venerdì 4 marzo 2011

«Cuccubeoni»


No, gentili amici, siete in errore se pensate che questo vocabolo, finendo in “-oni”, faccia parte di quella schiera di avverbi tipo “pulcelloni” (di cui ci siamo occupati ieri) ripudiati dai vocabolari perché bollati come desueti e... inutili. In lingua nessuna parola è “inutile”. Dobbiamo, però, rassegnarci di fronte a questo stato di cose e aprire il nostro “cuore” al progresso linguistico che - come tutti i processi - è inarrestabile. Guai, se cosí non fosse. Ci dispiace, però - e non vorremmo essere ripetitivi - constatare il fatto che in nome del progresso, linguistico naturalmente - i dizionari chiudano le porte a molte parole che nel corso dei secoli hanno fatto la storia della nostra lingua. È il caso di “cuccubeoni” (meglio “cuccubeone”) - non piú riportato da buona parte dei vocabolari, appunto - che quando è nato indicava una maschera carnevalesca, “di moda” nella Firenze medicea. L’etimologia non è molto chiara, anzi sconosciuta. Si sa che è un nome, scaturito dalla fantasia popolare, con il quale si indicava una maschera mostruosa e da far paura, come ci è dettagliatamente descritta dal Lasca, pseudonimo dello scrittore fiorentino Anton Francesco Grazzini (uno dei fondatori dell’Accademia della Crusca), nella novella sesta della seconda “Cena” (raccolta di 12 novelle, raccontate in tre serate da cinque giovani e cinque donne e che hanno per argomento beffe, avventure d’amore, storie comiche e tragiche):
«E in su la vetta della croce era una mascheraccia contraffatta, la piú spaventosa cosa del mondo, la quale in cambio d’occhi aveva due lucerne di fuoco lavorato, e cosí una per bocca, che ardevano tutte, e gettavano una fiamma verdiccia molto orribile a vedere; e mostrava certi dentacci radi e lunghi, con un naso schiacciato, mento aguzzo, e con una cappelliera nera ed arruffata, che avrebbe messo paura, non che a Caio e al Bevilacqua, ma a Rodomonte e al conte Orlando; e in su quelle pile vuote che riescono in Arno rasente le sponde, l’uno di qua e l’altro di là stavano cosí divisati in agguato e alla posta; e questi animalacci cosí fatti erano allora chiamati ‘cuccubeoni’».
Questi “cuccubeoni”, dunque, erano acconci a ordire beffe e quindi “utili” in qualunque stagione della Firenze dei Medici: andavano a spreco durante il carnevale, frammisti ad altri animalacci mostruosi allestiti per l’occasione. Il termine piacque moltissimo e fu affibbiato per secoli alle persone dall’aspetto poco... rassicurante e registrato nei vocabolari fino a quando - non si sa perché - qualche “Pierino della lingua” decise, ‘motu proprio’, che il vocabolo era superato dai tempi e andava, quindi, messo in soffitta. Noi, ci sia consentito dirlo, non la pensiamo affatto cosí e riteniamo che i vocabolari debbano attestare tutti i termini del nostro idioma e specificare, eventualmente, che si tratta di una voce desueta.
E a proposito di voci desuete, come non ricordarne un’altra - anch’essa relegata in soffitta - che si riferiva a persone che potremmo definire mostri: “tantafèra”. Vediamo assieme la sua nascita e la sua... morte. Questo termine, dunque, presenta due accezioni distinte (una sola, però, snobbata dai compilatori dei vocabolari). La prima si ricollega a “cuccubeoni” perché con “tantafèra” si indicava uno spauracchio ch compariva nelle mascherate del carnevale. Sempre secondo il Lasca sarebbe un nome composto con ‘tanta’ e con ‘fera’ in cui ‘tanta’ sta per ‘sí grande’ e ‘fera’ per ‘fiera’, cioè animale. Alla lettera, quindi, la “tantafèra” è una ‘grandissima fiera’, cioè un animalaccio, un mostro. L’altra accezione - questa sí registrata nei vocabolari - si riferisce a una persona che potremmo definire logorroica in quanto la tantafèra (o tantaferàta) è un ragionamento, un discorso lungo e noioso, vuoto e sconnesso. I lettori toscani dovrebbero ben conoscere questa voce popolare nata nella loro terra, anche se l’etimologia è incerta e non ha nulla che vedere con l’altra tantafèra, cioè con l’animale. Secondo alcuni linguisti proverrebbe dalle voci tedesche “tand”, inezia, e “thuhe”, carrettata. Alla lettera, dunque, tantafèra o tantaferàta varrebbe “una carrettata d’inezie”. Proprio come le “carrettate” di coloro che parlano a lungo e a sproposito.
Libri in cui si può trovare
cuccubeoni.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

I dizionari sono un prodotto commerciale: non possono contenere tutte le parole, ma solo quelle che le persone verosimilmente cercherebbero. Semmai è la Crusca che dovrebbe fornire un vero dizionario universale di tutte le parole italiane.

Fausto Raso ha detto...

Caro Anonimo,
ciò che sostiene è condivisibile...
Perché non si firma, anche con uno pseudonimo?