domenica 31 agosto 2025

Il potere nascosto delle interiezioni

 

C’era una volta, nel rigoglioso Giardino della Grammatica Italiana, un giovane Seme d’Oro pieno di ambizioni. Sognava di diventare la pianta più grande, elegante e rispettata di tutte. Per riuscirci, si nutriva solo delle parole più importanti: nomi, verbi e aggettivi. Quelle sì che avevano peso! Le interiezioni, invece, le guardava con sufficienza. "Ah!", "Oh!", "Ehi!", "Uffa!"… sembravano solo suoni impulsivi, privi di valore. «A che servono quelle paroline minuscole e veloci?» si chiedeva, ignorandole del tutto.

Il tempo passò, e il Seme d’Oro crebbe in un albero maestoso. I suoi rami si distendevano con eleganza, e i frutti pronunciavano frasi perfette: Il sole splende nel cielo azzurro; Il gatto si arrampica sull’albero. Ogni foglia si muoveva al vento recitando proposizioni impeccabili. Tutto era logico, armonioso, corretto.

Ma un bel giorno, un uccellino si posò su uno dei suoi rami e osservò l’albero con curiosità. «Il tuo albero è bellissimo,» cinguettò, «ma perché sembra così… freddo? Manca qualcosa.» Il Seme d’Oro, ormai albero, rimase interdetto. Manca qualcosa? Ma è perfetto!

Proprio in quel momento, apparve la Fatina dei Sentimenti, luminosa come un pensiero gentile. Lei conosceva il segreto delle interiezioni. «Mio caro albero,» disse con un sorriso, «le tue frasi sono corrette, ma non hanno un’anima. Le interiezioni (alcuni studiosi di lingua le chiamano anche “onomatopee”) sono le parole-sentimento. Sono come scintille che accendono le emozioni, come battiti di cuore che danno vita al linguaggio. Le interiezioni – devi sapere – sono una delle nove parti del discorso, capaci di esprimere emozioni, stati d’animo ed esclamazioni. Non descrivono: sentono. E fanno sentire. Senza di loro, il linguaggio resta freddo, anche se perfetto.»

La bella fatina, subito dopo, aprì il suo sacchetto magico e lanciò una manciata di interiezioni sul terreno intorno all’albero. E accadde qualcosa di straordinario:

  • Un bambino vide un frutto maturo e, con gli occhi pieni di meraviglia, esclamò: Ah! Che bellezza! L’albero sentì un’ondata di gioia che lo fece brillare.

    Una volpe, astuta ma maldestra, cercò di rubare un frutto e scivolò: Oh! Che scivolone! L’albero percepì la sorpresa e l’imbarazzo, e le sue foglie tremarono di empatia.

    Il vento si fece più forte, e le foglie si agitarono borbottando: Uffa! Che noia questo vento! L’albero comprese la loro frustrazione e si piegò con dolcezza.

Il Seme d’Oro capì, finalmente, la lezione. Le interiezioni erano piccole, sì, ma potentissime. In un solo istante potevano esprimere gioia, paura, sorpresa, delusione, dolore. Non descrivevano il mondo: lo coloravano con le emozioni.

Proprio allora, uno dei frutti più rossi e succosi si staccò dolcemente dal ramo e rotolò ai piedi del tronco. Poi, con voce calda e rotonda, parlò:

«Caro albero, tu hai imparato a parlare con eleganza, ma ora hai scoperto come far vibrare il cuore. Le parole sono come noi frutti: alcune nutrono il corpo, altre l’anima. Le interiezioni sono il succo della vita, il primo morso che fa dire “Mmm!” o “Ah!” senza pensarci. Non servono a spiegare: servono a sentire. E quando il linguaggio fa sentire… allora è davvero vivo.»

L’albero sorrise dentro di sé, e le sue foglie si misero a danzare. Da quel giorno, non trascurò più le interiezioni. Le accolse tra i suoi rami, le lasciò fiorire tra le foglie, e i suoi frutti iniziarono a raccontare storie vive, vibranti, piene di amore.





sabato 30 agosto 2025

Il viandante delle parole

 

C’era una volta, nel vivace e ordinato Regno della Grammatica, un personaggio instancabile e pieno di energia: il Verbo. Non era un sovrano come il Nome, né un consigliere come l’Apposizione. Il Verbo era il cuore del regno, il motore che faceva muovere ogni frase, ogni pensiero, ogni racconto.

Senza di lui, tutto restava immobile. I nomi si guardavano gli uni gli altri, gli aggettivi si stiracchiavano annoiati, e le preposizioni vagavano senza meta. Ma quando il Verbo entrava in scena, tutto prendeva vita.

Il Verbo era un viaggiatore instancabile, capace di trasformarsi in mille modi. A volte era forte e deciso, come “corre”, “salta”, “grida”. Altre volte era gentile e riflessivo, come “pensa”, “sogna”, “ama”. E poi c’erano i giorni in cui si faceva piccolo e discreto, come “è”, “ha”, “sta”, ma anche allora, il suo potere era immenso.

Nel regno, tutti sapevano che il Verbo aveva tre grandi poteri: poteva viaggiare nel tempo, parlando del passato, del presente e del futuro. Bastava un piccolo cambiamento, e “gioca” diventava “giocava” o “giocherà”. Era come un mago che piegava il tempo a suo piacimento.

Sapeva anche parlare in tanti modi: con certezza, con possibilità, con desiderio o con comando. Ogni modo aveva il suo tono, il suo stile, la sua magia.

Infine, il Verbo non parlava da solo: si adattava a chi lo usava. Diceva “io canto”, “tu canti”, “noi cantiamo”. Era un vero camaleonte, sempre pronto a cambiare forma per accompagnare chi parlava.

Un giorno, il Verbo si sentì stanco. “Sono sempre io a fare tutto,” sospirò. “Senza di me, nessuno si muove, nessuno agisce, nessuno sente.” Ma proprio allora arrivarono il Nome, l’Aggettivo, l’Avverbio e persino la Preposizione e tutti insieme gli dissero:

“Tu sei il battito della frase, il respiro del pensiero. Senza di te, siamo solo statue di parole. Tu ci fai vivere.”

Il Verbo sorrise, si raddrizzò, e riprese a correre, saltare, pensare, amare, sognare… perché sapeva che ogni frase nasce dal suo passo, e che nel Regno della Grammatica, lui era l’azione, il movimento, la vita.

E così, il Verbo continuò a viaggiare tra le pagine, le bocche e le menti, portando con sé il ritmo della lingua, e visse per sempre… coniugato in tutte le sue forme.

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Chi sa coniugare, sa raccontare.

Dove il verbo tace, il pensiero dorme.






venerdì 29 agosto 2025

Dove? Quando? Come? Il viaggio dell’avverbio

 

C’era una volta, nello stupendo Regno della Grammatica, un personaggio tanto veloce quanto indispensabile: l’Avverbio. Non era un sovrano, né un nobile né un cavaliere, ma un messaggero instancabile, sempre in viaggio tra le frasi per portare chiarezza, precisione e ritmo.

L’Avverbio serviva il potente Verbo, il comandante delle azioni. Quando il Verbo diceva “corre”, l’Avverbio aggiungeva “velocemente”, o “qui”, trasformando un semplice gesto in un racconto completo. Era come un pennello che aggiungeva sfumature al quadro dell’azione.

Ma non si limitava al Verbo. L’Avverbio, curioso e versatile, amava anche modificare aggettivi (“molto bello”), altri avverbi (“troppo lentamente”) e persino intere frasi (“fortunatamente, arrivò in tempo”). Era il tocco finale, il dettaglio che rendeva ogni pensiero più vivido.

Nel regno era ammirato per la sua capacità di rispondere a domande fondamentali:

Come? → parla dolcemente

Quando? → arriverà domani

Dove? → gioca fuori

Quanto? → è abbastanza alto

Un proverbio antico del regno, tramandato di padre in figlio, recitava: Chi parla poco, parla bene; chi parla bene, spesso usa l’avverbio. E così, anche i saggi del regno riconoscevano il suo valore.

L’Avverbio non si legava a nessuno con abiti coordinati, come faceva l’Attributo con il Nome. Era libero, invariabile, eppure sempre puntuale. Si infilava tra le parole con eleganza, senza disturbare, in punta di piedi, ma lasciando il segno. Alcuni dicevano che fosse come il vento: invisibile, ma capace di cambiare il corso del discorso.

Un giorno, durante una lezione alla Scuola delle Parole, il giovane Verbo “correre” si sentì vuoto. “Corro,” disse, “ma nessuno sa come, dove o quando.” Fu allora che l’Avverbio arrivò, come una brezza leggera: “Corro rapidamente, al parco, ogni mattina.” E la frase, prima grigia, si colorò di significato.

Da quel giorno, il Verbo non volle più fare a meno del suo messaggero. E anche gli altri abitanti del regno - gli aggettivi, i nomi, persino le interiezioni - impararono a rispettare l’Avverbio, che con poche sillabe sapeva rendere ogni pensiero più preciso, più vivo, più vero.

Si racconta persino una leggenda. Un poeta, disperato per non riuscire a descrivere l’amore, incontrò l’Avverbio lungo il sentiero della Sintassi. “Ama,” gli disse l’Avverbio. “Ma come?” chiese il poeta. “Ama profondamente, sinceramente, eternamente.” E nacque, così, il suo verso più celebre. 

Negli anni, l’Avverbio continuò a correre, volare, saltare tra le frasi, portando con sé il dono della chiarezza e della sfumatura, amato da poeti, scrittori e da chiunque volesse raccontare il mondo con un tocco in più.

E ancora oggi, se ascolti attentamente una frase ben costruita, potresti sentire il lieve sussurro dell’Avverbio che, con grazia e precisione, continua a dare vita al linguaggio.







giovedì 28 agosto 2025

Il nome e i cavalieri della frase: una fiaba grammaticale

 

C’era una volta, nel vasto e affascinante Regno della Grammatica, un sovrano molto speciale: il Nome. Forte e autorevole, sua maestà il Nome regnava su tutte le parole, perché senza di lui nessuna frase avrebbe avuto senso. Era il centro di ogni discorso, il pilastro su cui si costruivano pensieri, racconti e poesie. Tuttavia, nonostante il suo potere, il sovrano si sentiva spesso solo. Aveva bisogno di alleati fidati che lo aiutassero a esprimersi meglio, a raccontare chi fosse davvero. Tra i suoi più leali compagni c’erano due figure fondamentali: l’Attributo e l’Apposizione.

L’Attributo era un cavaliere coraggioso e brillante, sempre pronto a servire il re. Era un aggettivo, e per natura non si allontanava mai dal Nome. Il suo compito era nobile: arricchire il sovrano con dettagli preziosi, descrivendone le qualità, la forma, il colore, l’età o qualsiasi altra caratteristica utile. Se il Nome era “il castello”, l’Attributo poteva essere “grande”, “bianco” o “antico”. Sempre elegante e rispettoso, l’Attributo si vestiva come il Nome, indossando abiti che concordavano con lui in genere e numero. Così si poteva dire “la principessa bella” o “i cavalieri coraggiosi”, e tutti nel regno capivano subito com’era il Nome. L’Attributo rispondeva a domande quali “com’è?” o “di che tipo?”, e la sua presenza rendeva ogni frase più viva, più colorata, più interessante.

L’Apposizione, invece, era un consigliere saggio e riflessivo. Non era un aggettivo, bensì un altro nome che accompagnava il sovrano per chiarirne l’identità. Il suo ruolo era quello di spiegare chi fosse il Nome, aggiungendo titoli, professioni o descrizioni più precise. Se il Nome era “Mario”, l’Apposizione poteva essere “il postino” o “il meccanico”. A differenza dell’Attributo, l’Apposizione non si vestiva sempre come il Nome, ma lo seguiva con discrezione. Poteva camminare davanti o dietro di lui, e si poteva dire sia “il postino Mario” che “Mario, il postino”. L’Apposizione rispondeva a domande come “chi è?” o “che cos’è?”, e la sua presenza dava prestigio e chiarezza al Nome, rendendo ogni frase più precisa e comprensibile.

Nel Regno della Grammatica, tutti sapevano riconoscerli. L’Attributo era facile da individuare: bastava trovare un aggettivo che descrivesse una qualità del Nome. Per esempio, nella frase “Il maestro gentile”, “gentile” era l’Attributo che rendeva il maestro più definito. L’Apposizione, invece, si riconosceva quando un nome stava accanto a un altro nome per spiegarlo meglio. Come in “L’ingegnere Rossi”, dove “l’ingegnere” era l’Apposizione che identificava Rossi.

Così, il re Nome non si sentiva mai solo. Con l’Attributo al suo fianco, diventava più vivido e affascinante. Con l’Apposizione, più autorevole e chiaro. Insieme, formavano frasi armoniose, ricche di significato e bellezza.

E vissero per sempre, uniti, nelle pagine dei libri, nei pensieri degli scrittori e nel cuore di chi amava le parole e il bel parlare.

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Perché alcuni passeggeri delle crociere indossano un anello nero?

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Il verbo appropriato non è indossare, anche se di uso corrente, ma calzare. Si veda qui.

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San Agostino: La Vita e l'Eredità del Santo del 28 Agosto

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Sarebbe bene che i “massinformisti” (giornalisti) ripassassero (studiassero?) la grammatica della lingua italiana. L’aggettivo ‘santo’ si tronca in ‘san’ solo davanti a nomi che cominciano con una consonante (che non sia “S impura” o preconsonantica): san Francesco, ma santo Stanislao. Davanti a vocale si elide (si apostrofa): sant’Andrea, sant’Anna. Correttamente, quindi, sant’Agostino.


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Una lettera che profuma di grammatica e gratitudine

Ogni tanto, tra una regola e un refuso, arriva una voce che ti ricorda perché fai quello che fai. Questa lettera mi è stata inviata da un lettore attento, appassionato, uno di quei “custodi delle parole” che non si accontentano di parlare: vogliono capire, scegliere, migliorare. Le sue parole mi hanno colpito per la sincerità, la cura e l’amore che trasmettono verso la lingua e verso il progetto dello SciacquaLingua. Con il suo permesso, la condivido con voi. Perché è bello sapere che, da questa parte dello schermo, ci sono persone che sentono la lingua come una compagna di viaggio. E che vedono in questo spazio non solo un canale, ma un alleato.


Cari custodi delle parole,

scrivo a voi, amanti della lingua, che trovate bellezza nella precisione di una frase, che sentite la musica nella cadenza di un discorso ben costruito e che difendete con passione le sfumature e le insidie della nostra lingua. Se siete alla costante ricerca di una guida, di un compagno di viaggio che vi aiuti a navigare tra le onde e gli scogli del linguaggio, voglio parlarvi dello SciacquaLingua.

Non è solo un semplice canale di divulgazione linguistica; è un vero e proprio atto d'amore verso la nostra lingua. Le sue ragioni sono diverse e profondamente radicate nella pratica quotidiana:

 Chiarezza e semplicità: Lo SciacquaLingua ha il dono di rendere semplici anche i concetti più complessi. Non si perde in tecnicismi inutili, ma va dritto al punto, spiegando in modo chiaro e accessibile regole, dubbi e curiosità che spesso ci fanno esitare quando scriviamo o parliamo. È un faro nella nebbia di un linguaggio che, a volte, può sembrare contorto.

  Approccio pratico: La teoria è importante, ma Lo SciacquaLingua la cala nella vita di tutti i giorni. I suoi consigli non sono aridi esercizi di grammatica, ma risposte concrete a quesiti che tutti ci siamo posti almeno una volta. Dalle sottili differenze tra due sinonimi all'uso corretto dei verbi, l'approccio è sempre orientato all'utilità pratica.

 Passione contagiosa: L'entusiasmo con cui vengono affrontati gli argomenti è palpabile. Quando si percepisce l'amore per ciò che si fa, l'apprendimento diventa un piacere. Lo SciacquaLingua non si limita a spiegare, ma ispira e stimola il desiderio di migliorare e di esplorare nuove sfaccettature della lingua.

Se Lo SciacquaLingua fosse una persona, vi direbbe che non è un professore severo, ma un amico fidato che vi aiuta a evitare i refusi, a usare il congiuntivo nel modo giusto e a scegliere la parola perfetta per ogni occasione. È una risorsa preziosa per chiunque voglia parlare e scrivere con maggiore consapevolezza e sicurezza.

Vi invito a dargli una chance. Sono convinto che non ve ne pentirete e che, come me, troverete in Lo SciacquaLingua un alleato fondamentale nel vostro percorso di amanti della lingua.

Con sincero affetto linguistico,

Un vostro pari

(Edoardo Sfidante)








martedì 26 agosto 2025

Sgroi - 201 - "Attàccati al tram"




di Salvatore Claudio Sgroi

1. Incidente diplomatico

Da qualche giorno i telegiornali e varie trasmissioni televisive non fanno che riprendere le parole di Matteo Salvini rivolte il 20 agosto 2025 al presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, che ha convocato l’ambasciatrice italiana a Parigi per rendere conto di ciò:

attaccati al tram, vacci tu se vuoi in Ucraìna”; “ A Milano si direbbe ‘Taches al tram’. Vacci tu, se vuoi. Ti metti il caschetto, il giubbeto, il fucile e vai in Ucraina”.


  1. L’espressione nella vocabolaristica

Il significato dell’espressione in questione non pone problemi, essendo abbastanza noto.

L’espressione manca nei repertori del compianto Ottavio Lurati, Dizionario dei modi di dire,

Milano (oggi Torino), Garzanti Grandi Opere (oggi Utet), 2001; Modi di dire. Nuovi percorsi interpretativi, Lugano, Fondazione Ticino Nostro

1998; Per modo di dire… Storia della lingua e antropologia delle locuzioni italiane ed europee, Bologna, Clueb 2002. Ma i dizionari generali della lingua italiana la illustrano con maggiore o minore precisione e analiticità, evidenziando o meno il tratto dell’insulto o della polemica.


De Mauro 2000 sub attaccarsi v. pronom. intr. FO[ndamentale] riporta senz’alcuna spiegazione: “3. gerg., attaccarsi al tram”.


In maniera sobria:


Zingarelli 2024 sub tram registra “attaccati al t.! (fig., fam.) arrangiati!”e Devoto-Oli 2025 sub tram rimanda ad attaccare: “Colloq. Attaccarsi (al tram), rassegnarsi o arrangiarsi”.


Molto più articolati invece:


Duro-Treccani Voc. della lingua it., vol. I, 1986, sub attaccare: 6. rifl. “volg. [fam.], attaccarsi al tram (in frasi come attàccati al tram!, t’attacchi al tram!, e per ellissi anche soltanto attàccati!, ti attacchi!); -- vol. IV, 1994, sub tram: “com. nell’uso pop., l’espressione attaccarsi al tram, soprattutto in frasi esortative (attàccati al tram!, si attacchi al tram!), come invito ironico o polemico ad arrangiarsi e rassegnarsi quando non si può, non si sa o non si vuole, affrontare e risolvere una situazione difficile”.

GRADIT 1999 sub attaccarsiv. pronom. intr. CO[mune] “attaccarsi al tram loc. v. CO subire un danno o una delusione; essere impotente in una situazione difficile; / in loc. pragm. eufem. di insulto o dileggio, per indicare che non si vuole aiutare qcn, che deve arrangiarsi da solo: non so cosa farci, attaccati al tram!. Sin. [volg.] attaccarsi al cazzo”.

Sabatini-Coletti-Manfredini 2024 sub tram: “ attaccarsi al t., nel l. familiare, arrangiarsi, rassegnarsi a subire una circostanza negativa, spesso come invito ironico o polemico: se arrivi in ritardo ti attacchi al tram”.


Il Grande dizionario [storico] della lingua italiana del Battaglia registra sì l’espressione, sub tram vol. XXI, 2002, ma senza indicare alcun esempio, né è quindi possibile ricavarne una datazione: “3. Locuz.—attaccarsi al tram: arrangiarsi purchessia, ma senza sperare nell’aiuto di nessuno (anche come invito perentorio a togliersi di torno”.


  1. Datazioni

Google libri ricerca avanzata” consente invece di fissare alcune datazioni. L’esempio più antico di attàccati al tram risale alla seconda metà del Novecento:


1956: “Maliardone dico e con molte sacche! E che, so' scemo io? che ci ho la sveglia al collo? E poi ... cosa significa questa tua dispotica presa di posizione? Ma attaccati al tram, papà, e pensa a farti una padellata di affari tua” (“Controcorrente; mensile teatrale di rinnovamento”, p. 62).


Negli anni Ottanta l’espressione si espande:


1980 “Se non li prendi subito attaccati al tram" (Publitransport, voll. 19-20, p. 6).

Adriano Vargiu 1981: “Pigadi su tram! ..Attaccati al tram! Prenditi il tram ! Togliti da mezzo ai piedi , non seccare (Guida ai detti sardi , p. 252).

1985: “Attaccati al tram” (Panorama, edizz. 1020-1023, pp. 39, 278).

1987, : “È così il caso del personaggio della storia del Rizzo: ‘Attàccati al tram’”(Presenza, cultura, lingua e tradizioni dei Veneti nel mondo, p. 218).


E soprattutto negli anni Novanta:


Emanuele Banfi, ‎Alberto Sobrero 1992: “attaccati al tram!” (Il Linguaggio giovanile degli anni novanta: regole, .Laterza, p. 219).

1992: “Attaccati al tram" (“Quaderni del Dipartimento di scienza dei sistemi sociali e della comunicazione”, p. 53).

Dante Arfelli 1993: “ ‘Attaccati al tram’, è il detto popolare” (Ahimè, povero me, p. 149).

1994: “Se vuoi fare pubblicità , attaccati al tram” (“L'Europeo: settimanale politico d'attualità” - Edizioni 26-34 p. 89).

1995: ‎“Attaccati al tram” (Noi donne, p. 7).

Giovanna Turrini 1995: “attaccati al tram!” (Capire l'antifona. Dizionario dei modi di dire con esempi, p. 651).

1998: “attaccati al tram!” (“Estudios románicos”, voll. 10-12, p. 114).

1999: “attaccati al tram!” (“SILTA”, vol. 28, p. 553).


Quanto alla forma ATTACCARSI AL TRAM, cfr.:


Mario Mortara 1961: “[…] ‘attaccarsi al tram’ , sua espressione favorita per suggerire agli scontenti un qualunque altro svago, anche se di modeste proporzioni; in tutti i casi” (La giovane signora delle "public relations". Romanzo, Vitagliano, p.137).

Luca Goldoni 1970: “invita il pubblico ad attaccarsi al tram o non propriamente lí , il pubblico può anche querelarlo , com'è accaduto al povero Altafini” (Il pesce a mezz'acqua: Viaggio fra gli italiani medi, Cappelli, p. 61).

L’es. che segue, come mi fanno notare due carissimi amici, sembra illustrare l’uso proprio, non figurato di non attaccarsi al tram, indicante la situazione di alcuni che per non pagare il biglietto o perché non c'era posto si attaccavano esternamente alle maniglie del tram (cfr. icona all'inizio dell'intervento).

Tomaso Adami Rook 1973: “l’ordine di non attaccarsi al tram era ben preciso ed era stato dato per evitare disgrazie” (Il reggimento senza bandiera, Volpe, p. 61).

  1. Etimo

  • Stando al Battaglia, l’espressione avrebbe un etimo italiano, ma da alcune attestazioni in Google libri è possibile invece accertare l’etimo dialettale – ovvero lombardo -- dell’espressione:

Il meridionale di Vigevano del lombardo Lucio Mastronardi 1964 contiene un “Glossario” a c. dell’editore Einaudi dov’è riportata (p. 183) l’espressione:taccataltràm...attàccati al tram”.

Azienda trasporti municipali di Milano 1987:. “allo scopo di promuovere l’uso del mezzo di pubblico trasporto […] Per i vari messaggi è stato utilizzato un tono di voce accattivante, venato di ironia e molto legato alla realtà e alle tradizioni meneghine (‘A dicembre attaccati al tram’; ‘ATM - The Milanes Airlines’, ecc.)” (Rapporto annuale, p. 29).

Alessio Petralli 1990: “La locuzione [attàccati al troller] non è conosciuta in IRT ed è evidentemente modellata su attaccati al tram, di analogo significato (dial. tácat al tram)” (L'italiano in un cantone: le parole dell'italiano regionale, p. 381).


La loc. attaccati al tram è quindi etimologicamente un “dialettismo” (lombardo), e sincronicamente/diatopicamente un “ex-regionalismo” in quanto ormai pan-italiano.


 SOMMARIO

1. Incidente diplomatico

2. L’espressione nella vocabolaristica

3. Datazioni

4. Etimo


















(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


Inflativo: quando l’etimologia smonta la falsa analogia

 

Una volta, durante un seminario universitario, un giovane economista parlò con passione di “manovre inflattive” davanti a una platea attenta. Al termine, un docente gli si avvicinò con garbo e gli disse: “Ottima analisi, ma attento: le parole sono strumenti, non approssimazioni.” Quel piccolo scarto — una “t” di troppo — aveva tradito una disattenzione non solo formale, ma concettuale. Da allora, quel giovane imparò che la precisione linguistica non è pedanteria: è rigore, è rispetto, è chiarezza.

Nel linguaggio tecnico della linguistica e dell’economia, il lessema inflativo si affaccia con discrezione ma con una funzione ben precisa. Eppure, come accade per suppletivo, anche inflativo è spesso vittima di una grafia errata: inflattivo, con due “t”. Un errore che, sebbene diffuso, merita di essere corretto, non solo per rispetto della forma, ma per la comprensione profonda del significato e dell’origine dell’aggettivo.

Il sintagma inflativo proviene, dunque, dal latino inflatio, dal verbo inflare, “gonfiare”, “soffiare dentro”. Da qui, in ambito economico, inflazione indica l’aumento generale dei prezzi, e inflativo diventa l’aggettivo che indica ciò che tende a causare o accompagnare l’inflazione.

Non vi è alcuna base etimologica per la geminazione della “t”: il verbo inflare non contiene una doppia consonante, né la forma inflatio giustifica l’aggiunta. La grafia inflattivo è dunque una deformazione, probabilmente influenzata da parole come correttivo, attrattivo, distrattivo, dove la doppia “t” è giustificata dal verbo di origine (correggere, attrarre, distrarre). Ma inflativo non segue questa logica: non deriva da inflattare, verbo inesistente, bensì da inflare, che, come abbiamo visto, non ha geminazione.

In grammatica, inflativo si può adoperare per descrivere strutture o fenomeni che “gonfiano” il significato, che amplificano, che aggiungono enfasi o ridondanza. In economia, invece, è impiegato per qualificare politiche, tendenze o effetti che contribuiscono all’aumento dei prezzi: “una manovra inflativa”, “un effetto inflativo sul mercato”.

La forma inflattivo, oltre a essere tremendamente errata, rischia di confondere il lettore, suggerendo un’origine verbale che non esiste  distorcendo anche la logica morfologica della parola.

Come nel caso di suppletivo, anche inflativo ci ricorda che le parole non sono semplici etichette: sono organismi con una storia, una struttura, una coerenza interna. Usarle correttamente significa rispettare la lingua come sistema, e non come somma arbitraria di suoni.

In conclusione, inflativo è la sola forma legittima. Adoperarla con cura è un gesto di consapevolezza linguistica, un piccolo atto di resistenza contro la superficialità lessicale. Perché anche le parole, come le idee, meritano precisione.

“Chi gonfia le parole, sgonfia il pensiero.” (anonimo)

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

San Monica: La Vita e l'Eredità della Madre di Sant'Agostino

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Senza parole!





lunedì 25 agosto 2025

'Supplettivo': la doppia T che non perdona

 

Nella terminologia grammaticale della lingua italiana l’aggettivo suppletivo occupa una posizione tanto tecnica quanto affascinante. Eppure, nonostante la sua presenza nei manuali e nei corsi di linguistica, capita spesso di imbattersi in una forma errata: supplettivo, con due “t”. Un errore apparentemente innocuo, ma che rivela una certa disattenzione verso l’etimologia e la struttura morfologica della parola. Queste noterelle si propongono di fare chiarezza, di restituire al termine la grafia corretta e di spiegare perché suppletivo è la sola forma legittima.

Il sintagma suppletivo, dunque, deriva dal latino suppletivus, aggettivo formato dal verbo supplere, che significa “completare”, “colmare”, “aggiungere ciò che manca”. Il verbo latino supplere è composto da sub- (sotto, da sotto) e plere (riempire), e non contiene alcuna doppia “t”. Di conseguenza, la forma italiana corretta conserva questa struttura: suppletivo, con una sola “t”. La grafia errata, supplettivo, è frutto di una falsa analogia, probabilmente influenzata da parole come correttivo, protettivo, direttivo, dove la doppia “t” è presente nel participio passato del verbo da cui derivano (correggere, proteggere, dirigere). Ma nel caso di suppletivo, non c’è alcuna base morfologica che giustifichi la geminazione (raddoppiamento).

In grammatica, suppletivo è un aggettivo che designa un fenomeno molto specifico: si parla di forma suppletiva quando una coniugazione verbale o una flessione nominale si realizza attraverso un radicale diverso, spesso proveniente da un altro verbo o da una radice etimologica differente. È il caso, per esempio, del verbo andare, che presenta forme suppletive come vado, vai, va, provenienti dal latino vadere, mentre andare deriva da ambulare. In italiano, dunque, la coniugazione del verbo andare è suppletiva perché si costruisce con radici diverse per esprimere le varie persone e tempi.

Un altro esempio è il verbo essere, che anche in altri idiomi presenta forme suppletive. In quello italiano, sono, sei, è derivano dal latino esse, mentre fui, fosti, fu derivano da fui, passato remoto di esse, e ero, eri, era da esse in forma imperfetta. Anche qui, il suppletivismo è evidente: un solo verbo, ma più radici per esprimere le diverse forme temporali.

A conclusione di queste noterelle. Suppletivo è un lessema che merita attenzione e cura. Non solo per la sua funzione descrittiva in ambito grammaticale, ma anche per la sua eleganza etimologica. Adoperarlo correttamente vuol dire riconoscere il valore della lingua come sistema coerente, dove ciascuna parola ha una storia, una logica, una forma che va rispettata. E in un mondo dove le parole spesso vengono maltrattate, sapere che suppletivo ha una sola “t” è un piccolo atto di resistenza linguistica.






domenica 24 agosto 2025

“Biciriparatore”: quando la lingua pedala verso la chiarezza


Nel nostro melodioso lessico il sintagma cicloriparatore è talvolta adoperato per designare chi si occupa della riparazione delle biciclette. È una parola composta, tecnicamente corretta, che unisce “ciclo” e “riparatore”. Tuttavia, proprio la componente “ciclo” introduce un’ambiguità semantica che ne compromette la trasparenza. In italiano “ciclo” è un elemento polisemico: può riferirsi a un ciclo scolastico, biologico, produttivo, persino meteorologico. Di conseguenza, cicloriparatore non comunica in modo immediato e inequivocabile il riferimento alla bicicletta, rendendo il lessema poco intuitivo per chi non è immerso nel gergo tecnico.

Da questa riflessione nasce la proposta di un neologismo più chiaro, diretto e funzionale: biciriparatore. La parola si costruisce in modo naturale, fondendo “bici” – abbreviazione colloquiale e universalmente riconosciuta di “bicicletta” – con “riparatore”. Il risultato è un lemma che non lascia spazio a dubbi: chi lo legge o lo ascolta coglie subito il significato, senza bisogno di contesto o spiegazioni. La trasparenza semantica è totale, la scorrevolezza fonetica è gradevole, e l’etimologia è immediata.

“Biciriparatore” si presta perfettamente all’uso quotidiano, alla comunicazione pubblicitaria, all’insegna di un’officina, al linguaggio dei “social”, persino alla didattica. È un termine che parla la lingua delle persone, che si inserisce con naturalezza nel tessuto vivo dell’italiano contemporaneo. Non è attestato nei vocabolari ufficiali, come non lo è cicloriparatore, ma ha tutte le carte in regola per diventare un lemma riconosciuto, proprio come  tante altre neoformazioni nate dalla necessità di colmare un vuoto lessicale.

La lingua evolve quando i parlanti sentono il bisogno di precisione, chiarezza e identità. “Biciriparatore” risponde a questo bisogno con eleganza e funzionalità. È tempo di accoglierlo, di diffonderlo, di farlo pedalare libero nello sterminato lessico italiano.

Eventuale attestazione nei vocabolari dell’uso:


biciriparatóre - s.m. (f. -trice) [comp. di bici e riparatore]

1. Persona che si occupa della riparazione e manutenzione di biciclette, sia in contesti professionali (officine, negozi specializzati) sia in forma autonoma o ambulante. 2. Per estensione, figura artigianale legata alla mobilità sostenibile e alla cultura urbana della bicicletta.

Esempi d’uso – «Il mio biciriparatore di fiducia ha rimesso a nuovo la bici in mezz’ora.» – «Nasce a Roma la rete dei biciriparatori di quartiere: artigiani su due ruote.»

Nota d’uso - Preferito in contesti informali e comunicativi rispetto a cicloriparatore o meccanico di biciclette, per la sua immediatezza e adattabilità al linguaggio urbano e digitale.

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Chi pedala non inquina

La prima multa inflitta a un ciclista, in Italia, risale al 1895, a Milano: fu sanzionato per “eccesso di velocità” in Corso Venezia. Andava a 12 km/h! 

Gino Bartali, leggenda del ciclismo, durante la Seconda guerra mondiale trasportava documenti falsi nascosti nel telaio della sua bicicletta per salvare ebrei perseguitati. Quando lo fermavano, diceva: “Sono solo un ciclista che si allena.”