martedì 19 agosto 2025

Parole travestite: il labirinto delle etimologie dimenticate

 

Le parole si muovono, si trasformano, si travestono. Alcune si nascondono dietro significati che non hanno mai avuto, altre si fanno carico di equivoci storici che le accompagnano per secoli. Eppure, ogni parola ha una storia che merita di essere raccontata, soprattutto quando quella storia è ignota ai più.

Prendiamo sgarro. Oggi evoca vendette, offese, tensioni da film noir. Ma in origine era tutt’altro: un errore, uno smarrimento. Il lemma sgarro è figlio del verbo sgarrare, tratto probabilmente dal francese antico esgarer, che significa “sviare”, “sbagliare”, “perdersi”. Lo “sgarro” era una deviazione dal giusto, una mancanza di precisione. Solo più tardi, per estensione metaforica, è diventato sinonimo di comportamento scorretto, di offesa morale. Ogni volta che lo usiamo, stiamo evocando un passo falso, uno scarto dalla retta via. Elegante, no?

Anche gladiatore ha subito una metamorfosi semantica. Nell’immaginario moderno è un eroe, un simbolo di coraggio e virtù. Ma storicamente era uno schiavo, un prigioniero costretto a combattere per intrattenere le masse. L’equivoco nasce nel Rinascimento, quando gli studiosi riscoprono i testi latini e idealizzano la figura del combattente. Da lì, arte e letteratura hanno fatto il resto, trasformando un ruolo tragico in un mito epico. Il gladiatore diventa così il paladino della libertà, il ribelle romantico, dimenticando le catene e il sangue che ne definivano l’essenza.

E che dire di barbaro? Oggi lo associamo alla rozzezza, alla violenza. Ma per i Greci antichi, barbari erano semplicemente coloro che non parlavano greco. Il termine nasce da una onomatopea: bar-bar era il suono che sembrava fare una lingua incomprensibile. Nessuna connotazione negativa, solo estraneità linguistica. È come se oggi chiamassimo gli stranieri “blablabla” e poi, nei secoli, quel suono diventasse sinonimo di ferocia. La barbarie, insomma, è nata da un fraintendimento fonetico.

Poi abbiamo capriccio, parola che sembra innocua, quasi infantile. Ma la sua origine è sorprendente. Deriva dall’antico caporiccio, composto da capra e riccio. In passato indicava un brivido improvviso, come quello che fa arricciare la pelle che diventa simile a quella di una capra o di un riccio. Alcuni etimologi lo collegano anche al latino caprizare, “saltellare come una capra”, suggerendo un comportamento impulsivo e irrazionale. Da lì, il significato si è evoluto in impulso emotivo, desiderio bizzarro, ostinato, spesso infantile.

E nella musica? Il capriccio è un brano libero, fantasioso, non vincolato da regole. Paganini ne ha fatto un manifesto di estro creativo, con i suoi “Capricci” per violino solo, dove la tecnica diventa gioco, e il virtuosismo si fa capriccio dell’anima. In pittura, il capriccio è una composizione immaginaria, spesso architettonica, che mescola elementi reali e fantastici. Insomma, quando un bambino fa un capriccio, sta evocando un animale, un’emozione e persino un compositore.

Le parole non sono mai innocue. Ci parlano con voci antiche, ci ingannano con significati mutati, ci seducono con etimologie che sembrano favole. E quando le usiamo, pensiamo di dominarle, ma spesso sono loro a raccontare noi. In fondo, ogni parola è un piccolo enigma: basta ascoltarla con più attenzione per scoprire che dietro un capriccio si nasconde una capra, dietro uno sgarro un passo sbagliato, e dietro un barbaro solo un suono che non capivamo.







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