martedì 19 febbraio 2019

Il lessico italiano e le "isole linguistiche" (regioni)


La lingua italiana, potremmo dire, è una  “summa” dei vari dialetti dove quello fiorentino (ma anche romano) fa la parte del leone grazie ai tre grandi del Trecento: Dante, Boccaccio e Petrarca che hanno elevato il fiorentino illustre ai piú alti fastigi. Negli ultimi decenni del Quattrocento e nei primi del Cinquecento tutti cercano di conformarsi, quindi, ai modelli letterari offerti dai Grandi: nasce – possiamo dire – la lingua  “nazionale”.  Insomma tra i vari idiomi  “fratelli” che si parlavano in tutto lo Stivale una sorta di plebiscito ha dato la supremazia alla lingua toscana senza, però, respingere singoli contributi offerti dalle altre  “isole linguistiche” (regioni). Vediamo, quindi, sia pure succintamente, i vari termini regionali entrati "di diritto" nel lessico italiano. La Sicilia ha dato alla lingua nazionale i  “cannoli” e la  “cassata”; l’Emilia il  “birichino” e l’ “aleatico” oltre al  “mezzadro” e  “mezzadria”, forme prevalenti sulle toscane  “mezzaiolo” e “mezzeria”. L’Urbe ha contribuito regalandoci parole affettuose o scherzose come  “pupo”, “racchio”, “sganassone”; sempre dalla Città eterna abbiamo “sbafare” (mangiare gratuitamente), "caciara" (chiasso), "prescia" (fretta, premura) e i gustosi  “maritozzi” (con panna) oltre ai supplí (al ‘telefono’, cosí chiamati perché la mozzarella filante richiama i fili del telefono). La Liguria, per la sua posizione geografica, ci ha dato termini marinari come  “scoglio”,  “darsena”, “boa”, “molo”, “carena” e  “trinchetto”; ligure è anche il nome di quel pesciolino, l’ “acciuga”, ottimo per insaporire la... pizza. Il Piemonte, oltre ai famosi  “grissini”, ha immesso nella lingua nazionale molti termini militari come la  “ramazza”, il verbo  “bocciare” nell’accezione di  “respingere” e il "cicchetto" (rimprovero). Dai dialetti delle regioni alpine abbiamo il  “camoscio”, per via del commercio che si faceva della pelle di quell’animale e, abbastanza recentemente, parole legate all’alpinismo: “baita”, “croda”, “cengia”. La Lombardia, oltre al famoso panettone, ha immesso nella lingua il verbo "bigiare" (marinare la scuola) e alcuni termini dell’industria casearia: la “robiola”, il  “mascarpone”, l’ “erborinato”. Dall’ex capitale del regno delle Due Sicilie si è diffuso il verbo marinaresco  “ammainare”, propriamente  “inguainare” (sottinteso le vele), cosí pure la  “pizza” e la  “mozzarella”, le  “alici” e le  “vongole”, oltre alla... “iettatura”. Il Veneto, in particolare Venezia, ha dato alla lingua la  “gondola”, molti nomi di pesci, come il “branzino”, per esempio. Sempre da Venezia abbiamo il  “catasto”, il "ciao" (saluto) e la  “gazzetta” nel significato di  “giornale” perché, sembra, si pagasse una... gazzetta, moneta che si coniava nella città della laguna. Abbiamo piluccato qua e là, a caso, fra i molti vocaboli che avremmo potuto citare, per dimostrare quanto copiosi e quanto vari siano i contributi che le  “isole linguistiche” (regioni) hanno dato alla lingua nazionale.


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Coriandoli di... zucchero


Siamo in pieno periodo carnevalesco e nei giardinetti delle nostre città i bambini giocano festosi gettandosi addosso  i colorati coriandoli simboli, per eccellenza, del carnevale. Parliamo, quindi, dei coriandoli. I coriandoli, dunque – è risaputo – sono il simbolo principe del carnevale. Ciò che non tutti sanno, forse, è che i coriandoli, piú appropriatamente il coriandolo (coriandro), sono delle piante della famiglia delle Ombrellifere, con fusto eretto, fiori piccoli e bianchi i cui semi – chiamati anch’essi coriandoli – contengono un olio aromatico, un tempo adoperato in liquoreria per ‘insaporire’ cibi e bevande. Da queste piante si pensò di ricavarne dei piccoli confetti rotondi, contenenti un seme di coriandolo e, vista la loro economicità e leggerezza, si cominciò a gettarli dalla finestra sui festosi e chiassosi cortei carnevaleschi; piú tardi, verso la fine dell’Ottocento, per motivi puramente economici, si pensò di sostituire i confetti di coriandoli con altri fatti di gesso; in seguito, economizzando sempre di piú, si sostituirono i confetti di gesso con i dischetti di carta che avanzavano dalla preparazione dei fogli bucati per i bachi da seta. Oggi, dove tutto è industrializzato, i coriandoli vengono fabbricati appositamente; non sono piú i residui dell’industria serica, il nome originario, però, è rimasto inalterato.

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Il verbo "deplorare" è pari pari il latino 'deplorare', derivato di 'plorare' e significa "piangere". È adoperato correttamente, quindi, nelle accezioni di "dolersi", "lamentarsi", "compiangere", "lagnarsi" e simili. I vocabolari lo attestano anche con il significato di "condannare", "biasimare", "rimproverare". A nostro modo di vedere è un uso improprio, se non scorretto, perché "contraddice" l'etimologia. Quindi, correttamente: tutti deploriamo l'uccisione di Moro. Male, a nostro avviso: deploro il tuo comportamento.


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A sbafo o a sbaffo? Qui la risposta.




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