Caro Direttore del portale,
mi permetta di presentarmi prima di chiederle ospitalità per una lettera aperta agli amanti del bel parlare e del bello scrivere che seguono questo sito. Sono il possessivo, o meglio l’aggettivo determinativo che esprime l’idea del possesso, dell’appartenenza; i miei biografi, cioè i grammatici, amano definirmi «quella parte variabile del discorso che si mette prima (o dopo) di un sostantivo per indicarne l’appartenenza, il possesso». Ho notato che non tutti mi adoperano correttamente, per questo ho pensato a una lettera aperta indirizzata a quanti hanno a cuore il buon uso della lingua italiana e accetteranno, quindi, alcuni miei modesti consigli circa l’ “obbligatorietà” dell’articolo davanti all’aggettivo possessivo. So benissimo che rischierò di rasentare la pedanteria (e di ciò chiedo scusa in anticipo), ma in lingua, alcune volte, è estremamente necessario essere rigorosi per non incorrere in strafalcioni che fanno inorridire “quanti ne sanno piú di noi”. Vediamo, dunque.
Innanzi tutto non è necessario ricorrere a me, cioè all’aggettivo determinativo (o possessivo), tutte le volte che il contesto del discorso indica chiaramente il possesso di un oggetto: ho smarrito l’ombrello (è chiaro, infatti, che si intende “il mio”); gli si è rotto il braccio (anche in questo caso è evidente che si intende “il suo”). Ed eccoci, gentili amici, alla cosa che piú mi sta a cuore: quando l’aggettivo possessivo si trova davanti a un nome indicante una relazione di parentela rifiuta o esige l’articolo secondo “regole” ben precise. Vediamole assieme.
Non si deve mettere l’articolo quando l’aggettivo determinativo si trova davanti a nomi di parenti stretti: padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, marito, moglie. Si dirà, perciò, mio padre e non “il mio padre”. Si omette altresí l’articolo, ma non obbligatoriamente, davanti a nomi di parentela non stretta: zio, zia, nipote, cugino, suocero, genero, nuora ecc: tuo zio o il tuo zio; vostro genero o il vostro genero. È tassativamente obbligatorio, invece, mettere l’articolo (anche se la “legge linguistica” non commina la… reclusione) nei seguenti casi: a) davanti a nomi “affettivi” di parenti stretti, vale a dire mamma, papà, babbo, figliolo, figliola: il mio papà; la mia mamma; la sua figliola; b) davanti alle forme alterate di un qualunque nome di parentela e cioè nipotino, mogliettina, fratellino ecc.; c) quando il possessivo si trova dopo il sostantivo: la sorella mia; il padre vostro. Solamente in locuzioni esclamative, questo è importante, si sopprime l’articolo: padre mio! Mamma mia! Amore mio! d) quando qualsiasi nome di parentela è espresso in forma plurale: le vostre cugine; i suoi fratelli; e) quando oltre al possessivo c’è un altro aggettivo: il mio caro nonno.
Da ricordare, inoltre, che anche “proprio” è un aggettivo possessivo e sta a indicare il possesso di una qualsiasi delle tre persone cui si riferisce: può essere unito, infatti, a ‘mio’, ‘tuo’, ‘suo’ ecc. con valore intensivo. È correttamente adoperato, soprattutto, quando l’aggettivo possessivo ‘suo’ potrebbe dare adito ad ambiguità di indicazione; nel qual caso con ’proprio’ si indica il possesso del soggetto stesso: Giovanni fece riparare la sua automobile (nel contesto di un discorso potrebbe anche indicare l’automobile di un’altra persona). Se, invece, diciamo (o scriviamo) Giovanni fece riparare la “propria” automobile evitiamo possibili equivoci in quanto è chiaro che si tratta dell’auto di Giovanni, cioè del soggetto.
Vi ringrazio della vostra cortese attenzione e ringrazio, altresì, il Direttore per la sua squisita disponibilità.
Il vostro amico Possessivo
mi permetta di presentarmi prima di chiederle ospitalità per una lettera aperta agli amanti del bel parlare e del bello scrivere che seguono questo sito. Sono il possessivo, o meglio l’aggettivo determinativo che esprime l’idea del possesso, dell’appartenenza; i miei biografi, cioè i grammatici, amano definirmi «quella parte variabile del discorso che si mette prima (o dopo) di un sostantivo per indicarne l’appartenenza, il possesso». Ho notato che non tutti mi adoperano correttamente, per questo ho pensato a una lettera aperta indirizzata a quanti hanno a cuore il buon uso della lingua italiana e accetteranno, quindi, alcuni miei modesti consigli circa l’ “obbligatorietà” dell’articolo davanti all’aggettivo possessivo. So benissimo che rischierò di rasentare la pedanteria (e di ciò chiedo scusa in anticipo), ma in lingua, alcune volte, è estremamente necessario essere rigorosi per non incorrere in strafalcioni che fanno inorridire “quanti ne sanno piú di noi”. Vediamo, dunque.
Innanzi tutto non è necessario ricorrere a me, cioè all’aggettivo determinativo (o possessivo), tutte le volte che il contesto del discorso indica chiaramente il possesso di un oggetto: ho smarrito l’ombrello (è chiaro, infatti, che si intende “il mio”); gli si è rotto il braccio (anche in questo caso è evidente che si intende “il suo”). Ed eccoci, gentili amici, alla cosa che piú mi sta a cuore: quando l’aggettivo possessivo si trova davanti a un nome indicante una relazione di parentela rifiuta o esige l’articolo secondo “regole” ben precise. Vediamole assieme.
Non si deve mettere l’articolo quando l’aggettivo determinativo si trova davanti a nomi di parenti stretti: padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, marito, moglie. Si dirà, perciò, mio padre e non “il mio padre”. Si omette altresí l’articolo, ma non obbligatoriamente, davanti a nomi di parentela non stretta: zio, zia, nipote, cugino, suocero, genero, nuora ecc: tuo zio o il tuo zio; vostro genero o il vostro genero. È tassativamente obbligatorio, invece, mettere l’articolo (anche se la “legge linguistica” non commina la… reclusione) nei seguenti casi: a) davanti a nomi “affettivi” di parenti stretti, vale a dire mamma, papà, babbo, figliolo, figliola: il mio papà; la mia mamma; la sua figliola; b) davanti alle forme alterate di un qualunque nome di parentela e cioè nipotino, mogliettina, fratellino ecc.; c) quando il possessivo si trova dopo il sostantivo: la sorella mia; il padre vostro. Solamente in locuzioni esclamative, questo è importante, si sopprime l’articolo: padre mio! Mamma mia! Amore mio! d) quando qualsiasi nome di parentela è espresso in forma plurale: le vostre cugine; i suoi fratelli; e) quando oltre al possessivo c’è un altro aggettivo: il mio caro nonno.
Da ricordare, inoltre, che anche “proprio” è un aggettivo possessivo e sta a indicare il possesso di una qualsiasi delle tre persone cui si riferisce: può essere unito, infatti, a ‘mio’, ‘tuo’, ‘suo’ ecc. con valore intensivo. È correttamente adoperato, soprattutto, quando l’aggettivo possessivo ‘suo’ potrebbe dare adito ad ambiguità di indicazione; nel qual caso con ’proprio’ si indica il possesso del soggetto stesso: Giovanni fece riparare la sua automobile (nel contesto di un discorso potrebbe anche indicare l’automobile di un’altra persona). Se, invece, diciamo (o scriviamo) Giovanni fece riparare la “propria” automobile evitiamo possibili equivoci in quanto è chiaro che si tratta dell’auto di Giovanni, cioè del soggetto.
Vi ringrazio della vostra cortese attenzione e ringrazio, altresì, il Direttore per la sua squisita disponibilità.
Il vostro amico Possessivo
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Per la serie "la lingua biforcuta..."
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Forse qualche linguista
"d'assalto" ci smentirà, ma il titolo in questione contiene - a
nostro avviso - uno strafalcione imperdonabile: da infermiere. Siamo in presenza di un normale complemento di
specificazione la preposizione "da" è, quindi, errata e va sostituita
con la sorella "di": di
infermiere. Si specifica, infatti, di quale posto si tratta.
In proposito riproponiamo un
nostro vecchio intervento sul corretto uso della preposizione "da". L'articolo si trova anche nel libro "Un
tesoro di lingua", a pagina 43.
Alcuni così detti scrittori di
vaglia – non sappiamo se per puro “snobismo linguistico” o per scarsa
conoscenza delle norme che regolano la nostra madre lingua – adoperano la
preposizione ‘da’ in modo improprio, per non dire errato, confondendo le idee
linguistiche ai giovani studenti che, attratti dal “nome” dello scrittore,
prendono per oro colato tutto ciò che la grande stampa “propina” loro. Sarà
bene vedere, quindi, sia pure per sommi capi, l’uso corretto della predetta
preposizione affinché gli studenti non incorrano nelle ire dei loro
insegnanti. La preposizione “da”, dunque, è
usata correttamente quando indica l’attitudine, l’idoneità, la destinazione:
pianta ‘da’ frutto; camicia ‘da’ uomo; sala ‘da’ tè; veste ‘da’ camera e
simili. Alcuni scrittori, dicevamo, la adoperano in modo improprio, in luogo
della preposizione “di”, quando si parla di una qualità specifica di una cosa e
non di una destinazione, sia pure occasionale. In questi casi si deve usare
esclusivamente la preposizione “di”, l’unica autorizzata “per legge
grammaticale”. Si dirà, per tanto, festa ‘di’ ballo (non da ballo); biglietto
‘di’ visita (non da visita, anche se ormai l’uso errato prevale su quello
corretto); uomo ‘di’ spettacolo; Messa ‘di’ Requiem. Durante le celebrazioni
per il centenario della morte di Giuseppe Verdi, nel 2001, un grande giornale
d’informazione titolò: “Grande successo per la ‘Messa da Requiem’”. Il giornale
e il suo redattore titolista non presero a calci solo la lingua italiana,
offesero soprattutto la memoria del grande musicista che ha composto, per
l’appunto, la “Messa di Requiem”. Ancora. Leggiamo sempre, su tutti i giornali,
frasi del tipo: “Il giocatore Sempronio ha ripreso il suo posto da titolare”.
Nelle espressioni citate quel “da” è uno “snobismo linguistico” o un …
“ignorantismo”? Decidete voi, gentili amici. Ma andiamo avanti. La preposizione
“da” non può usurpare le funzioni della consorella “per” quando nella frase c’è
un verbo di modo infinito atto a indicare l’uso, la destinazione della cosa di
cui la stessa cosa è agente. Diremo, quindi, macchina “per” scrivere, non “da” scrivere
(altrimenti sembra che la macchina debba “essere scritta”); matita “per”
disegnare, non “da” disegnare e simili. La preposizione “da”, insomma, posta
davanti a un verbo di modo infinito rende quest’ultimo di forma passiva. È
adoperata correttamente, quindi, se seguita da un infinito nelle espressioni
tipo “casa ‘da’ vendere” (che deve essere venduta); “grano ‘da’ macinare” (che
deve essere macinato) e via discorrendo. Un’ultima annotazione: la preposizione
‘da’ non si apostrofa mai (per non confondersi con la sorella ‘di’) tranne in
alcune locuzioni avverbiali: d’altronde; d’altro canto e simili.
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