domenica 7 luglio 2019

"Fa", avverbio di tempo? Non bestemmiamo!

Se saremo tacciati di presunzione dai grandi linguisti - qualora si imbattessero in questo sito - la cosa ci lascerà nella "piú squallida indifferenza" e andremo sempre avanti per la nostra strada. Tutti i cosí detti sacri testi (grammatiche e vocabolari) che abbiamo consultato definiscono il lemma "fa" anche un avverbio di tempo. 
    No, amici, questo "fa" non è un avverbio ma una locuzione avverbiale di tempo perché adoperato assoluto (da solo) è una parola vuota, non ha alcun senso, come lo hanno, invece gli avverbi di tempo "ieri", "oggi", "domani", "sempre", "mai" ecc. Una riprova? Posso dire correttamente, e ha un senso: domani andrò a trovare il mio vecchio compagno d'armi; ieri sono stato al cinema assieme a mia moglie; siamo sempre stati contrari a quell'unione. Provate a sostituire domani con fa; ieri con fa e sempre con fa e vedrete che le frasi in oggetto non hanno alcun senso. Fa, da solo, quindi, non avendo un senso non può essere un avverbio.   
   Questo fa, dunque, è la terza persona singolare del presente indicativo del verbo fare che, preceduto necessariamente da un altro elemento, forma, appunto, una locuzione avverbiale con il significato di "passato", "avvenuto", "compiuto": due giorni fa (ora si compiono due giorni) ho rivisto un vecchio amico. Non si accenta mai trovandosi sempre in posizione tonica.

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Parole, parole, parole

Da questo portale spendiamo, ogni giorno (o quasi), fiumi e fiumi di parole (scritte, ovviamente) ma non abbiamo mai speso una parola (ci sembra, nel caso ci scusiamo per la ripetizione) per parlare della.... parola. Vogliamo rimediare e vedere, quindi, che cosa è questa parola. Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana possiamo leggere: “Gruppo di suoni con cui si indica un oggetto o si esprime un’idea; la loro rappresentazione grafica”. Non siamo soddisfatti però, perché ancora non conosciamo il significato  “intrinseco” del termine e la sua origine. 
      Questa volta il latino classico non ci viene in aiuto – come nella maggior parte dei casi – perché nella lingua di Cicerone la parola era chiamata  “verbum” (il verbo, infatti, è la parola per eccellenza). Dobbiamo rifarci al tardo latino – quello della Chiesa – dove incontriamo la  “parabola”, divenuta in seguito “paravola”, connessa con i termini greci  “para-bàlo” (‘getto presso’)’, quindi  “paragono”, vale a dire faccio una comparazione. La parabola si può definire, infatti, un  “paragone, un racconto allegorico a sfondo morale”. Basti pensare alle parabole evangeliche. In origine, per tanto, la parabola era un insegnamento, un discorso morale. 
   Con il trascorrere del tempo, per attenuazione del significato originario acquisí  l’accezione di  “detto”, “motto” e, per estensione, qualsiasi voce articolata (fonema) esprimente un concetto, una... parola, appunto, e si sostituí  al latino  “verbum” che si volle evitare per il significato sacro, attribuitogli  nel Vangelo, di  “Messia”, vale a dire la  “parola fatta carne”. Lo stesso verbo  “parlare” non è altro che il latino  “parabolare” (raccontare parabole). 
   E sempre a proposito di parole, ci sono quelle  “piene” e quelle  “vuote”. Quante volte vi sarà capitato di sentir dire: “Quell’oratore ha tenuto un discorso di parole vuote”; ha parlato ma non ha detto nulla. Che cosa sono, dunque, le parole “vuote”? Sono parole prive di... significato, al contrario di quelle “piene”, ovviamente piene di... significato. Vediamo ora, per sommi capi, i due gruppi di parole.
    Appartengono alla schiera delle parole “piene”: a) i verbi (lavorare); b) gli aggettivi (bello, questo); c) gli avverbi (sempre, domani); d) i numerali (ottavo, dodicesimo); e) i nomi in generale (amico, fratello, barbiere). 
   Fanno parte delle parole  “vuote”, invece, quelle che servono a sostituire o a collegare tra loro le parole  “piene” di una proposizione, e precisamente: 1) i pronomi (io, che, quale); 2) le interiezioni (oh, mah, ohi); 3) le preposizioni (da, con, su); 4) le congiunzioni (e, se, ma); 5) gli articoli (il, la, un).
  E concludiamo l’argomento con un pensiero di Francesco De Sanctis: “La parola è potentissima quando viene dall’anima e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma, quando il dentro è vuoto e la parola non esprime che sé stessa, riesce insipida e noiosa”.

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La lingua "biforcuta" della stampa

«Se ti tuffi in moto ti dò 2 mila euro». E Balotelli perde la scommessa
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In buona lingua italiana non si segna l'accento sulla prima persona singolare del presente indicativo del verbo dare in quanto l'omografia con la nota musicale non può generare confusione.

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Perseguita la ex e viola il divieto del giudice, scattano  agli arresti domiciliari
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"Scattano agli arresti"? Ma che idioma è?

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Tenta un spaccata e si ferisce  trovato in un lago di sangue,  viene arrestato dai carabinieri
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Refuso o ignoranza?

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Famiglia aggredisce e picchia carabiniere donna alla festa del paese
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Perché non, correttamente, carabiniera?

Nota d'uso ("Sapere.it" - De Agostini)
Il femminile regolare di carabiniere è carabiniera, e così si può chiamare una donna che appartenga all’Arma dei Carabinieri. Alcuni preferiscono però chiamare anche una donna carabiniere, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.




 

 





 

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