Nel vastissimo e affascinante panorama della nostra stupenda lingua esistono parole che, pur essendo perfettamente legittime e ricche di significato, giacciono ai margini dell’uso quotidiano, come gemme linguistiche dimenticate. Due di queste sono i verbi “smagrare” e “smagrire”: simili nella forma, affini nel suono, ma con sfumature semantiche e storie etimologiche che meritano di essere riscoperte. Entrambi richiamano l’idea di perdita, di alleggerimento, di trasformazione fisica o simbolica, ma lo fanno con accenti diversi, con una delicatezza che li rende strumenti preziosi per chi ama la precisione e la varietà espressiva della lingua di Dante.
“Smagrire” è il più noto tra i due, sebbene anche lui viva una vita discreta, spesso oscurato da sinonimi più comuni come “dimagrire” o “snellirsi”. Deriva da magro, con il prefisso s- che indica privazione o allontanamento, e si è formato in ambito romanzo, non direttamente dal latino ma per analogia con altri verbi come “snellire” o “sfinare”. L’accezione principale è “diventare magro” o “rendere magro”, con una sfumatura che può essere sia neutra sia negativa. Si può smagrire per una dieta, ma anche per una malattia, per un dolore, per un’ansia che consuma. È un verbo che porta con sé un senso di progressiva rarefazione, di svuotamento, talvolta anche di struggimento. “Dopo mesi di preoccupazioni, era smagrito visibilmente”, potremmo dire, oppure “quel volto smagrito raccontava più di mille parole”.
Ma è nel linguaggio poetico e letterario che smagrire rivela tutta la sua potenza evocativa. Qui non si limita al corpo: smagrisce il paesaggio, smagrisce il tempo, smagrisce persino la memoria. In certi versi, si parla di “giorni smagriti” per descrivere il senso di vuoto che accompagna l’attesa o la perdita. Il verbo diventa, così, metafora di un impoverimento esistenziale, di una sottrazione che non è solo fisica ma anche spirituale, affettiva, emotiva. “Smagrito d’amore”, si legge talvolta in testi antichi, dove il corpo si fa specchio di un cuore che si consuma. Anche la parola può smagrire: quando si fa essenziale, scarna, ridotta all’osso, ma proprio per questo maggiormente incisiva.
“Smagrare”, invece, è il vero dimenticato. Meno usato, più tecnico, più sfuggente. Anch’esso ha radici nella parola magro, con lo stesso prefisso s- (privativo o intensivo), ma la sua formazione è più recente e probabilmente legata a contesti specialistici. Il significato di “smagrare” è affine a quello di “smagrire”, ma con una connotazione più attiva e spesso più specifica. Si usa soprattutto in ambiti tecnici, artistici o artigianali, per indicare l’atto di assottigliare, snellire, rendere più sottile o meno pesante qualcosa. In scultura, per esempio, si può “smagrare” una figura per darle maggiore slancio; in sartoria, si può “smagrare” un abito per adattarlo meglio alla persona. È un verbo che suggerisce un’azione di raffinamento, di alleggerimento formale, quasi estetico. “Il busto è stato smagrato per accentuare la torsione del corpo”, potrebbe dire uno storico dell’arte. Oppure: “Abbiamo smagrato la linea del mobile per renderla più elegante”.
La differenza tra i due lessemi, dunque, non è solo di frequenza d’uso, ma anche di campo semantico. “Smagrire” è più legato al corpo, alla fisiologia, all’esperienza personale e, nel suo uso figurato, alla condizione interiore; “smagrare” si muove invece nel territorio della forma, dell’oggetto, della trasformazione intenzionale. Ambi i sintagmi, però, condividono un’idea di sottrazione, di riduzione, di ricerca di essenzialità. In un’epoca in cui il linguaggio tende spesso all’eccesso, riscoprire parole come queste è un esercizio di finezza e di attenzione. Perché ogni verbo è un gesto, e “smagrare” e “smagrire” sono gesti leggeri, precisi, quasi cesellati. Usarli è come scegliere una penna stilografica al posto di una biro: non cambia il contenuto, ma il modo in cui lo si dice. E, a volte, è proprio quel modo a fare la differenza.
---
Se il corpo si svuota e si fa più sottile,
smagrire è il verbo, sobrio e gentile.
Ma se snellisci un profilo o un tratto,
smagrare è il verbo che torna più adatto.
Smagrire è umano, è quasi poetico,
smagrare è tecnico, quasi estetico.
Il primo si usa per l’anima in pena,
il secondo per togliere un po’ di catena.
Smagrisce il tempo, la voce, il pensiero,
smagri la forma, il taglio, il sentiero.
E se confondi i due nel parlare,
non ti crucciare: basta saperli adoprare.
***
La lingua “biforcuta” della stampa
La stessa medesima decisione sarà riesaminata
Il tempo cambia, ma resta uguale
I soccorritori hanno trovato il morto che ancora respirava

Nessun commento:
Posta un commento