Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo
Oggi, in molti paesi, l’essere umano ha il diritto di dichiararsi uomo o donna a prescindere dal sesso biologico in cui è nato. E se noi facciamo un uso sbagliato di grammatica e vocabolario, rivolgendoci o riferendoci a una tale creatura, rischiamo d’incorrere nel reato di transfobia. Invitiamo dunque i sostenitori e gli avversari del ddl Zan a non sottovalutare i reati grammaticali o linguistici, del tutto nuovi, che le leggi sull’omotransfobia possono comportare.
Da un
quotidiano di Montréal: "Mégenrer est une violation des droits de la
personne, tranche une Cour canadienne". “Mégenrer”,
in inglese “misgender”, vuol dire “riferirsi a qualcuno (soprattutto
transgender ossia transessuale) usando parole, pronomi o appellativi che non
riflettono il genere nel quale la persona si identifica. L’azione può essere volontaria o
accidentale.”
La
vittima del reato linguistico, sanzionato dal giudice canadese, è una persona
"non binaria" e "gender fluid" che aveva denunciato al
Tribunale dei diritti della persona della Columbia Britannica i proprietari del
ristorante in cui lavorava. Questi sono stati giudicati responsabili, tra
l’altro, del fatto che i colleghi della persona transgender usassero,
talvolta, i termini
sbagliati (parole, pronomi,
appellativi), parlandole/gli. E sono stati condannati a 30.000 dollari di
risarcimento. Rivolgersi a chi si sente maschio, ma è nato femmina, usando il
pronome femminile è "offensivo, degradante, e riduttivo" ha stabilito
il tribunale.
Mi
asterrò dal fare del sarcasmo, perché io capisco il dramma di chi è
“transgenere” (transgender). La complicazione per tutti noi, ben decisi a non
violare i diritti dei “trans”, nasce dal fatto che chi ci appare donna, può
sentirsi invece uomo, e chi ci appare uomo, può sentirsi donna. Ma la casistica
è ancora più complessa…
La nuova sensibilità alle questioni d’identità di genere ha fatto sì che vi sia una crescente opposizione alla regola grammaticale che vuole che il maschile prevalga sul femminile. Nella nostra grammatica “studenti” include “studentesse”. In nome dell’uguaglianza dei sessi, alias generi, la lingua ufficiale di certe istituzioni è diventata "bisessuale" obbligando gli addetti, quando redigono una lettera o un documento, a ripetere ogni volta il sostantivo e l’aggettivo sia al maschile sia al femminile. Qualcuno usa ormai il linguaggio “schwa” o “scevà”, adatto a indicare un genere indistinto. Dal dizionario Treccani: “Scevà s. m In glottologia, termine col quale si indica una vocale di timbro indistinto (vocale neutra), di quantità ridotta, di scarsa sonorità e scarsa tensione articolatoria, graficamente rappresentata dai glottologi con il segno ə.” Altri troncano le lettere finali della parola e vi mettono un asterisco, la cui funzione è di includere il maschile, il femminile e il “transgenere”. Alcuni propongono il segno neutro “u”.
E ciò per rispetto della “comunità” LGBDQ+, che altrimenti si
sentirebbe esclusa. Suggerisco
il sito https://www.transmediawatchitalia.info/linguaggio-neutro-inclusivo/ per vedere i piani di lavoro di uno degli
artigiani stakanovisti di questo letto di Procuste linguistico.
L’uso del termine “donna” è inviso ai guardiani della
“political correctness” poiché trascura la varietà e la fluidità dei “generi”.
La British Medical Association suggerisce, pertanto, di usare l’espressione
“persone incinte” invece di “donne incinte”. In uno scritto scientifico si è
parlato del diritto delle “persone” (“people”) all’aborto. Lo si è fatto per
rispetto di quegli esseri che anatomicamente non potranno mai avere una
gravidanza, poiché sono nati uomini, o quasi uomini, ma si considerano ormai
donne. “Bodies with vagina”” è stata l’espressione usata in copertina dai
redattori della rivista medica Lancet. Usando il termine “corpi con vagina”, al
posto di “donne”, la rivista Lancet ha voluto significare che si può essere
donna anche senza avere la vagina.
Non so se voi avete capito la logica della messa al bando
di “donna”. Anch’io ci ho messo un bel po’ prima di capire…
In questa
nuova realtà alla Eugène Ionesco vi è l’attacco di una ridottissima minoranza,
degna comunque di ogni rispetto, al vocabolario usato da un gruppo
infinitamente maggioritario. La
political correctness, infatti, intende instaurare una utopia-distopia transessuale, esaltante il neutro e
con un programma di uguaglianza da attuare a tutti costi, forse anche
attraverso i tribunali del popolo.
È venuto forse il tempo di dire – tra mille cautele– alle donne nordamericane, sia le
vere sia le presunte, di non usare più
quel sadomasochistico “Hey guys!” quando si rivolgono alle “sorelle”. Dopo
tutto, “guy” è un termine maschile e si riferisce all’orribile uomo che le ha
martirizzate nei secoli, imponendo loro, per soprammercato, un vocabolario
sessista. Che però, ormai, sembra avere
i giorni contati…
Claudio Antonelli (Montréal)
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