Moltissime persone
adoperano i due verbi indifferentemente, come se fossero sinonimi. No, non è
affatto cosí: ce lo dice la loro origine, vale a dire l’etimologia. Il primo
significa, in senso lato – come recitano i vocabolari – “esporre alla vista
qualcosa togliendo una copertura”; il secondo “realizzare quanto suggerito
dall’immaginazione o dalla riflessione”. Insomma: si scopre
qualcosa che c’è ma è “nascosto” e si inventa qualcosa
che non c’è. Esempi: una stella si “scopre” (c’era ma non si vedeva); un
macchinario si “inventa” (non c’era)
*
"Non me ne voglia..."
“Non me ne voglia,
la prego”. Chissà quante volte abbiamo pronunciato questa frase o una simile
senza renderci conto che cozzava contro il buon uso della lingua italiana. Perché?
Perché è un francesismo bell’ e buono e in buona lingua è, appunto, da evitare.
I francesi adoperano il verbo volere in senso assoluto (“volerne” a qualcuno);
in italiano, in frasi del genere, si usano verbi “piú appropriati”:
‘prendere’('prendersela'), ‘essere in collera’ e simili. Diremo dunque,
correttamente, “non sia in collera con me, la prego”; oppure "non se la
prenda ", “non ce l’abbia con me, la prego”.
*Per la serie "la lingua biforcuta..."
Da un quotidiano in rete:
ALTRI CAPOLUOGO AL VOTO
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Forse è il caso di "ricordare" ai redattori
titolisti che il sostantivo "capoluogo" non è invariabile, si
pluralizza normalmente: capoluoghi o capiluoghi. Personalmente preferiamo la
prima forma in quanto "capo", quando sta per "principale",
come in questo caso, resta invariato e prende la desinenza del plurale solo il
secondo elemento. Quindi il capoluogo ("luogo principale"), i capoluoghi.
È il caso di aggiungere, alla regola ricordata dalla dott.ssa Vaglio, che la "i" delle parole in "-cia" e "-gia" si conserva nel plurale anche quando la "i" è tonica (quando, cioè, nella pronuncia vi cade l'accento): farmacia>farmacie; strategia>strategie; allergia>allergie.
***
A proposito di
"traccie", strafalcione ortografico comparso sul sito del MIUR,
Mariangela Galatea Vaglio, nella sua
rubrica di lingua sul settimanale in rete
L'Espresso, scrive:
«[...] In effetti però i plurali in -cie e -gie sono
particolarmente rognosi da ricordare. In alcune parole italiane, che
hanno una i dopo la c, come cielo e
cieco, la i si mantiene anche se in realtà non viene più pronunciata da secoli.
Per altre che terminano in ci e gi la i rimane solo al singolare ma al plurale
scompare.
La regola prevede che la i rimanga quando la ci e la gi sono precedute da una vocale, come in ciliegia>ciliegie e camicia>camicie. Il camice, senza la i, non è un plurale, ma un singolare, ed indica il grembiule bianco indossato da medici e farmacisti. Quando ci e gi sono precedute da una consonante, come appunto in traccia, freccia, bertuccia, arancia, treccia, torcia e spiaggia, al plurale la i sparisce [...]».
----------------La regola prevede che la i rimanga quando la ci e la gi sono precedute da una vocale, come in ciliegia>ciliegie e camicia>camicie. Il camice, senza la i, non è un plurale, ma un singolare, ed indica il grembiule bianco indossato da medici e farmacisti. Quando ci e gi sono precedute da una consonante, come appunto in traccia, freccia, bertuccia, arancia, treccia, torcia e spiaggia, al plurale la i sparisce [...]».
È il caso di aggiungere, alla regola ricordata dalla dott.ssa Vaglio, che la "i" delle parole in "-cia" e "-gia" si conserva nel plurale anche quando la "i" è tonica (quando, cioè, nella pronuncia vi cade l'accento): farmacia>farmacie; strategia>strategie; allergia>allergie.
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