Nella lingua italiana esistono coppie di verbi che, a un primo sguardo, sembrano sovrapponibili, ma che in realtà custodiscono sfumature di significato ben distinte. È il caso di percepire e recepire, due sintagmi che spesso vengono confusi, ma che appartengono a campi semantici differenti e non possono essere usati come sinonimi senza rischiare di alterare il senso di ciò che si vuole esprimere. Comprendere questa distinzione non è un esercizio di pedanteria, bensì un modo per rispettare la precisione e la ricchezza della nostra lingua.
Percepire, dal latino percipere, è un verbo che si lega direttamente ai sensi e all’intuizione. Significa avvertire una realtà esterna attraverso stimoli sensoriali: si percepisce un rumore, un odore, una luce. Ma non si limita al piano fisico: può indicare anche una comprensione sottile, quasi intuitiva, di una sensazione o di un atteggiamento, come percepire un’ostilità o una sfumatura nel discorso. Inoltre, in un ambito più concreto, percepire significa anche ricevere denaro, come nel caso dello stipendio o di un vitalizio. È dunque un verbo che oscilla tra il mondo dei sensi, quello dell’interiorità e quello della materialità economica.
Recepire, dal latino recipere, si colloca, invece, in un ambito diverso: quello dell’accoglienza, dell’assimilazione e dell’adozione. Si recepisce una norma, una direttiva, un’idea. In ambito giuridico, il verbo indica l’atto di far proprio un contenuto proveniente da un’altra autorità, come quando il parlamento recepisce una direttiva europea. Ma recepire può anche significare comprendere e assimilare un messaggio, cioè afferrarne il senso e interiorizzarlo. È un verbo che richiama dunque un movimento di accoglienza e di integrazione, più che di percezione sensoriale.
Il punto di lieve sovrapposizione tra i due verbi si trova nell’area della comprensione di un messaggio. Si può percepire un’intenzione, cogliendone la sottigliezza o l’impressione che suscita, e si può recepire un contenuto, facendolo proprio e accettandolo. Ma la differenza resta netta: percepire è legato all’impressione e alla sensibilità, recepire all’adozione e all’assimilazione. Non si può dunque usare l’uno al posto dell’altro: si percepisce un profumo, ma si recepisce una legge.
Per rendere più chiara questa distinzione, immaginiamo una scena di comunicazione quotidiana. Durante una riunione, un collega espone un progetto con voce esitante. Gli altri partecipanti percepiscono la sua insicurezza, colgono cioè attraverso tono e gestualità un’impressione sottile che non è esplicitata nelle parole. Al tempo stesso, recepiscono il contenuto della proposta, lo assimilano e lo fanno proprio per discuterne e valutarne la fattibilità. In questo breve episodio si vede come i due verbi possano convivere nello stesso contesto, ma restando fedeli ciascuno al proprio ambito: la percezione riguarda l’impressione sensibile, la recezione riguarda l’accoglienza del contenuto.
Si percepisce ciò che colpisce i sensi, si recepisce ciò che convince la mente.
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"Meretrofilo", l’alternativa dotta a un volgare inaccettabile
Il lessico italiano, pur ricchissimo di sfumature e registri, mostra talvolta delle lacune che diventano imbarazzanti quando si tratta di definire con precisione fenomeni sociali diffusi. È il caso dell’uomo che abitualmente frequenta le prostitute: nel parlato comune si ricorre al termine irricevibile di puttaniere, parola che appartiene a un registro basso e volgare, inadatta a contesti giornalistici, saggistici o a dibattiti di livello. In assenza di un sintagma appropriato, si ricorre in locuzioni descrittive e ridondanti come cliente delle prostitute o frequentatore di meretrici, locuzioni che appesantiscono il discorso e non restituiscono la necessaria chiarezza.
Per colmare questo vuoto lessicale chi scrive propone l’introduzione del neologismo meretrofilo (sostantivo maschile), costruito secondo regole di formazione dotta e con trasparenza semantica immediata. Nasce dall’unione di meretricio (dal latino meretrix, ‘prostituta’) e del suffisso greco -filo (phílos, ‘amante di’), e designa in maniera esatta e non dispregiativa “colui che ha una predilezione per il meretricio e per chi lo esercita”. A differenza di formazioni ambigue o di volgarismi, meretrofilo si colloca nel solco di termini dotti come bibliofilo o pedofilo, garantendo precisione e neutralità.
L’adozione di meretrofilo consentirebbe di elevare il dibattito, offrendo uno strumento linguistico chiaro, rispettoso e di registro alto. Un termine che permette di nominare senza offendere, di descrivere senza scadere nel triviale, e di restituire alla lingua italiana l’attenzione che merita.
meretròfilo s. m. (f. -a)
[comp. di meretrice e -filo]
Chi mostra abituale inclinazione o predilezione per le prostitute; sinon. colto di puttaniere.
In senso estens., chi manifesta attrazione o simpatia verso l’ambiente della prostituzione.
◆ Uso: neologismo di formazione dotta, con tono letterario; meno trasparente nel registro colloquiale, dove prevale puttaniere (volg.). Può ricorrere in contesti giornalistici, satirici o linguistici.

1 commento:
Esiste già una parola meno volgare di puttaniere e molto usata online, anche se non ancora omologata dai vocabolari.
Ladies and gentlemen, vi presento il "punter".
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