Il tema
del Congiuntivo
– sollecitato dal sig. Teodoro (commenti) – è un tema tanto dibattuto quanto
delicato sia sul piano teorico che su quello normativo. Il problema teorico
riguarda essenzialmente se il congiuntivo nelle frasi dipendenti veicoli il
valore semantico del dubbio/incertezza, voluto dalla grammatica scolastica
tradizionale, oppure se sia un modo a-semantico, più elegante e formale del
possibile indicativo, secondo la teoria moderna più accorta. Rinvio in
proposito, per chi abbia curiosità, al mio Dove va il congiuntivo? (Utet 2013). Per un “assaggio” sulla
problematica, con varie argomentazioni, ripropongo invece uno degli interventi
sul tema già apparso nel mio Il linguaggio di Papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana 2016, pp. 237-39), intitolato Lunga vita al congiuntivo ma
difendiamolo bene.
S.C.Sgroi
***
di Salvatore Claudio Sgroi *
Che il congiuntivo sia
“minacciato” (dall’indicativo) o stia per scomparire e che vada quindi “difeso”
a spada tratta è un topos costante nelle discussioni linguistiche tra gli
amatori e “difensori della patria lingua” (ma anche presso alcuni linguisti).
La minaccia è tanto più grave in quanto – si sottolinea – la (invero presunta)
scomparsa del congiuntivo implicherebbe un grave depauperamento della lingua (e
quindi dei parlanti), che non sarebbero più in grado di esprimere ciò che tale
modo consente (o: consentirebbe?) di esprimere rispetto all’indicativo. Forte
dell’ipotesi teorica tradizionale, ripresa dalla Grammatica italiana di
S. Battaglia - V. Pernicone (1951), un brillante giornalista come Beppe
Severgnini ha così potuto di recente sostenere (in L’italiano. Lezioni
semiserie, Milano, Rizzoli 2007) che “la crisi del congiuntivo [...] ha
un’origine chiara: pochi oggi pensano, credono e ritengono; tutti sanno e
affermano. L’assenza di dubbio è una caratteristica della nuova società
italiana” (p. 150).
Ora, diciamo subito che il congiuntivo non corre affatto alcun
pericolo (di morte o di vita) e che semplicemente co-esiste con l’indicativo.
Ovvero ciascun modo ha degli spazi sintattici che, in maniera del tutto
normale, naturale, quasi meccanica per parlanti mediamente acculturati, in
determinati contesti non sono occupati dall’altro modo. In altri contesti
sintattici (per esempio nelle frasi dipendenti soggettive, oggettive,
interrogative indirette, ecc.), invece, gli stessi parlanti acculturati
alternano (liberamente) i due modi. A questo punto, la questione da dirimere è
duplice.
Primo: l’alternanza congiuntivo/indicativo
in tali contesti è “legittima”, è “corretta”? La mia risposta è la seguente:
dal momento che l’alternanza è operata da parlanti mediamente colti (e non già
esclusivamente dagli incolti o dalle famigerate “classi subalterne”), non prestandosi
tra l’altro ad alcuna ambiguità comunicativa, allora l’indicativo al posto del
congiuntivo è semplicemente “corretto”, “legittimo”, ecc. Di usi illustri,
parlati e scritti, con l’indicativo pro congiuntivo nell’italiano
contemporaneo (e dei secoli scorsi – a partire da padre Dante) ognuno ha solo
l’imbarazzo della scelta nell’esemplificarli.
Secondo, ma la scelta indicativo/congiuntivo non è priva di
conseguenze semantiche, come sottolineano le grammatiche (moltissime, non
tutte!)? Ovvero l’indicativo non sarebbe il modo della realtà, versus il
congiuntivo modo della incertezza, della possibilità, ecc.? L’errore di molte
grammatiche è invero – a mio parere – quello di attribuire al congiuntivo la
valenza della soggettività/possibilità/incertezza, che invece va riferita al
verbo principale che regge la frase dipendente al congiuntivo. Così nella frase
(corrente nelle grammatiche di primo Novecento) “Piera crede che Dio esistA”
(al cong.) il punto di vista soggettivo del parlante è espresso dalla semantica
del verbo reggente (“crede”), indipendentemente dalla realtà
dell’esistenza o meno di Dio; il congiuntivo sottolinea qui semplicemente che
la frase “che Dio esistA” è una frase dipendente, secondaria (rispetto
alla principale e più importante: “Piera crede”). Se quest’analisi
teorica (già settecentesca) è corretta, ne consegue che la stessa frase non
muta affatto di significato se è all’indicativo: “Piera crede che Dio esistE”.
Si tratta sempre di una credenza (soggettiva) di "Piera". E tuttavia
una differenza esiste tra le due frasi, come può percepire qualunque parlante
acculturato. La frase al congiuntivo è certamente più ‘bella’, più ‘raffinata’,
più ‘elegante’, più ‘ricercata’, più ‘in’, ecc. dell’altra all’indicativo. Ed è
questa la sola differenza d’uso dei due modi. Una differenza (si dice
tecnicamente) “di registro”. Ovvero il congiuntivo è un semplice “modo” (e non
“una modalità” semantica).
La differenza puramente
“stilistica” tra i due modi spiega probabilmente la difficoltà che hanno i
bambini nell’adoperare il congiuntivo. Se l’opposizione indicativo/congiuntivo
fosse di ordine realmente semantico, i bambini probabilmente acquisirebbero
senza grandi difficoltà tale possibilità comunicativa.
Solo “il buon esempio”, di parlanti e di adeguate letture può
quindi attivare nei bambini l’uso raffinato del congiuntivo. Non certamente le
‘ingiunzioni’ e le prescrizioni, inutili se non dannose, come a suo tempo
ricordava il grande psicolinguista L.S. Vygotskij (1926). Su possibili (apparenti)
contro-esempi alla spiegazione teorica qui avanzata, mi riservo di intervenire,
se altri lo riterranno opportuno. Non sarà neanche un caso che, riguardo alle
interrogative indirette e/o dubitative, l’indicativo alterni col congiuntivo –
es. non so perché è/sia venuto, non so se è/sia venuto – senza
che nessuno gridi allo scandalo o ricorra a supposte differenze semantiche.
Francesco Sabatini, in una
intervista riportata e sottovalutata da B. Severgnini (p. 150), sottolineava a
proposito delle dipendenti oggettive/soggettive l’«uso parlato» e la
«semplificazione morfosintattica». La lamentela sulla (presunta) scomparsa del
congiuntivo è diffusa anche in altre lingue. E va ricordato che un grande
linguista francese (Antoine Meillet) all’inizio del secolo scorso aveva
avanzato una valida spiegazione sull’alternanza cong./indic. nelle lingue
indoeuropee, legata alla scarsa consistenza fonologica delle desinenze dei due
modi.
* Docente di linguistica
generale presso l'Università di Catania
Autore tra l'altro di
--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);
-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);
-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)
1 commento:
Ringrazio il prof. Sgroi per aver esaudito la mia richiesta. Sinceramente non credevo che l'avrebbe presa in considerazione. E ringrazio anche lei, dott. Raso, per averci dato l'opportunità di seguire i dotti articoli del Professore.
Cordialmente
Teodoro
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