Breve viaggio
– senza una meta prestabilita – attraverso il vocabolario della lingua italiana
alla ricerca di parole di uso comune, quelle che adoperiamo quotidianamente,
“per pratica”, il cui significato nascosto non è sempre chiaro a tutti.
Prendiamo delle parole che ci vengono alla mente, cosí, senza una “logica
predeterminata”.
NOSTALGIA
Avreste
mai immaginato che quel desiderio intenso per qualcosa che si è lasciato
temporaneamente o per sempre, la nostalgia, appunto, è un “dolore tutto
nostro”? Se analizziamo il termine sotto il profilo etimologico scopriamo che
il vocabolo è composto con le voci greche “nòstos” (ritorno) e “algia”
(sofferenza, dolore). La nostalgia, letteralmente dunque, è un forte dolore
provocato dalla sofferenza (‘algia’) data dal desiderio del ritorno (‘nòstos’)
ai propri luoghi o ai propri cari. Quando la parola nacque era adoperata
esclusivamente nel linguaggio medico; solo verso la fine dell’Ottocento
cominciò a essere impiegata nel parlare di tutti i giorni nel significato
attenuato di “rimpianto”: ho nostalgia del mio paese, vale a dire rimpiango il
mio paese e soffro dal desiderio di tornarvi.
MEDICO
A proposito di medicina e di
medico (altra parola di “tutti i giorni”), se apriamo un qualsivoglia
vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: colui che cura le malattie che non
richiedono intervento chirurgico. La nostra sete di sapere, però, non è
soddisfatta in quanto il dizionario non ci ha svelato il significato “nascosto”
del termine. Insomma, chi è questo medico? È il latino “medicu(m)”, tratto dal
verbo “mederi” (riflettere), quindi “curare” (dopo aver riflettuto). Il medico,
insomma, “riflette” per poter curare. La persona, invece, che non riflette o,
peggio, che non ragiona, nel linguaggio comune viene definita “folle”. Anche
questo termine viene dal latino “folle(m)” (cuscino gonfio d’aria). Di qui, in
senso figurato, il vocabolo è passato a indicare una “testa piena d’aria”,
quindi “vuota” e chi ha la testa vuota non è in grado di connettere, di
ragionare è, quindi, un… folle.
CAPORALE e SERGENTE
Lasciamo i “pazzi” e occupiamoci di
due termini militari: caporale e sergente. Per questi ci affidiamo alle
sapienti note di Aldo Gabrielli, insigne linguista. “…Non occorre essere
esperti di lingua per sentire subito, cosí ad orecchio, che ‘caporale’ risale
alla parola ‘capo’ (…) e può quindi vantare una stretta cuginanza con
‘capitano’. In origine, anzi, il capitano era soggetto al caporale, appellativo
generico di chi esercitava un comando (…). Caporali del popolo erano a Firenze
quei cittadini che il popolo eleggeva ogni anno a tutela dei propri diritti
contro l’aristocrazia; e infatti lo storico del Trecento Giovanni Villani,
nella sua ‘Cronaca’ ci parla ‘delli maggiori e più possenti caporali dell’annata’;
e ci fa anche sapere che i caporali comandavano su quarantamila 'sergenti’.
Davvero una gerarchia in evoluzione".
***
Segnaliamo un vocabolo non
"lemmato" nei comuni vocabolari dell'uso: àmburo.
Aggettivo (e pronome) di provenienza latina che vale "entrambi",
"tutti e due" essendo tratto dal genitivo latino plurale
"amborum".
***
In tema di
considerazioni sull’uso corretto del nostro idioma, ci viene alla mente il
verbo abboccare che molti, troppi, adoperano in modo
errato. Questo verbo è nato transitivo e tale deve rimanere, checché ne dicano
i soliti vocabolari permissivi. Abboccare cosa significa se non afferrare con la bocca?
I pesci, quindi, abboccano l’amo, non all’amo. Abboccare, insomma, regge il complemento oggetto: il cane abboccò la preda. L’uso intransitivo del verbo in questione è corretto solo in senso figurato con il significato di cadere in un inganno: il malvivente abboccò all’invito della polizia.
E per finire due considerazioni su abdicare e accudire. Il primo è nato transitivo ma l’uso lo ha reso intransitivo; quando nacque significava respingere: colui che abdicava il trono, lo respingeva; l’uso intransitivo è nato per evoluzione semantica del verbo che, nel secolo scorso, anzi due secoli fa, ha acquisito il significato di rinunziare: colui che abdica rinunzia al trono. Il secondo, invece, si può adoperare indifferentemente, sia in senso transitivo sia in senso intransitivo: accudire un bambino o a un bambino.
I pesci, quindi, abboccano l’amo, non all’amo. Abboccare, insomma, regge il complemento oggetto: il cane abboccò la preda. L’uso intransitivo del verbo in questione è corretto solo in senso figurato con il significato di cadere in un inganno: il malvivente abboccò all’invito della polizia.
E per finire due considerazioni su abdicare e accudire. Il primo è nato transitivo ma l’uso lo ha reso intransitivo; quando nacque significava respingere: colui che abdicava il trono, lo respingeva; l’uso intransitivo è nato per evoluzione semantica del verbo che, nel secolo scorso, anzi due secoli fa, ha acquisito il significato di rinunziare: colui che abdica rinunzia al trono. Il secondo, invece, si può adoperare indifferentemente, sia in senso transitivo sia in senso intransitivo: accudire un bambino o a un bambino.
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