Nel vasto regno delle parole, ogni termine custodiva un significato preciso, come un gioiello raro che non poteva essere confuso con un altro. Ma, tra i sudditi che vivevano ai margini dei sentieri del Bosco Linguistico, c’erano due cavalieri che da sempre gettavano scompiglio: Sir Inerme e Sir Inerte. Somigliavano nell’aspetto, entrambi figli del prefisso “In-”, eppure erano diversi come il giorno e la notte. Per porre fine a ogni equivoco, la Fata Scienza indisse il Grande Torneo della Definizione, sotto gli sguardi attenti del Saggio Re Vocabolario e della Regina Grammatica.
Il primo a farsi avanti fu Sir Inerme. Forte e vigile, con lo sguardo acceso e i muscoli pronti, ma privo di spada e scudo. Quando il Re gli chiese quale fosse il suo stato, egli rispose con fermezza: «Sono inerme. Ho vita, volontà e forza, ma non ho armi per difendermi». E davvero, quando il minaccioso Cavaliere Caduto lo affrontò, il cuore di Sir Inerme batteva forte, i suoi nervi erano tesi, ma non poté reagire: era vivo, ma vulnerabile. Così come un cerbiatto inerme davanti al lupo, un uomo inerme davanti a un aggressore, o persino un viaggiatore inerme davanti a una tempesta improvvisa.
Poi giunse Sir Inerte, trascinato da un plotone perché incapace di muoversi da solo. Pesante come una roccia, immobile come una statua, rispose con voce spenta: «Sono inerte. Non solo non ho armi, ma non ho neppure la forza di agire o reagire. Sono come un sasso, privo di vita e di energia». E quando il Cavaliere Caduto lo urtò, egli rimase immobile, senza paura, senza battito, senza volontà. Così come una roccia inerte sul sentiero, un gas inerte che non reagisce, o una mente inerte che non trova stimoli. Persino un vecchio orologio rotto, fermo da anni, poteva essere chiamato inerte.
La Regina Grammatica allora si alzò e proclamò: «Popolo del Bosco Linguistico, ricordate bene! Sir Inerme è vivo ma senza difese; Sir Inerte è immobile, privo di azione e spesso di vita. Un soldato disarmato è inerme. Un mattone sul pavimento è inerte. Non confondeteli più: Inerme riguarda la difesa, Inerte riguarda l’azione».
*
Inerme è il bimbo senza spada, che corre e vive ma non si difende a bada.
È il cerbiatto davanti al lupo affamato, è l’uomo disarmato e spaventato.
Inerte è la pietra che resta a terra, non sente, non parla, non muove la guerra.
È il mattone fermo, il gas che non reagisce, è la cosa che tace e mai si capisce.
Ricorda, amico, la regola è questa: inerme ha la vita, ma difesa non resta.
Inerte non vive, non agisce, non fa, è fermo e passivo, e lì resterà.
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I reni e le reni, che differenza v'è?
Dopo i calcagni e le calcagna, vediamo un altro termine con due plurali: i reni e le reni. Entrambi sono corretti, ma non sono intercambiabili, perché corrispondono a due accezioni diverse che la lingua ha conservato nel tempo. “I reni” è il plurale maschile di uso anatomico e medico: indica gli organi pari dell’apparato urinario responsabili della filtrazione del sangue, della regolazione dei liquidi, degli elettroliti e dell’eliminazione delle scorie. In questa accezione si troverà quasi sempre il maschile: esami ai reni, insufficienza renale, trapianto di reni. “Le reni”, invece, è un plurale femminile oggi impiegato quasi esclusivamente in senso figurato o topografico, per indicare la regione lombare della schiena, i lombi, la “cintura” muscolare che sostiene il tronco. Da qui derivano molti usi vivi nel parlato: prendere un colpo alle reni, farsi raddrizzare le reni, sentire dolore alle reni dopo uno sforzo.
Questa doppia forma risale al latino renes, plurale indeclinabile che in italiano ha prodotto un sostantivo con oscillazione di genere. Storicamente, il femminile si è fissato nella dimensione fisica e popolare della schiena, mentre il maschile si è specializzato nella nomenclatura scientifica dell’organo. L’italiano, insomma, ha separato due campi semantici: quando parliamo del funzionamento dell’organismo usiamo “i reni”; quando parliamo della parte bassa della schiena e delle sensazioni che vi si avvertono ricorriamo a “le reni”. Questa distinzione è confermata dai dizionari normativi e dai corpora: la medicina, la biologia e la nefrologia adottano sistematicamente il maschile; la letteratura, i proverbi e la cronaca di costume conservano il femminile.

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