venerdì 28 febbraio 2025

Pensare e immaginare

 

Pensare e immaginare: sinonimi? Vediamo se lo sono attraverso questa favola.


In un tempo molto lontano, ormai, in un villaggio del magico regno di Verbolandia, vivevano due giovani amici per la pelle: Pensare e Immaginare. Il loro villaggio, noto come Valle della Mente, era conosciuto per la straordinaria capacità dei suoi abitanti di risolvere enigmi e creare mondi fantastici.

Pensare era un giovane riflessivo e analitico, con occhi che brillavano di curiosità e una mente sempre in movimento. Amava trascorrere le giornate, soprattutto quelle invernali, chiuso in casa a riflettere su domande profonde e a risolvere problemi complessi. Il suo nome proveniva, pari pari, dal latino "pensare", che significa "ponderare" o "valutare", quindi “riflettere”, “meditare”. Pensare aveva sempre con sé una piccola bilancia dorata, simbolo della sua capacità di valutare, bilanciare, “pesare” le idee.

Immaginare, dall'altra parte, era una giovincella creativa e sognatrice, dai capelli colorati come l'arcobaleno e un sorriso che illuminava il mondo intero. Le piaceva creare storie incredibili e dipingere immagini straordinarie nella sua mente. Anche il suo nome derivava dal latino "imaginari", che significa "formare un'immagine" o "raffigurare nella mente". La giovane portava con sé un pennello magico, capace di dipingere i suoi sogni nel cielo.

Un dì, i due amici vollero esplorare la foresta incantata, dove rinvennero una vecchia mappa. Questa conduceva a un luogo misterioso, la Biblioteca delle Origini, dove si diceva fossero custoditi i segreti delle parole. Decisero, quindi, di seguire la mappa e intraprendere un'avventura emozionante.

Attraversarono fiumi scintillanti, scalarono montagne maestose superando enigmi difficili. Ogni sfida metteva alla prova le capacità di Pensare e Immaginare. Alla fine, giunti alla Biblioteca delle Origini, una struttura antica e maestosa nascosta tra gli alberi, furono accolti da un anziano bibliotecario, il saggio Librario.

Questi, con un sorriso gentile, disse: "Benvenuti, giovani avventurieri. So che siete qui per saperne di più sulla vostra origine e sul vostro scopo."

Pensare annuì. "Sì, vorremmo conoscere meglio le nostre radici e la nostra missione."

Il saggio Librario aprì un antico libro e cominciò a leggere: "Pensare e Immaginare sono nati dalla profondità dell'anima umana. Pensare, che deriva dal latino 'pensare', è il frutto della riflessione e dell'analisi. Pensare, come una bilancia dorata, pondera e valuta le idee, trovando equilibrio e chiarezza."

Immaginare ascoltava affascinata. "E io? Gentile Librario, da dove vengo?"

Il bibliotecario proseguì nella lettura: "Immaginare, provenendo dal latino 'imaginari', è la scintilla della creatività e della fantasia. Proprio come un pennello magico forma immagini e scenari meravigliosi, dando vita a nuovi mondi straordinari."

Pensare sorrise. "Ora capisco perfettamente. Io sono la mente logica e riflessiva, mentre la mia amica Immaginare è la mente creativa e sognatrice."

L’anziano Librario annuì. "Proprio così. Ambedue svolgete un ruolo importantissimo nelle vite delle persone. Tu, Pensare aiuti a risolvere i problemi, a prendere decisioni e a pianificare il futuro. La bella Immaginare ispira la creatività, l'innovazione e la capacità di sognare in grande."

Da quel giorno, i due inseparabili amici continuarono a camminare insieme, consapevoli della loro importante missione. Capirono che, lavorando in armonia, potevano rendere la vita delle persone più ricca e appagante, unendo la logica e la creatività in un equilibrio perfetto.

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    Pensare è come camminare attraverso un giardino di idee: ogni passo ti avvicina a una nuova scoperta.

  • Immaginare è come volare senza limiti: le ali della mente possono portarci ovunque desideriamo andare.

 

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Da “Domande e risposte” del sito Treccani

Sono uno studente e insieme al mio insegnate volevamo sapere l'analisi logica della seguente frase: "Il libro di Aurora è sul tavolo". Avevamo il dubbio perché il libro può essere sia di argomento sia di specificazione.

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Quell'ancora anticipato (rispetto a “questo libro deve ancora uscire ed è già nella Top 10”) è un uso tipico dell'italiano di Roma e dintorni, uso del quale nessun civis romanus, dentro o fuori dell'anello del Grande Raccordo Anulare, è cosciente. Ma nella norma dell'uso scritto e parlato spalmato in tutt'Italia, quell'anteposizione viene notata.

Non stiamo però parlando di “errori” di cui arrossire, ma di modalità proprie del parlato, che spesso si caratterizzano per una coloritura locale.

In usi più attenti o formali, nel parlare come nello scrivere, consigliamo a tutti, romani e non romani, di ricorrere alla tinta unitaria dell’italiano senza aggettivi.

Più che di regola, parleremmo di una funzionale e cristallizzata collocazione inequivoca dell'avverbio accanto agli elementi da modificare.

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Abbiamo segnalato alla redazione della Treccani il “qui pro quo” in quanto la risposta non si riferisce alla domanda posta dal lettore. Ma...

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Ad avviso di chi scrive non v'è dubbio che si tratta del complemento di specificazione possessiva (il libro di Aurora = che appartiene ad Aurora). Il complemento di argomento avrebbe senso in un contesto diverso: oggi parleremo del libro di Aurora ("del libro di Aurora", designa l'argomento di cui si discuterà). E a proposito di "qui pro quo", interessante quanto riporta Wikipedia.




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giovedì 27 febbraio 2025

La famiglia Clitici

 


A
lcuni anni or sono, viveva, in un fantastico villaggio del Regno della Lingua Italiana, una nobile famiglia numerosa: Clitici. Appartenevano a questa aristocratica famiglia le particelle pronominali, note a tutti per la loro capacità di semplificare le frasi al fine di rendere il discorso più scorrevole.

Nello stesso villaggio viveva Calogerina, una giovane bella e curiosa parola la quale ogni mattina si recava al mercato per comprare frutta fresca. Un giorno, mentre passeggiava tra i banchi, incontrò La, un'appartenente alla/della famiglia Clitici. Questa, appassionata di lingua, era sempre allegra e disponibile ad aiutare chiunque avesse bisogno di rendere il proprio discorso più scorrevole.

Calogerina approfittò dell’incontro: "Devo portare queste mele a casa e non voglio continuare a ripetere 'mele' ogni volta che ne parlo. Potresti aiutarmi?"

La rispose: "Con piacere, cara Calogerina! Da oggi in poi, puoi semplicemente usare me. Dirai 'le' invece di 'mele'. Per esempio, invece di dire 'vedo le mele,' puoi dire 'le vedo.' "

La bella Calogerina tornò a casa felicissima di questa nuova scoperta linguistica. Ben presto incontrò altre particelle clitiche della famiglia, come "lo," "li," "mi," "ti," "ci," "vi," "ne," e "si." Ciascuna di queste particelle aveva un ruolo speciale nel rendere il discorso più fluido e naturale. E Calogerina cominciò subito ad adoperarle per non ripetere sempre il sostantivo.

Ma la storia non finisce qui. Calogerina, qualche giorno dopo, si imbatté nel vecchio saggio del villaggio, che le spiegò l'origine dei clitici. "Sai, Calogerina," disse l’anziano, "i clitici sono così chiamati perché provengono dal greco 'klinein,' che significa 'piegare' o 'appoggiarsi.' Queste particelle non possono stare da sole, ma debbono ‘appoggiarsi’ ai verbi per funzionare correttamente."

Il saggio proseguì: "Devi sapere, inoltre, che i clitici possono essere posti sia prima sia dopo il verbo, a seconda di ciò che vuoi evidenziare. Quando vuoi mettere l'accento sull'azione, puoi usare i clitici dopo il verbo. Per esempio, puoi dire 'voglio vederla' (dove 'la' si appoggia a 'vedere'). Se, invece, vuoi mettere l'accento sul complemento oggetto, puoi adoperare i clitici prima del verbo: 'la voglio vedere' (dove 'la' si appoggia a 'voglio')."

Calogerina ascoltava con religiosa attenzione e imparava sempre di più sull'uso dei clitici. Scoprì, così, che c'erano alcune regole per l'uso ortodosso delle particelle clitiche, a seconda dei tempi verbali e della costruzione della frase.

Per esempio, nei tempi composti come il passato prossimo, i clitici si mettono prima dell'ausiliare:

"L'ho visto" (dove "lo" si appoggia all'ausiliare "ho").

"Ci siamo divertiti" (dove "ci" si appoggia all'ausiliare "siamo").

Se si adopera l'infinito, il gerundio o il participio, i clitici si possono porre dopo il verbo e attaccati a questo:

"Voglio vederlo" (dove "lo" si appoggia a "vedere").

"Vedendolo" (dove "lo" si appoggia a "vedendo").

Le particelle clitiche, inoltre, si dicono "proclitiche" se poste prima del verbo, "enclitiche" se posizionate dopo. 

Calogerina, sempre più affascinata da queste scoperte, ricorreva all’uso dei clitici in tutte le sue conversazioni. Presto, tutti nel villaggio notarono quanto fosse diventata eloquente e fluente nel parlare. Grazie all’ausilio delle particelle clitiche la graziosa Calogerina poteva comunicare in modo più efficace e senza ripetizioni inutili.


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martedì 25 febbraio 2025

Nel cuore della grammatica: la missione dei verbi procomplementari

 


C'
era una volta, in un lontano regno della grammatica, un verbo veramente speciale: Accorgersi. Era speciale perché non era un verbo qualunque, ma un verbo procomplementare. Ciò significava che non poteva vivere da solo, necessitava sempre di una compagnia per essere felice e completo, e questa era il complemento clitico.

Un giorno d’autunno, mentre Accorgersi passeggiava per il bosco delle parole, si imbatté in un vecchio amico, il verbo Essere. Questi gli domandò: "Mio caro Accorgersi, perché sembri sempre così inquieto? Non riesco mai a vederti da solo." Accorgersi, sospirando, rispose: "Mio caro amico, è perché sono un verbo procomplementare. Senza il mio complemento clitico non mi trovo a mio agio, non mi sento completo. Posso dire, per esempio, 'mi accorgo', ma senza un complemento, come potrebbe essere 'di qualcosa', il mio significato rimane incompleto."

Proprio mentre stavano parlando giunse un altro amico, il verbo Avvalersi. "Salve amici, Accorgersi ed Essere," si avvicinò Avvalersi: "Anch'io sono un verbo procomplementare e capisco perfettamente cosa vuole dire Accorgersi. Io pure ho bisogno di un complemento clitico per sentirmi realizzato. Posso dire 'mi avvalgo', ma senza un complemento che mi segue non avvalgo… niente."

Poco dopo sopraggiunse un altro amico, Occuparsi. "Unitevi al club!" esclamò. "Sono nella stessa barca! Anche io sono un verbo procomplementare. Se dico 'mi occupo', ho assoluto bisogno di aggiungere qualcosa per far capire cosa intendo." A questo punto, Accorgersi, Avvalersi e Occuparsi decisero di formare un gruppo di supporto per i verbi procomplementari. Il loro scopo era aiutarsi vicendevolmente e far conoscere agli altri quanto fosse importante il loro ruolo nella lingua italiana.

Una sera, mentre stavano preparando una riunione, Essere comunicò loro che non tutti i testi grammaticali trattano questi verbi. "È vero," rispose Occuparsi, "purtroppo molti manuali di grammatica non menzionano noi verbi procomplementari. Nonostante ciò, siamo consapevoli di quanto il nostro ruolo sia cruciale per formare frasi che abbiano senso e chiarezza. Senza la nostra presenza molte espressioni rimarrebbero vaghe e incomplete, causando confusione e ambiguità. Siamo fondamentali per una comunicazione efficace e il nostro contributo non dovrebbe mai essere sottovalutato."

Accorgersi annuì con convinzione e aggiunse: "Anche se non riceviamo sempre il riconoscimento che meritiamo, continuiamo a svolgere il nostro compito con dedizione e passione, perché sappiamo bene quanto è importante il nostro contributo per l’arricchimento della lingua italiana." Tutti i verbi procomplementari, determinati a far conoscere l'importanza del loro ruolo nella grammatica, continuarono a lavorare assieme e tutti gli autori di testi di grammatica decisero, finalmente, di menzionarli.


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domenica 23 febbraio 2025

Rimproverare e stigmatizzare

 


I verbi rimproverare e stigmatizzare sono ritenuti – nell’uso corrente – sinonimi l’uno dell’altro e adoperati indifferentemente. Ma a una attenta analisi non sono intercambiabili in tutti i contesti perché hanno delle sfumature diverse. Vediamole assieme.

Cominciamo con rimproverare, dal tardo latino “improperare”, vale a dire ‘redarguire’, ‘ammonire’ e simili. Questo verbo, dunque, esprime disappunto o critica verso qualcuno per un comportamento ritenuto scorretto. Il rimproverare, spesso, mira a correggere un comportamento sbagliato; un rimprovero, quindi, può essere costruttivo, anche se a volte può sembrare severo.

Vediamo qualche esempio per meglio chiarire il concetto. "Devi fare più attenzione ai compiti – dice l’insegnante all’alunno – altrimenti rischi di rimanere indietro". Qui il docente rimprovera lo studente per non avere svolto correttamente l’esercizio, ma lo fa con l'intenzione di incoraggiarlo a migliorare.

Analizziamo ora stigmatizzare. Dal greco tardo “stigmatízein”, cioè ‘imprimere un marchio, un segno’ il cui uso figurato di ‘biasimare, rimproverare’ ricalca il francese “stigmatiser”. Stigmatizzare, quindi, significa figuratamente, imprimere un marchio negativo a una persona o a un gruppo a causa di una caratteristica, di un comportamento o di un'azione ritenuta inaccettabile.

Per meglio chiarire: consideriamo un adolescente che viene stigmatizzato a scuola perché ha difficoltà con l'apprendimento. I compagni lo prendono in giro e lo evitano, dicendo cose come "Non parlare con lui, è stupido". Ciò può avere conseguenze durature sul benessere emotivo e mentale del ragazzo, molto più gravi di un semplice rimprovero per non aver completato un compito.  

Concludendo. Il rimproverare mira a correggere un comportamento con l'intenzione di migliorarlo, lo stigmatizzare implica un giudizio negativo più ampio e duraturo che può portare a gravi conseguenze. Rimproverare, insomma, può essere visto come un atto di critica costruttiva, mentre stigmatizzare è un'azione che può causare danni profondi e duraturi negli individui.



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sabato 22 febbraio 2025

La "bellimbusta"

 


C'
era una volta, in un remoto regno, un piccolo villaggio, Linguaincanto, dove l’italico idioma fioriva e ogni parola aveva un ruolo speciale nella vita quotidiana degli abitanti. Questo villaggio, inoltre, era noto per la sua varietà di parole, uniche, e per la creatività con cui i suoi abitanti le adoperavano.

Nel cuore del villaggio viveva una fanciulla, Bella, famosa per la sua grazia e il suo fascino fin dalla tenera età. Col crescere, Bella sviluppò una passione ardente per la moda e per l’eleganza diventando una figura di spicco nel villaggio. Amava indossare abiti sfarzosi e curare ogni minimo particolare del suo aspetto, attirando l'ammirazione di tutti.

Un giorno, mentre passeggiava per il mercato del villaggio, Bella si imbatté in un gruppo di amici che la ammiravano per la sua eleganza e il suo stile impeccabile. Costoro, ispirati dalla bellezza e dalla raffinatezza della giovinetta, decisero di chiamarla "Bellimbusta." Questo termine, coniato appositamente per lei, rispettando la regola della formazione del femminile dei sostantivi che finiscono in "-o," rispecchiava perfettamente il maschile "bellimbusto."

Bella, inizialmente sorpresa, abbracciò con gioia il nuovo nome e iniziò a diffondere l'uso di "bellimbusta" nel villaggio. La parola divenne ben presto sinonimo di eleganza e bellezza femminile, e Bella ne fu orgogliosa.

Ogni anno, nel villaggio si celebrava il Festival delle Parole Nuove, un evento speciale in cui gli abitanti proponevano e votavano nuovi termini per arricchire il loro vocabolario. Durante il festival, Bella decise di presentare ufficialmente il sintagma "bellimbusta" alla comunità. Con un sorriso radioso e indossando il suo abito più elegante, salì sul palco, afferrò il microfono e spiegò l'importanza di avere nel lessico un corrispondente femminile di "bellimbusto," sottolineando, altresì, come la parola rappresentasse la grazia e l'eleganza di tutte le donne del villaggio.

Il pubblico, affascinato dalla presentazione di Bella, accolse calorosamente la proposta. Il nuovo lemma "bellimbusta" fu votato all'unanimità e divenne parte del vocabolario ufficiale di Linguaincanto. La sua introduzione fu celebrata con balli, canti e una sfilata di moda, in cui Bella sfoggiò i suoi abiti più belli incantando tutti gli astanti.

Da quel giorno, "bellimbusta" divenne un termine di uso comune in tutto il villaggio, usato per designare donne che incarnavano lo stesso fascino e la stessa raffinatezza di Bella. Il vocabolo, col tempo, si diffuse anche nei villaggi vicini, portando con sé l'eleganza e la bellezza delle donne che lo ispirarono. In seguito si scoprì che “bellimbusta” era già stato ‘inventato’ da altri, trovandosi in alcune pubblicazioni.




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venerdì 21 febbraio 2025

Il magico 'tintaiolo' di Colorlandia

 


Molti anni or sono, in un contado, Colorlandia, viveva un noto commerciante di vernici, Giacomo, ma non era un semplice venditore di vernici: lui sapeva mescolare i colori come nessun altro. Ogni tinta creata da lui aveva un tocco di magia, e ogni pennellata portava vita e gioia nelle case dei suoi concittadini. I suoi clienti, tutti, sostenevano che le vernici di Giacomo potessero persino far sbocciare i fiori sui muri!

Giacomo, però, era stanco di essere conosciuto come il "venditore di vernici". Sentiva che il suo lavoro meritava un nome unico, proprio come la sua arte. “Sì, esiste colorificio – pensò – ma indica, soprattutto, una fabbrica di colori, di vernici, come si evince dal suffisso ‘-ificio’. Io voglio un nome specifico”. Un giorno, mentre stava miscelando un nuovo colore, ebbe un'illuminazione: " ‘tintaiolo’, da ‘tinta” e il suffisso ‘-iolo,’che indica un mestiere" - disse tra sé e sé - "un nome perfetto che unisce la mia passione per le tinte con la vendita delle vernici."


E
così, Giacomo cominciò a presentarsi come il primo ‘tintaiolo’ di Colorlandia. I suoi clienti, affascinati dal nuovo termine e dalla maestria con cui lavorava, raccontarono a tutti del ‘tintaiolo’ Giacomo. E presto, persone da ogni dove si recarono a Colorlandia per vedere le meraviglie create dal ‘tintaiolo’.

L
e giornate di Giacomo erano piene di colori, risate e storie. Ogni volta che qualcuno entrava nel suo negozio, il ‘tintaiolo’ lo accoglieva con un sorriso raccontandogli una storia su come un particolare colore fosse nato. C'era il "Blu del Mare Calmo," ispirato dalle sue vacanze estive, e il "Rosso del Tramonto," nato dopo una romantica serata in riva al mare. Ogni tinta, insomma, aveva un'anima e un racconto che affascinava i suoi clienti.

U
n giorno di primavera, un famoso pittore di un regno vicino sentì parlare del ‘tintaiolo’ di Colorlandia, decise, quindi, di conoscerlo. Il pittore rimase estasiato dalle storie e dai colori unici, e chiese a Giacomo di creare una tinta speciale per il suo prossimo capolavoro. Giacomo, con grande entusiasmo, accettò la sfida creando il "Verde Speranza," una tinta così brillante e vivace da far rimanere il pittore a bocca aperta.

Il quadro che ne risultò divenne celebre in tutto il mondo dando ulteriore fama a Giacomo anche perché questi aveva dato un nome unico al suo mestiere e aveva portato un po' di magia nella vita di chiunque incontrasse. E così, grazie a Giacomo, il neolemma "tintaiolo" fu riconosciuto da tutti tanto che la locale Accademia lo attestò nel suo vocabolario.












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Una piccola notazione sull’uso corretto degli aggettivi numerali “frazionari”. È necessario tenere presente, dunque, che nella numerazione decimale la parte frazionaria deve essere divisa dall’intero da una virgola: è alto m 1,75 (i metri, i centimetri, i chilometri ecc. non debbono assolutamente essere seguiti dal punto). Nei sistemi non decimali – come nel caso delle ore – la virgola deve essere sostituita dal punto o, meglio ancora, dai due punti: sono le 10.45 (o 10:45); si tratta, infatti, di 45 sessantesimi e non di 45 centesimi. È errore madornale, quindi, dividere le ore dai minuti mediante una virgola. Ma siamo sicuri che la nostra modesta “predica” sarà, come sempre, rivolta al vento. Continueremo a leggere o, meglio, a “vedere” sulla stampa le ore scritte in modo errato: la conferenza stampa di fine d’anno si terrà alle 17,30. Ma tant’è.


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Due parole sul verbo intransitivo “procedere”, che può prendere tanto l’ausiliare ‘essere’ quanto ‘avere’. La scelta dell’ausiliare, però, è legata al significato che si vuol dare al verbo. Si adopererà l’ausiliare ‘essere’ quando il predetto verbo sta per ‘derivare’, ‘proseguire’: tutto ciò è proceduto (derivato) dalla tua imperizia; si userà ‘avere’, invece, nel significato di ‘dar principio’, ‘dare inizio’, ‘agire’ e simili: dopo le discussioni hanno proceduto (dato inizio) alle votazioni.

 

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Da domande e risposte del sito Treccani

Salve, avrei bisogno di una chiarificazione riguardo al concetto di "Uomo universale". Esiste un termine specifico in italiano per descrivere questa figura? Ad esempio, in inglese si usa l'aggettivo "polymath" per riferirsi a persone di questo tipo.

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Ci sembra che una unità lessicale che significhi uomo universale (una persona di vaste e varie conoscenze: così potremmo tradurre polymath) non esista nella nostra lingua. Bisognerebbe ricorrere a un’altra locuzione come uomo (o ingegno) leonardesco, che spesso, però, viene usata in senso scherzoso.

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E se coniassimo “polimata”, tratto da “polimatìa” (dal vocabolario Treccani)?




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martedì 18 febbraio 2025

L' "epistolista"


N
ei tempi andati viveva, in una lontana baronìa, Cartalunga, una giovinetta di nome Elisa. Costei aveva un amore sviscerato per la scrittura e ogni giorno inviava lettere ai giornali locali, condividendo le sue riflessioni, opinioni e storie.

Un giorno, il saggio della baronìa, l’anziano Maestro Paroliere, decise di organizzare una grande tavola rotonda per risolvere un problema che affliggeva Cartalunga: le voci e le considerazioni dei cittadini non venivano sempre ascoltate da chi di dovere, come usa dire.

"Abbiamo bisogno di qualcuno che rappresenti le idee e i sentimenti del nostro piccolo Stato," esordì l’anziano saggio. "Qualcuno che possa scrivere con passione e impegno, condividendo con il mondo le nostre storie e istanze."

Tutti gli astanti si guardarono intorno, chiedendosi chi potesse svolgere un compito così importante. Fu allora che qualcuno, da lontano, esclamò: "Ecco Elisa! Lei scrive lettere meravigliose ai giornali, esprimendo sempre ciò che sentiamo!"

Maestro Paroliere annuì e con un sorriso disse: "Da oggi, la cara Elisa sarà la nostra ‘epistolista’. La sua dedizione alla scrittura e la sua capacità di comunicare i nostri pensieri saranno la nostra voce nella baronìa e nel mondo."

Ma Elisa, perplessa e preoccupata, chiese: "Epistolista? Cosa significa, Maestro Paroliere?"

Il saggio sorrise e spiegò: "Hai ragione, Elisa carissima. Nel nostro lessico non abbiamo un termine specifico per designare colui/colei chi scrive sistematicamente lettere ai giornali. C'è un vuoto lessicale, una mancanza di un vocabolo che possa esprimere questa attività con precisione e dignità. Ed è per questo che oggi chiederemo alla nostra Accademia di mettere a lemma nel suo vocabolario il neologismo lessicale 'epistolista', per colmare questo vuoto."

E così, la giovane Elisa divenne l' "epistolista" di Cartalunga. Continuò a scrivere lettere, raccogliendo le storie dei suoi concittadini e diffondendo le loro esperienze nei giornali. Grazie al suo impegno e al nuovo lemma che definiva la sua attività, Cartalunga divenne famosa per la sua vivace e sincera comunicazione, e le parole di Elisa, l' "epistolista", furono lette e apprezzate da molti.

Il neologismo "epistolista", insomma, colmò un vuoto lessicale, dando una nuova voce e identità a coloro che dedicano la propria vita alla scrittura di lettere e alla diffusione delle idee attraverso i giornali.









 


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La lingua “biforcuta” della stampa

I paesi più indebitati del mondo: l'inaspettata posizione dell'Italia

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Tralasciando paesi (la cui grafia corretta è con l’iniziale maiuscola) ci piacerebbe che gli  operatori dell’informazione ci dicessero l’ammontare dei debiti del mondo.



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lunedì 17 febbraio 2025

Stato e nazione: sinonimi?



 

Attraverso un dialogo immaginario tra un docente e un discente vediamo se stato e nazione sono sinonimi.


 Discente - Buongiorno, professore! Nel linguaggio corrente stato e nazione sono considerati sinonimi e adoperati, pertanto, indifferentemente. Mi sembra che non sia così; potrebbe spiegarmi, se c’è, la differenza?

D
ocente – Buongiorno, caro! Certamente. Cominciamo, allora, con il concetto di stato. Si intende per stato un'entità politica che ha un governo, un territorio ben delimitato, una popolazione e la sovranità, cioè l'autorità suprema nel proprio territorio, riconosciuta sia all’interno sia a livello internazionale.

- C
apisco. Si può definire, quindi, una sorta di struttura politico-legale?

- E
sattamente. Un esempio classico è il nostro stato, l'Italia, che ha un governo, confini chiari e una popolazione.

- E
la nazione? Che cosa ha di diverso?

- L
a nazione, invece, si riferisce a un gruppo di persone che condividono una cultura, una lingua, una storia e un'identità. Si tratta di un concetto socio-culturale. Pensa, per esempio, ai Curdi, che sono una nazione, perché condividono un'identità culturale e storica, ma non hanno uno stato indipendente.

- A
h, la nazione, quindi, riguarda sia l'aspetto socio-culturale sia quello identitario. E l'Italia è sia uno stato sia una nazione?

- E
sattamente. Quando i confini di uno stato coincidono con quelli di una nazione, si parla, correttamente, di stato-nazione. L'Italia è un esempio perfetto, perché gli italiani condividono una lingua, una cultura e una storia, e queste caratteristiche coincidono con i confini dello stato.

- U
no stato, quindi, può contenere, al suo interno, più nazioni?

- P
roprio così. Prendi la Spagna, per esempio: al suo interno ci sono diverse nazioni, come i Catalani e i Baschi, ciascuna con la propria lingua e cultura. D’altro canto, una nazione può estendersi su più stati, come i Curdi che vivono in Turchia, Iraq, Iran e Siria.

- I
nteressantissimo, professore. E la storia su questo argomento che cosa ci dice?

- L
a storia ci mostra che questo dualismo causa e ha causato numerosi conflitti. L'Impero Austro-Ungarico, per esempio, comprendeva molte nazioni diverse governate da un unico stato. E pensa, oggidì, alla Palestina, che ha una forte identità nazionale ma non è uno stato sovrano pienamente riconosciuto.

- O
ra è tutto più chiaro, cortese professore. Stato e nazione non si possono considerare sinonimi. Grazie mille, professore!

- D
i nulla, caro! È sempre un piacere discutere di questi argomenti. Se hai altre domande, sono qui per aiutarti. Dimenticavo: ricorda - cosa importantissima - che stato, nazione e paese si scrivono con l'iniziale maiuscola quando designano un'entità politica.



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domenica 16 febbraio 2025

Il linguista e il "linguafilo"


 In un fantastico regno lontano, Linguapolis, convivevano due personalità affascinanti: il saggio Linguista e il vivace Linguafilo. Il primo era riconosciuto ufficialmente, il secondo ufficiosamente.

Il saggio Linguista trascorreva le sue giornate nella grande Biblioteca dei Saperi, immerso nei libri e nei manoscritti antichi. I suoi libri erano pieni di note e diagrammi che illustravano come le lingue si evolvono e come vengono acquisite. Gli abitanti di Linguapolis ammiravano il Linguista per la sua conoscenza profonda del loro amato idioma e perché prestava la massima attenzione affinché non fosse inquinato dai barbarismi.

Il Linguafilo, da parte sua, amava esplorare le lingue per puro piacere. Passeggiava per le strade di Linguapolis ascoltando, attentamente, i racconti degli abitanti per apprendere nuove parole ed espressioni. Ogni nuovo idioma era una finestra su una cultura diversa, sempre entusiasta di fare altre scoperte linguistiche. Spesso partecipava a convegni sulla lingua e a scambi culturali, condividendo la grande sua passione con chiunque volesse ascoltare.

Un giorno, le due personalità si incontrarono nella piazza principale della città in cui abitavano. Il Linguista, con un sorriso entusiastico, disse: "Amico mio, è veramente meraviglioso vedere quanto amore nutri per le lingue. Anche se il nostro approccio è diverso, condividiamo la stessa passione."

Il Linguafilo, con gli occhi luccicanti per l’emozione, rispose: "Sì, caro Linguista, è proprio così! Tu studi le lingue in modo scientifico, mentre io le esploro per il puro piacere di imparare. Insieme, rendiamo Linguapolis un regno ricco e vibrante."

Gli abitanti di Linguapolis, vedendo i due amici uniti dalla loro passione comune, decisero di organizzare un incontro perché i due potessero raccontare storie affascinanti sulle lingue, condividendo aneddoti e curiosità.

Il Linguista spiegò, con tono accademico, come le lingue si evolvono nel tempo e come i suoni si trasformano. Portò con sé vecchi manoscritti e diagrammi complessi, spiegando agli astanti i meccanismi linguistici con grande precisione. Il Linguafilo, invece, parlò delle sue avventure linguistiche e delle meraviglie culturali che aveva scoperto. Raccontò di parole intraducibili che racchiudevano interi mondi di significato, e di come ogni nuova lingua appresa fosse un ponte verso altre amicizie e comprensioni.

Gli abitanti di Linguapolis li ascoltarono con religiosa attenzione, affascinati dalla magia delle parole e dalla ricchezza delle lingue del mondo. Alla fine dell’incontro tutti firmarono una petizione perché Linguafilo fosse riconosciuto ufficialmente e attestato nei più prestigiosi vocabolari del regno. E così fu. Non solo, linguafilo fu accolto anche nei testi di grammatica per le scuole di ogni ordine e grado con l'accezione di "amante della lingua".














 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Eliseo conferma i paesi partecipanti al summit di Parigi

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Ricordiamo, ancora una volta, ai “divulgatori di cultura”, che paese si scrive con la “P” (maiuscola) quando sta per nazione, stato. Correttamente: (…) i Paesi partecipanti (…).  



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sabato 15 febbraio 2025

Cantare? Burlare...

 


L’evento sanremese, con le sue canzoni, ci ha richiamato alla mente il verbo “canzonare”, che rappresenta un affascinante esempio di polisemia e di evoluzione semantica, una trasformazione del significato che illustra la vivacità e la fluidità del nostro idioma. Canzonare, dunque, è un verbo denominale derivando dal sostantivo "canzone," termine che a sua volta proviene dal latino "cantus," che significa "cantare." Inizialmente il verbo in oggetto aveva, quindi, il semplice significato di "comporre o cantare canzoni."

Con il trascorrere del tempo, tuttavia, "canzonare" ha assunto il significato di burlare, di prendere in giro, di ridicolizzare qualcuno. Questo cambiamento semantico è avvenuto attraverso l'uso metaforico del termine, dove il concetto di cantare canzoni satiriche o umoristiche si è evoluto fino a diventare sinonimo di burla.

L
a poesia satirica del Medioevo è un esempio lampante. I trovatori che si spostavano di corte in corte componevano spesso canzoni che avevano l’obiettivo di criticare e ridicolizzare personaggi pubblici e avvenimenti dell'epoca. Queste composizioni, cantate spesso in forma di ballata, usavano un linguaggio ironico e canzonatorio per ‘veicolare’ il loro messaggio, stabilendo, in tal modo, il legame tra il "cantare" e il "prendere in giro".

O
ggidì, quando diciamo che qualcuno "canzona" un'altra persona, vogliamo mettere in evidenza il fatto che la sta deridendo a sue spese. Questa evoluzione semantica dimostra come il linguaggio possa adattarsi e trasformarsi con l’andar del tempo, riflettendo i cambiamenti culturali e sociali della società. Un comico potrebbe, per esempio, "canzonare" un politico durante un monologo satirico, usando battute e giochi di parole per mettere alla berlina i difetti o le contraddizioni del personaggio.

Da un semplice significato di "cantare," il lemma ha acquisito, insomma, connotazioni più complesse, riflettendo la ricchezza e la versatilità della comunicazione umana. Questa trasformazione ci ricorda, inoltre, che la lingua è un organismo vivo, in costante evoluzione, che si arricchisce e si trasforma con il trascorre del tempo e con l'evoluzione della stessa società.












(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

venerdì 14 febbraio 2025

Il riparapiccì


 Tanti anni or sono, in un piccolo villaggio, Tecnolandia, viveva un simpatico e ingegnoso ragazzo di nome Eusebio, noto a tutti come Riparapiccì perché era un vero mago nella riparazione dei computer. Questo soprannome, nato dall'unione del verbo "riparare" con la sigla "PC" (Personal Computer), rifletteva la sua straordinaria abilità nel risolvere qualsivoglia problema legato ai computer.

Un giorno, una grande calamità colpì il villaggio. Tutti i computer degli abitanti smisero di funzionare, e la vita moderna sembrava essere a un punto morto. Senza poter utilizzare i loro amati dispositivi, le persone si sentirono perse, disperate e isolate dal mondo.

M
a non Riparapiccì. Con il suo fidato cacciavite e il suo ingegno, intraprese un viaggio epico per salvare i computer del villaggio. Si recò in tutte le case, una per una, esaminò ogni problema con attenzione e cominciò a riparare tutti i dispositivi con certosina pazienza e molta cura.

M
entre lavorava, gli abitanti lo guardavano con ammirazione e speranza. Riparapiccì risolveva i problemi di ‘software’, come virus ostinati che impedivano l'avvio del sistema e programmi che si bloccavano continuamente. Un giorno, si trovò di fronte a un computer che visualizzava solo una schermata blu della morte. Riparapiccì analizzò il problema e, con un lavoro meticoloso, riuscì a ripristinare il sistema operativo, facendo ripartire il computer come nuovo.

M
a le sfide non finivano qui. In un'altra casa, un bambino aveva accidentalmente rovesciato una bevanda sul portatile dei genitori. Il computer sembrava irrimediabilmente danneggiato, ma Riparapiccì non si arrese. Smontò il dispositivo pezzo per pezzo, pulì e asciugò attentamente ogni componente e sostituì quelli danneggiati. Con grande sorpresa dei genitori, il portatile tornò a funzionare perfettamente.

I
n un'altra occasione, Riparapiccì si trovò a fronteggiare un problema insolito: un computer con uno schermo rotto che mostrava colori distorti e immagini tremolanti. Dopo un'attenta diagnosi, Riparapiccì scoprì che il cavo dello schermo era allentato. Riparò il cavo e sostituì lo schermo danneggiato, restituendo al proprietario un dispositivo funzionante e luminoso come nuovo.

G
razie al suo impegno, tutti i computer ripresero a funzionare e la vita a Tecnolandia tornò alla normalità. Gli abitanti del villaggio, grati, organizzarono una grande festa in onore di Riparapiccì, ringraziandolo per il suo instancabile servizio. Ma c’è di più: gli intitolarono la piazza e il termine riparapiccì, entrato nel lessico, da soprannome divenne un nome comune.













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giovedì 13 febbraio 2025

C'è investire e... investire

 


I
l verbo "investire" è un esempio affascinante di enantiosemia, un fenomeno linguistico per cui una parola o espressione assume/assumono significati opposti. È mai possibile che un verbo possa esprimere due concetti diametralmente opposti? Per comprendere meglio questo curioso caso conviene cominciare dalla “nascita” del verbo, ovvero dall’etimologia.

Il verbo in oggetto, dunque, è pari pari il latino "investire", che significa "rivestire" o "ricoprire". Questa accezione originaria è legata all'idea di coprire o indossare qualcosa, come si farebbe con un abito. Col trascorrere del tempo, il verbo ha acquisito due significati principali in italiano moderno: "colpire violentemente" e "destinare (del) denaro".

I
l significato di "colpire violentemente" si è evoluto dal senso di "coprire" in quello di "travolgere" o "urtare". Questo passaggio si può comprendere pensando a un veicolo che "copre" rapidamente una distanza e travolge tutto ciò che incontra: l’automobile ha investito un pedone; il treno ha investito un animale fermo sui binari; la nave ha investito un motoscafo nella sua rotta.

P
arallelamente, "investire" ha conservato una connessione più astratta al concetto di "vestire", ovvero "destinare" o "impegnare" risorse in qualcosa. Questa accezione si sviluppò particolarmente durante il Medioevo, quando il verbo veniva adoperato per designare l'atto del conferimento di un incarico o di un possedimento a qualcuno, "vestendo" simbolicamente quella persona del nuovo ruolo o dei nuovi averi (si pensi, in proposito, alla lotta per le investiture). Questo uso, con il tempo, si è evoluto in ambito economico e finanziario, dove "investire" significa destinare denaro o risorse in un'impresa o in un progetto: ho deciso di investire i miei risparmi in azioni; alcune persone scelgono di investire in fondi comuni per diversificare il rischio; la società ha investito milioni di euro in ricerca e sviluppo.

I
l passaggio tra i significati di "colpire violentemente" e "destinare denaro" è radicato, insomma, nell'idea comune di "impegnare" o "dedicare" qualcosa. Nel contesto di un impatto fisico si tratta di impegnare la forza o la velocità di un veicolo; nel contesto economico-finanziario si tratta di impegnare risorse finanziarie in un'impresa. Questa duplice accezione riflette l'evoluzione della lingua e come le parole possano adattarsi e trasformarsi nel tempo conservando un nucleo semantico condiviso.

I
significati opposti del verbo testimoniano, per concludere, la ricchezza e la complessità del linguaggio e ci ricordano quanto sia affascinante esplorare le origini e le trasformazioni delle parole che adoperiamo quotidianamente.
















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mercoledì 12 febbraio 2025

Il jackpot anglo americano


di Claudio Antonelli (da Montréal)

Il termine magnate è presente sia nella nostra lingua che in quella inglese. Ma per le masse italiane Donald Trump non è un magnate bensì un tycoon. Ho udito ultimamente in TV chiamare Elon Musk magnate. Quindi Trump è un tycoon e Musk è un magnate. Ma attenti alla pronuncia di magnate, perché se lo pronunciate in italiano pochi in Italia capiranno e penseranno forse al solito invito al magna magna. 

Nella penisola non solo il tycoon ha eliminato il nostro magnate, ma i rumor hanno messo a tacere le voci, il summit ha soppiantato il vertice, i supporter hanno espulso i tifosi.  “In cima” è stato surclassato da “al top”. Target, hotspot, highlights, clean sheet, step, flash, price cap, caregiver, binge drinking, hater, assist, smart working, shopper, supporter, news, brand, spot, day, bipartisan, moral suasion, authority, intelligence, body shaming, ecc. La lista degli anglicismi non ha mai fine. 


Big è una parola molto usata in Italia. Si può essere big, anche mondiali, dell’auto, dell’industria, degli pneumatici, del web, di borsa, del cinema, o di un qualunque altro settore. Ma su tutti questi pezzi grossi, i più conosciuti, ammirati, citati sono i big della canzone, intorno ai quali l’Italia intera si stringe trepidante in occasione del festival di Sanremo. Big è superato però in frequenza da flop, cui neppure i big sfuggono. Ma il più grande flop è quello degli autori di scritti disseminati di anglicismi, perché con essi la lingua italiana, è proprio il caso di dire, va in tilt. 


Nelle redazioni dei giornali, l’anglo americano è un jackpot da cui gli indaffarati addetti ai lavori arraffano a piene mani. Cosa volete: i redattori, nella scelta delle parole da usare non vanno per il sottile forse anche perché sono in pressing o per dirla borbonicamente “vanno e’ pressa”. Tanto “e’ pressa” che è stata fatta confusione, come abbiamo visto, tra il gerundio pressuring da “to pressure” = “esercitare pressioni”, e l’aggettivo pressing che in vero inglese vuol dire urgente.


Secondo me è andato di fretta anzi “è andato e’ pressa” anche il legislatore quando ha denominato stalking il comportamento persecutorio, le pressioni, le vessazioni, il braccare da cacciatore un essere umano; con il risultato che avvengono fatti del genere: “Il Tar di Aosta ha accolto il ricorso di un uomo denunciato per stalking: aveva regalato cioccolatini e fiori a una donna.” Come vedete, con le parole inglesi si possono prendere fischi per fiaschi. 


Secondo i difensori dell’itanglese (itangliano, italianese, italiese, itanglish), gli anglicismi vengono dal basso, dal popolo. Gli anglicismi sarebbero come i frutti di una rigogliosa pianta che cresce spontanea sul suolo patrio. Niente di più falso, perché in Italia sono i politici, i conduttori televisivi, i giornalisti, i personaggi di spicco, l’élite insomma, ad agire da spacciatori (“pusher” per gli italiani) dei termini inglesi, e non il popolino; vocaboli spesso inutili e quindi dannosi, e spesso comicamente pronunciati; o persino erronei, vedi rider che sta per “fattorino in bicicletta”, e writer per graffitaro o imbrattamuri. 


Questo itanglese con le pezze al c… nasce in alto, in seno alla nostra “crème de la crème” politica, economica, culturale. E quindi discende verso le masse della penisola. Le quali se ne pascono beate, perché, al pari delle loro élite, sono esterofile e amanti delle mode e dei trasformismi. 



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