giovedì 24 settembre 2020

Perché "condivisibile" e non "condividibile"?

 

Perché – si chiede e ci chiede  un nostro lettore di Potenza che desidera conservare l'anonimato  – si deve dire condivisibile e non condividibile? Non è un aggettivo derivato dal verbo condividere? Da chiudere abbiamo chiudibile, da udire udibile, da ripetere ripetibile e via dicendo. In casi simili, insomma, alla radice del verbo non si aggiunge il suffisso “-ibile” (dal latino “-ibilis” ‘che può subire una certa azione’)? Donde viene questo condivisibile?

Si deve dire condivisibile, cortese amico, perché questo aggettivo è registrato nei dizionari a differenza di condivid-ibile, che però è anche bene documentato in Google libri ricerca avanzata a partire dal 1903, mentre condivis-ibile è attestato ben prima fin dal 1853. Il vocabolo è etimologicamente composto del prefisso “-con” e dell’aggettivo latino “divisibile(m)” e significa, come sa, “che può essere condiviso”. Ha ragione, comunque, in linea generale. Per formare aggettivi di questo tipo, aggettivi derivati da verbi della seconda e terza coniugazione, basta togliere la desinenza dell’infinito e aggiungere al tema il suffisso “-bile ”: vendere / vendibile; punire / punibile; preferire / preferibile ecc. Non mancano, naturalmente, le eccezioni: risibile non ridibile, a partire cioè dal participio passato.

Venire alla ribalta

Questo modo di dire non avrebbe bisogno di spiegazioni essendo conosciutissimo e sulla bocca di tutti. Si adopera, infatti, riferito a una persona che improvvisamente acquista notorietà imponendosi all’attenzione del pubblico per qualche fatto di particolare importanza. Si dice anche, sempre in senso figurato, di avvenimenti che improvvisamente diventano di notevole attualità. L’espressione deriva dall’usanza degli attori di presentarsi “alla ribalta” per ringraziare il pubblico, al termine di una rappresentazione teatrale. Per “ribalta” si intende, oggi, il proscenio, ma quando “nacque” - due secoli fa, circa - era una lunga tavola di legno fornita di cerniere in modo da poter essere “ribaltata”, ai bordi del palcoscenico, per impedire alle luci esterne di illuminare la scena. In seguito venne montata davanti alle lampade su perni girevoli permettendo, cosí, di poter regolare l’intensità della luce. Sempre dalla ribalta del teatro sono derivati altri modi di dire, di uso comune, tra i quali ricordiamo “essere sotto le luci della ribalta”, vale a dire essere al centro dell’attenzione, come un attore illuminato dalle luci del proscenio, espressione riferita, naturalmente, a persone che si mettono in luce per un particolare motivo; “sognare le luci della ribalta”, cioè cercare il successo, la notorietà, come un aspirante attore desidera esclusivamente di... “arrivare”.

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La lingua "biforcuta" della stampa

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