martedì 2 aprile 2019

Andare nel (o essere in un) nirvana

Il piccolo Carlo non vedeva l'ora di comunicare al suo piú caro amico che, quanto prima, sarebbe partito per il nirvana. Il giovinetto aveva partecipato a un concorso per "piccoli volti nuovi" e avendo superato la selezione era stato convocato presso la sede centrale della casa cinematografica. Carlo, insomma, già sognava la gloria e la popolarità che la carriera di attore gli avrebbe/avrebbero procurato. Ci pensò il padre, però, a riportarlo alla realtà. «Bada Carlino - gli disse con molto garbo e affetto il genitore - non andare nel nirvana, non nutrire, cioè, facili illusioni; mantieni i piedi ben piantati per terra: non è detto che sarai il prescelto. Perciò fino a quando non conoscerai il "verdetto" della giuria non illuderti e pensa solo a studiare». Carlo, però, non aveva capito il significato della locuzione "andare nel nirvana", chiese, quindi, spiegazioni al padre e, una volta afferrato il concetto, decise di fare il saputello con il suo amico. Quest'ultimo credendo, infatti, che il nirvana fosse una località afferrò tutti gli atlanti geografici che aveva a disposizione per vedere in quale parte del mondo si trovasse quel luogo a lui sconosciuto. Ma inutilmente. Era proprio quello che voleva Carlo: "farsi bello" con il compagno. Gli spiegò, cosí, che nirvana non è un luogo geografico ma un vocabolo per formare una locuzione - anche se impropriamente - riferita a coloro che sono felici di cullarsi in un'illusione senza mantenere alcun rapporto con la realtà che inevitabilmente li circonda; oppure, ed è forse il caso piú frequente, riferita a colui che si trova in uno stato di "godimento spirituale". Il termine - tratto dal sanscrito - significa "estinzione" e nella religione buddista indica il fine ultimo della vita ascetica dove si raggiunge il nulla o la beatitudine eterna. Nel buddismo* indica, insomma, il grado di liberazione dalle passioni o - dopo la morte - dalle successive reincarnazioni. La locuzione, pertanto, è un prestito dalla filosofia ed è adoperata - impropriamente, come abbiamo detto - con il significato di  "beatitudine", "tranquillità interiore".  

* Qui

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