di
Salvatore Claudio Sgroi *
Il
(neo)purismo, come è noto, ha sempre
goduto in Italia di grande fortuna. (Neo)purista è chi in genere lamenta (se
non condanna) il mutamento della lingua, mostrando nel contempo una ‘fedeltà’
assoluta ad essa. Un atteggiamento però contraddittorio con l’essenza stessa
della lingua che esiste unicamente in funzione dei mutevoli e imprevedibili
bisogni espressivi-comunicativi-cognitivi dei parlanti di una comunità.
Nell’essere (neo)puristi ci possono tuttavia essere gradi diversi di “fedeltà linguistica”. I cambiamenti linguistici
dei parlanti subalterni, incolti, tipici cioè dell’“italiano substandard
(regional)popolare”, sono ritenuti sociolinguisticamente degli “errori” (anche
se tali non sono comunicativamente), e non di rado suscitano il sorriso di chi
non è parlante popolare (“il comune senso dell’errore”). Così per es. i
congiuntivi analogici sulle desinenze della prima coniugazione io stassi (per ‘stessi’)”, oppure facci (pro ‘faccia’)”. O ancora frasi
ipotetiche col doppio condizionale come Se
io lo saprei glielo direi al posto di se
lo sapessi glielo direi.
Quanto
ad altri cambiamenti, per es. l’indicativo al posto del congiuntivo in
enunciati come Credo che tu hai
(anziché: ‘abbia’) perfettamente ragione,
oppure Se lo sapevo non venivo al
posto di se l’avessi saputo non sarei
venuto, o Fra voi c’è qualcuno che
conosce (anziché: ‘conosca’) la
lingua araba?”, o ancora Mi chiedo
chi lo ha (per: ‘abbia’) invitato,
– si tratta di usi dell’“italiano
colloquiale” di tutti i parlanti: colti e mediamente colti (e incolti).
Rispetto
a questi usi i (neo)puristi possono invece mostrarsi, come dire, “morbidi”. E
tale è l’atteggiamento che caratterizza gli autori del fortunatissimo
manualetto Viva il congiuntivo! di Valeria Della Valle – Giuseppe Patota
(Sperling & Kupfer 2009). “Un errore da evitare” è l’uso popolare dei
“famigerati (analogici) «dassi» e «stassi»”. Invece “frasi non
scorrette” quelle di “italiano colloquiale” con l’indicativo pro congiuntivo. E tuttavia “il nostro
consiglio – si affrettano a precisare gli autori – è di evitarlo nell’italiano
scritto e in quello parlato in situazioni formali”. Un colpo alla botte e uno
al cerchio...
La
strategia tipica del (neo)purista non sempre è quella prescrittivista (“non
dire così, perché è errato”), ma è quella di sottolineare ampiamente con dotta
argomentazione la vitalità del congiuntivo in ambiti diversi. Anzi i due
co-autori si propongono di sfatare il mito della “morte del congiuntivo”, al
contrario “sulla cresta dell’onda”. Sennonché il problema vero non è tanto la sua
scomparsa quanto il suo indiscutibile arretramento
dinanzi all’indicativo (1 a 3 stando a Google 17.V, come riconoscono gli stessi
autori; e negli “scrittori di oggi” ma anche “di ieri” con l’indicativo in
rapporto di 1 a 2). A nostro giudizio, andava invece chiarito che tale
“naturale” arretramento – che coinvolge un po’ tutte le lingue indo-europee
(vedi A. Meillet) – è dovuto a una causa interna, cioè alla scarsa salienza
fonica (am-ano/am-ino) e distanza
strutturale tra indicativo e congiuntivo (per es. tu/egli am-i, noi am-iamo). La tendenza alla semplificazione linguistica, più che l’esser “difficile da
imparare” o “da usare”, è la reale motivazione del suo arretramento.
Quanto
al nodo teorico se il congiuntivo va(da) inteso tradizionalmente (e
scolasticamente) come modo
dell’incertezza, del dubbio rispetto all’indicativo modo della certezza,
oppure se sia (o: ‘è’) semplicemente un modo
più elegante rispetto all’indicativo, gli autori sembrano incerti al
riguardo. “Quella tra indicativo e congiuntivo resta una scelta di stile” (si
legge a p. 49). Il congiuntivo è “il modo tipico della subordinazione” (p. 64).
Ma essi sostengono anche che “il congiuntivo non ha un valore unico, ma molti
valori, molte funzioni, molti usi e molti significati” (p. 72). Ovvero
insistono più che altro sul senso (della certezza o dubbio) del verbo che regge
la dipendente col congiuntivo. E tuttavia – si può facilmente obiettare – il
fatto che uno stesso verbo reggente (indicante incertezza o dubbio) possa
governare sia il congiuntivo (senz’altro più elegante) o l’indicativo
(certamente più informale) sta proprio a dimostrare che la differenza tra i due
modi è di pura forma e non di significato. Credo che Dio esista (al
congiuntivo) lo dicono molti credenti, senza sentirsi turbati dalla presunta
incertezza del congiuntivo, semplicemente più elegante rispetto a credo che
Dio esiste (all’indicativo). È questa la prova ‘ontologica’ – si potrebbe sostenere – dell’inesistenza del
congiuntivo modo della ‘possibilità, volontà o irrealtà’. Insomma, lunga vita
al congiuntivo, ma con adeguata argomentazione!
(in Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2016, pp. 243-45).
* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania
Autore tra l'altro di
--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);
-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);
--Dove va il congiuntivo? (Utet 2013);
-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)
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