Ci sono parole nella nostra lingua che, pur condividendo una radice comune, hanno preso strade diverse, come fratelli che crescono sotto lo stesso tetto ma sviluppano personalità distinte. “Temperamento” e “temperatura” appartengono a questa famiglia: entrambi i termini discendono dal latino temperare, verbo che significa “mescolare con misura”, “moderare”, “armonizzare”. Eppure, nel loro cammino, hanno acquisito accezioni e usi che si collocano in ambiti differenti: uno legato alla sfera umana e psicologica, l’altro al mondo fisico e naturale. Analizzare i due lessemi assieme permette di cogliere la sottile trama che unisce linguaggio, cultura e percezione del reale.
Il temperamento, nella sua accezione più diffusa, indica la disposizione naturale di una persona, il suo carattere di fondo, quella miscela di tratti che la rendono unica. Dire che qualcuno ha un temperamento “impetuoso” significa riconoscere in lui una tendenza alla passione e alla reazione immediata; parlare di un temperamento “flemmatico” rimanda invece a calma e lentezza. Il sintagma conserva l’idea originaria di “mescolare con misura”: il temperamento è infatti il risultato di un equilibrio, o squilibrio, tra diverse inclinazioni. Non a caso, nella tradizione medica antica, si parlava dei quattro temperamenti - sanguigno, collerico, malinconico e flemmatico - derivati dalla teoria degli umori di Ippocrate e Galeno. In quel contesto, il temperamento era inteso come la “temperatura interiore” dell’individuo, la proporzione di fluidi che determinava salute e comportamento. Ancora oggi, quando diciamo che un artista ha un temperamento “ardente”, stiamo evocando un fuoco interiore, una forza vitale che si manifesta nelle sue opere e nelle sue azioni.
La temperatura, invece, ha preso la via della misurazione oggettiva. È il grado di calore di un corpo, di un ambiente, di un liquido. Qui il senso di temperare si è tradotto nell’idea di “regolare” il calore, di stabilire un equilibrio tra caldo e freddo. Parlare di temperatura significa entrare nel dominio della fisica: 36,5 gradi è la temperatura corporea media di un individuo; 100 gradi è la temperatura di ebollizione dell’acqua a pressione atmosferica. Ma la parola in oggetto non si limita al linguaggio scientifico: nella vita quotidiana, dire che “la temperatura è salita” può riferirsi tanto al termometro quanto al “clima” di una discussione. In questo senso la temperatura diventa metafora, e si avvicina di nuovo al temperamento: una stanza “fredda” non è solo priva di calore fisico, ma anche di calore umano; una riunione “surriscaldata” non riguarda soltanto l’aria, ma anche gli animi.
La bellezza di questi due termini sta proprio nel loro dialogo implicito. Il temperamento descrive l’interno dell’uomo, la sua energia vitale, mentre la temperatura misura l’esterno, il mondo fisico. Eppure, quante volte li confondiamo o li sovrapponiamo? Un atleta che “ha un temperamento bollente” sembra quasi avere una temperatura corporea più alta; un ambiente “gelido” può raffreddare anche il temperamento delle persone che lo abitano. La lingua, in questo gioco di rimandi, ci ricorda che il confine tra fisico e psicologico non è mai netto: il calore e il freddo, il fuoco e il ghiaccio, sono immagini che attraversano tanto la scienza quanto la poesia (e la letteratura).
Temperamento e temperatura, insomma, sono figli dello stesso verbo, ma hanno scelto di raccontare storie diverse. Il primo parla dell’anima, della disposizione naturale, del modo in cui ciascuno di noi affronta la vita. Il secondo descrive il mondo tangibile, il calore che possiamo misurare e regolare. Ambedue, però, conservano l’eco di temperare: l’arte di trovare la giusta misura, di bilanciare forze opposte. E forse è proprio in questa radice comune che si nasconde la lezione più preziosa: che la vita, come il linguaggio, è sempre un gioco di equilibrio tra ciò che arde e ciò che raffredda, tra ciò che si sente dentro e ciò che si misura fuori.
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Nel regno della grammatica: la magia dei pronomi personali
Viveva una volta, nel regno della Grammatica, un re potente e indaffarato: Re Verbo. Comandava tutte le azioni e gli stati d’animo, ma per parlare con rapidità e precisione si affidava a due cugini, pronomi personali, molto diversi: Tonico e Atono.
Tonico era il cugino forte. Lo riconoscevi subito perché portava l’accento tonico: la sua voce spiccava nella frase e rimaneva sempre indipendente. Le sue forme erano me, te, lui, lei, noi, voi, loro, sé. Re Verbo lo chiamava quando bisognava sottolineare o fare un contrasto: “Marco guarda ME, non te!”, “Vengo con TE”, “Parlo di LUI”. Tonico poteva stare anche lontano dal verbo, spesso introdotto da una preposizione come a, di, con, per. Era l’ideale quando si voleva mettere un punto fermo su chi compie o subisce l’azione, senza ambiguità e con enfasi.
Atono era il cugino discreto. Non aveva accento tonico e si fondeva con il verbo, come se fossero una cosa sola. Le sue forme erano mi, ti, lo, la, gli, le, ci, vi, si, ne, li, le. Re Verbo lo chiamava per rendere la frase scorrevole e naturale: “Marco MI guarda”, “TI vedo”. Atono non stava mai da solo: prima del verbo quando questo è un modo finito (indicativo, congiuntivo, condizionale) - “LO vedo”, “GLI parlo”, “CI crederesti?” - dopo il verbo quando questo è all’infinito, al gerundio o all’imperativo (quest’ultimo, però, “tecnicamente” è un modo finito) - “Voglio vederLO”, “ParlandoNE capirai”, “Dimmi la verità”, “PortaGLI il libro”.
Così, nel regno della Grammatica, la scelta era semplice: se c’era preposizione, enfasi o contrasto, Re Verbo chiamava Tonico; se la frase doveva filare liscia e il pronome far parte del verbo, chiamava Atono. Da qui nascevano frasi pulite e corrette. “Marco guarda MI” era sbagliato, perché Atono deve fondersi col verbo e occupare il posto giusto: “Marco MI guarda”. “Vengo con ti” era sbagliato, perché con la preposizione si usa Tonico: “Vengo con TE”. “Voglio vedere la” era sgraziato e scorretto: con Atono la frase diventa “LA voglio vedere” oppure “Voglio vederLA”.
Quando Re Verbo voleva togliere ogni dubbio, ricorreva a Tonico: “Ha scelto NOI, non loro”, “Parlo con TE, non con lui”. Quando invece l’obiettivo era la naturalezza, Atono faceva il suo lavoro senza rumore: “CI ha chiamati”, “GLI scrivo domani”, “NE parliamo più tardi”.
Grazie ai due cugini, ogni messaggio nel regno arrivava chiaro: Tonico dava risalto e precisione quando serviva mettere l’attenzione su qualcuno, Atono garantiva ritmo e fluidità legandosi al verbo nel punto esatto. E così, frase dopo frase, Re Verbo parlava con eleganza e senza esitazioni.
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La lingua “biforcuta” della stampa
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