Nella nostra melodiosa lingua non tutte le parole si accontentano di un solo plurale. Alcune, come calcagno, si sdoppiano, biforcandosi in due forme che convivono da secoli, ciascuna con una propria funzione, un proprio tono, una propria traiettoria. I calcagni e le calcagna sono due pluralità distinte, nate dallo stesso singolare ma cresciute in ambienti diversi. Una è tecnica, medica, descrittiva. L’altra è idiomatica, proverbiale, popolare. Eppure entrambe affondano le radici nello stesso punto del corpo e nello stesso punto della lingua.
Il lessema calcagno deriva dal latino calcanĕum, che indica l’osso del tallone, l’estremità posteriore del piede. In italiano, il singolare è maschile: il calcagno. Ma al plurale, la lingua ha prodotto due esiti: calcagni, regolare e maschile, e calcagna, forma femminile arcaica, oggi sopravvissuta quasi esclusivamente nelle locuzioni.
La forma calcagni è quella che si usa quando si parla propriamente dell’anatomia: “I calcagni sono soggetti a fascite plantare”, “Ha riportato una frattura ai calcagni”. È il plurale tecnico, quello che si trova nei referti medici, nei manuali di anatomia, nei testi descrittivi. È anche la forma che conserva il genere maschile del singolare, senza deviazioni né slittamenti semantici.
Calcagna, invece, è un plurale femminile che non ha un singolare corrispondente (la calcagna suona oggi desueto o forzato). È una forma lessicalizzata, sopravvissuta grazie alla forza delle espressioni idiomatiche. Si dice “avere qualcuno alle calcagna” per indicare un inseguitore incalzante, “stargli alle calcagna” per tallonarlo, “le calcagna in fiamme” per una fuga precipitosa. In questi casi, calcagna non è un termine anatomico, ma un’immagine linguistica: richiama il retro dei piedi, la pressione, la vicinanza, il pericolo.
La differenza non è solo grammaticale, ma funzionale. Calcagni è parola da referto; calcagna è parola da proverbio. La prima descrive; la seconda evoca. La prima è neutra; la seconda è espressiva. E sebbene entrambe derivino da calcanĕum, la loro evoluzione ha seguito binari divergenti: uno medico, l’altro metaforico.
Curiosamente, calcagna ha finito con l’imporsi anche in contesti dove il riferimento è anatomico ma il registro è colloquiale. Si sente dire “mi fanno male le calcagna” , forma tecnicamente impropria, ma diffusissima nel parlato. È un esempio di come l’uso idiomatico possa contaminare quello descrittivo, e di come la lingua non segua sempre le regole, ma spesso le pieghi alla consuetudine.
In conclusione, calcagni e calcagna non sono termini intercambiabili, ma complementari. Il primo è il plurale corretto di calcagno; il secondo è una reliquia viva, sopravvissuta nei modi di dire. Ambi i lessemi raccontano una storia: quella di una parola che ha saputo moltiplicarsi, adattarsi, biforcarsi e che oggi cammina su due piedi, o meglio, su due talloni.
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Come è “nato” il nipote
Ci sembra interessante spendere due parole sulla “nascita linguistica” di nipote, i.e. il figlio del figlio o della figlia, oppure figlio della sorella o del fratello. Secondo alcuni studiosi di etimologia ha “tre nascite” diverse: dal latino nepos (natus post), vale a dire “nato dopo”; dal sanscrito nava putra (“nuovo figlio”); infine, sempre dal sanscrito, nabhi (“ombelico”), con il probabile significato di “affine”, “parente”, “discendente”. Vediamo anche ciò che dice Ottorino Pianigiani, sebbene molti linguisti non lo ritengano fededegno:

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La lingua “biforcuta” della stampa
Autobotte dei vigili del fuoco si scontra con un'auto mentre va a spegnere un'incendio: un morto
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Non si dica che è un refuso. Per l’apostrofo ("un'incendio") il titolista ha dovuto pigiare (consapevolmente) un tasto in più.
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Sinistra antagonista mai sfrattata a Casal Palocco, lo Stato condannato pagare tre milioni
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Qui, invece, il titolista (consapevolmente?) ha tralasciato di digitare un tasto in più.
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A Torino l’alcol dilaga tra i giovanissimi: sessanta ricoverati a Halloween
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Lo confessiamo pubblicamente: non sapevamo che Halloween fosse un ospedale (o un reparto ospedaliero).

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