Una breve e modesta chiacchierata su tre parole di uso
comune e dal significato “nascosto”: mansarda,
abbaino e frate .
Cominciamo con il dire che il primo vocabolo non è un termine schiettamente italiano essendoci giunto dal francese “mansarde”. Il significato “scoperto”, dunque, tutti lo conosciamo: piccola sopraelevazione di alcuni edifici a forma di abbaino con tetto a due spioventi e, per estensione, soffitta. Il significato “coperto” nasconde il nome dell’architetto francese François Mansart (1598-1666) che introdusse questo tipo di costruzione riconvertendo i sottotetti e già usati come abitazione nel periodo medievale.
Quanto ad abbaino, cioè al lucernario, vale a dire all’apertura sopra i tetti, per “salirci” sopra, o per dar luce a camere che stanno sotto il tetto, viene dal genovese “abbaén” (fratino, piccolo abate). “Da un documento del Quattrocento – ci fa sapere Gianfranco Lotti – si apprende che in Liguria questo termine era in uso per indicare la ‘tegola di ardesia’, di colore simile a quello dell’abito di certi frati. A maggior ragione fu chiamata ‘abbaino’ ogni finestra , praticata sui tetti, con copertura a due spioventi, la cui forma ricorda il cappuccio dei monaci”.
Restando in tema di etimologia (e per assonanza), è interessante scoprire l’origine di “abate” che, attraverso il latino “abbate(m)”, passando per il greco ecclesiastico ci conduce all’aramaico “ab” (‘padre’). Gli abati, i frati, non sono i nostri padri?
Cominciamo con il dire che il primo vocabolo non è un termine schiettamente italiano essendoci giunto dal francese “mansarde”. Il significato “scoperto”, dunque, tutti lo conosciamo: piccola sopraelevazione di alcuni edifici a forma di abbaino con tetto a due spioventi e, per estensione, soffitta. Il significato “coperto” nasconde il nome dell’architetto francese François Mansart (1598-1666) che introdusse questo tipo di costruzione riconvertendo i sottotetti e già usati come abitazione nel periodo medievale.
Quanto ad abbaino, cioè al lucernario, vale a dire all’apertura sopra i tetti, per “salirci” sopra, o per dar luce a camere che stanno sotto il tetto, viene dal genovese “abbaén” (fratino, piccolo abate). “Da un documento del Quattrocento – ci fa sapere Gianfranco Lotti – si apprende che in Liguria questo termine era in uso per indicare la ‘tegola di ardesia’, di colore simile a quello dell’abito di certi frati. A maggior ragione fu chiamata ‘abbaino’ ogni finestra , praticata sui tetti, con copertura a due spioventi, la cui forma ricorda il cappuccio dei monaci”.
Restando in tema di etimologia (e per assonanza), è interessante scoprire l’origine di “abate” che, attraverso il latino “abbate(m)”, passando per il greco ecclesiastico ci conduce all’aramaico “ab” (‘padre’). Gli abati, i frati, non sono i nostri padri?
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Due parole apposta su.... “apposta”. Quasi tutti, quando
fanno l’analisi grammaticale del vocabolo in questione lo classificano come
avverbio. No, non è sempre avverbio, può essere anche aggettivo invariato. Quando ha valore avverbiale sta per “di proposito”, “proprio per quello scopo”,
“deliberatamente” (credo si comporti cosí apposta per infastidirmi); in
funzione aggettivale vale “dedicato”, “destinato”, “fatto appositamente”,
“adeguato allo scopo”, “adatto” (per far funzionare quel macchinario ci vogliono
persone apposta). Si può scrivere anche in grafia analitica (due parole): a
posta.
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