Con il trascorrere del tempo, il termine ha viaggiato, si è trasformato, ha trovato nuova linfa nel cuore della rivoluzione industriale. Nell’Ottocento, quando le città si riempivano di fumo e di macchine, “proletario” diventa sinonimo di chi non possiede altro che le proprie braccia. È in questo contesto che Marx ed Engels lo elevano a simbolo di una classe destinata a cambiare il mondo: il proletariato, contrapposto alla borghesia, chiamato a unirsi e a ribaltare i rapporti di potere.
Ma “proletario” non è rimasto solo nei manifesti politici. È entrato nel linguaggio quotidiano, a volte con orgoglio, altre con ironia. Si parla di “quartieri proletari” per designare le periferie popolari, di “gusti proletari” per indicare scelte semplici e senza fronzoli, persino di “stile proletario” per descrivere colui che, pur potendo permettersi di più, sceglie la sobrietà. È un sintagma che porta con sé un immaginario fatto di fatica, dignità e appartenenza collettiva.
Così, dalla Roma antica alle metropoli moderne, “proletario” ha continuato a raccontare la storia di chi non possiede molto, ma ha sempre avuto un ruolo decisivo nel plasmare la società. Una parola che, più che definire, narra: racconta di lavoro, di lotte, di speranze, e di quella forza silenziosa che nasce proprio da chi sembra avere meno.
Oggi, quando pronunciamo il lemma proletario, non evochiamo soltanto una condizione economica, ma un’eredità di dignità, di resistenza e di speranza. È la voce di chi, pur avendo poco, ha sempre contribuito a costruire molto: città, fabbriche, culture, comunità. Forse è proprio questo il segreto della sua forza: ricordarci che la storia non appartiene solo ai potenti, ma anche – e forse soprattutto - a chi l’ha scritta giorno dopo giorno con il proprio lavoro. E allora, ogni volta che ci imbattiamo in questa parola, possiamo leggerla come un invito a non dimenticare che dietro i grandi eventi ci sono sempre le vite semplici, quelle che, silenziosamente, hanno fatto girare il mondo.
Mensa e refettorio, che differenza v’è?
Due parole che sembrano gemelle ma raccontano storie diverse: dalla tavola dei monaci al servizio al banco, un viaggio tra etimologia e quotidianità.
Mangiare insieme non è mai stato soltanto un atto di nutrizione: è un rito sociale, un momento di comunità che si riflette anche nei termini che adoperiamo per indicare i luoghi del pasto. Due lessemi che spesso vengono confusi, ma che hanno sfumature diverse, sono mensa e refettorio.
La mensa deriva dal latino mensa, che significava originariamente “tavola”. Nel tempo ha acquisito il senso più ampio di luogo e servizio destinato alla ristorazione collettiva. Oggi la usiamo per indicare la mensa aziendale, scolastica, universitaria o ospedaliera, cioè non solo lo spazio fisico ma anche l’organizzazione che fornisce i pasti. È un termine moderno, legato a contesti laici e pratici, che richiama l’idea di un servizio accessibile e funzionale.
Refettorio, invece, ha un’origine diversa: viene dal latino reficere, “ristorare, rifocillare”. Nella tradizione monastica era la sala in cui i religiosi consumavano i pasti in silenzio, spesso accompagnati dalla lettura di testi sacri. Ancora oggi il sintagma conserva questa aura storica e spirituale, e viene usato per indicare il locale destinato al pasto in scuole, conventi o comunità. A differenza di mensa, non designa il servizio di ristorazione, ma lo spazio fisico in cui ci si riunisce per mangiare.
I due vocaboli sebbene nel linguaggio comune possano sembrare intercambiabili, mensa e refettorio non lo sono del tutto: la prima evoca un servizio organizzato e moderno, il secondo un ambiente comunitario e spesso connotato da tradizione o religiosità. Due parole che raccontano, ciascuna a modo suo, il valore del pasto condiviso.
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La lingua “biforcuta” della stampa
Sedicenne ucciso per sbaglio vicino Messina, l’omicidio confessa e tenta di scagionare il padre e il fratello
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