelle, persino l’aria sembrava meno compressa. Gli abitanti cominciarono a notare il suo effetto benefico, "salvifico". “Lo fa apposta?” “È formato per questo?” “Usa qualche tecnica segreta?”. Ma Elio sorrideva soltanto.
Un giorno, una bambina - la figlia del bibliotecario - si avvicinò a lui e disse: “Tu sei un sediante, vero? Perché quando arrivi, tutto si calma.” Colpita da quel termine, la madre della piccola - che insegnava etimologia all’università - lo annotò in un quaderno: Sediante (s.m./s.f.): figura che agisce in modo non invasivo per riportare equilibrio emotivo e sociale. Dal latino “sedare”, ma distinto da “sedativo” per l'assenza di strumenti chimici o autorità coercitiva. Il sediante pacifica, non sopprime.
Il lemma non era attestato nei dizionari, ma si diffuse tra chi cercava armonia. Alcuni comuni limitrofi lo inserirono come ruolo civile sperimentale: “Sediante di quartiere”. Nacquero, così, corsi di formazione dove non si insegnava a parlare, ma ad ascoltare, a modulare la presenza, a far sì che la propria ombra non superasse mai quella degli altri.
Si racconta che un giorno il falegname della cittadina stava per litigare con il fabbro per una questione di confini tra cortili. Le voci si erano già alzate, le mani erano sospese a mezz'aria. Elio passava di lì per portare un libro alla biblioteca. Non intervenne, non fece cenni. Semplicemente si fermò accanto a un cespuglio di salvia e osservò una foglia che oscillava nel vento. I due, confusi, notarono la sua calma. Dopo qualche minuto, il fabbro abbassò le braccia: “Forse ci stiamo comportando come martelli senza chiodi.” Il falegname rise. Il litigio svanì.
Un altro giorno, Elio fu invitato alla riunione annuale dei mugnai del distretto, famosi per il loro spirito polemico. La sala era piena di voci accese e grani di risentimento. Elio non proferì parola. Semplicemente iniziò a battere piano la mano su una vecchia botte vuota, con ritmo regolare. Dopo pochi minuti, il presidente dei mugnai disse: “Questa botte suona più sensata di noi tutti.” Da allora, ogni riunione cominciava con tre tocchi sulla botte vuota. “Per ricordare che il suono vuoto è più utile del rumore pieno.”
Intorno a Elio nacquero proverbi, piccoli detti di saggezza popolare. “Dove non giunge il consiglio, arriva il silenzio del sediante.” “Meglio un sediante alla porta che cento parole in corte.” “Se il sediante si ferma, ascolta anche il tempo.” Il sediante non lascia tracce visibili, ma dove è passato, il silenzio ha imparato a fiorire". E così, in quella terra di fili e querce, una professione senza nome - che grazie a una bambina, e a un taccuino, ora si chiamava 'sediante' - divenne una presenza riconosciuta. Non cercava meriti, né fama né parcella fissa. Ma dove compariva, qualcosa migliorava. La gente tornava a respirare.
Elio continuò, così, a camminare tra le persone, fiero di non essere altro che ciò che tutti cominciavano a riconoscere: il primo di una nuova stirpe vocazionale.
Un giorno, forse, potremmo trovare il lessema lemmatizzato nei vocabolari dell'uso:
sediante s.m. / s.f.
[se-diàn-te]
1. Persona che, attraverso la sola presenza e l’ascolto empatico, favorisce il riequilibrio emotivo e sociale in contesti di tensione, senza ricorrere a interventi verbali, strumenti coercitivi o soluzioni esplicite. 2. Figura civica o comunitaria riconosciuta per la capacità di pacificare ambienti conflittuali con discrezione e naturalezza.
Etimologia: dal latino sedare (“calmare, placare”), con suffisso agente -ante (con "i" eufonica). Distinto da sedativo per l’assenza di azione chimica o autorità formale.
Sediantismo s. m.
[se-diàn-ti-smo]
1. Corrente di pensiero e pratica relazionale fondata sull’idea che la presenza empatica, silenziosa e non invasiva possa generare equilibrio emotivo e sociale nei contesti di tensione. 2. Approccio civico e culturale che valorizza l’ascolto, la discrezione e la modulazione della propria influenza come strumenti di pacificazione. 3. Movimento vocazionale ispirato alla figura del sediante, volto a promuovere una nuova forma di cittadinanza affettiva e comunitaria.
***
La lingua “biforcuta” della stampa
Medici di famiglia cercasi, all'appello ne mancano 5.000
--------------
Correttamente: cercansi (o si cercano). Non è un “si impersonale”, ma “passivante” (sono cercati, vengono cercati).
C’è un vocabolo che molti usano con entusiasmo, ma con poca precisione, anzi, con “molto errore”: pleiade. Si legge in articoli, recensioni, si sente in discorsi pubblici, spesso con l’intento di dare lustro a un gruppo numeroso. Peccato che pleiade non significhi “folla”, né “abbondanza” né “moltitudine”. Anzi, è il contrario.
Etimologicamente, pleiade viene dal greco “Pleiás”, nome delle sette figlie di Atlante e Pleione, trasformate in stelle e poste nella costellazione del Toro. Le Pleiadi sono un piccolo gruppo di astri ravvicinati, visibili a occhio nudo, che brillano con coerenza e distinzione. Non sono una massa indistinta: sono un insieme selezionato, compatto, luminoso.
Questa accezione si è mantenuta nel tempo. Nell’antica Alessandria, pleiade indicava sette poeti tragici di particolare rilievo. Nel Rinascimento francese, La Pléiade fu il nome scelto da sette poeti guidati da Ronsard, con l’ambizione di elevare il lessico francese alla dignità del latino e del greco. In entrambi i casi, il numero ristretto e l’eccellenza erano fondamentali.
Oggi, pleiade conserva il suo valore: piccolo gruppo di persone o cose di particolare pregio. Si può parlare, per esempio, di una pleiade di pensatori che ha animato il dibattito culturale degli anni ’60, oppure di una pleiade di film d’autore presentati in una rassegna curata con particolare attenzione. In questi casi, il lessema sottolinea la qualità e la selezione. Usarlo per designare una massa indistinta è come chiamare “orchestra” un gruppo di violini stonati. Dire, per esempio, che una pleiade di turisti ha invaso il centro storico è un errore marchiano: qui il vocabolo che fa alla bisogna è “folla”, “moltitudine”, “sciame” e simili.
Pleiade, per concludere queste noterelle, non è un termine da adoperare quando si vuole richiamare una massa indistinta o un’abbondanza generica. Non è il sinonimo “colto” di tanti, molti. Al contrario, indica un gruppo ristretto, selezionato, composto da elementi di particolare valore. È la qualità che prevale sulla quantità. Dove c’è una pleiade, non c’è affollamento: c’è scelta, distinzione, eccellenza. È come dire: pochi, ma buoni, anzi... ottimi. Usare correttamente il sintagma in oggetto è un atto di amore per la lingua e per il pensiero. È come scegliere un vino pregiato per un brindisi importante: non si versa a caso, si serve con cura.

Nessun commento:
Posta un commento