Nella lingua italiana basta una sillaba per spostare il baricentro etico di un’intera frase. È ciò che accade con profittare e approfittare, due sintagmi verbali che nel parlato quotidiano vengono spesso trattati come sinonimi perfetti, mentre nella loro struttura profonda custodiscono “intenzioni” molto diverse. Il primo guarda al progresso, il secondo all’occasione; il primo matura, il secondo afferra; il primo eleva, il secondo può anche mordere.
Profittare, dal francese profiter, è un sintagma che porta con sé l’idea di un vantaggio che non nasce dall’astuzia ma dalla crescita. È legato al concetto di profitto come frutto, giovamento, avanzamento: l’alunno profitta molto negli studi non implica alcuno sfruttamento, ma un percorso che dà risultati. Anche quando regge un complemento conserva un tono nobile e letterario: si profitta di un consiglio, di un esempio, di un’esperienza, sempre con l’idea di diventare migliori. È un verbo che non si appropria: si lascia... nutrire.
Approfittare, anch’esso di origine francese (approfiter), cambia natura per via di quel prefisso a‑ che indica direzione, movimento verso qualcosa. Non è un dettaglio: è proprio quell’‑a a trasformare il gesto. Qui il vantaggio non matura: si coglie nell’istante. Approfittare può essere un atto di prontezza: approfittiamo degli sconti per rinnovare l’attrezzatura della nostra imbarcazione, e in questo senso è un verbo luminoso, legato alla capacità di non lasciarsi sfuggire un’occasione favorevole. Ma è anche il verbo che più facilmente scivola nell’abuso: approfittare della bontà altrui non è un progresso, è una prevaricazione. La lingua, in questo caso, non è neutra: suggerisce un giudizio. Da qui la diffusione, molto spesso criticata dai puristi, della forma riflessiva approfittarsi di, che accentua ulteriormente la sfumatura negativa. Non esiste invece profittarsi: e non potrebbe esistere, perché profittare non “contiene” mai un gesto di appropriazione.
Per orientarsi con precisione, basta osservare le differenze d’uso: profittare ha una sfumatura etica prevalentemente positiva, guarda al risultato e al progresso, può essere usato assolutamente o con la preposizione di, e si presta a frasi come spero possiate profittare di queste note linguistiche. Approfittare, invece, oscilla tra neutralità e negatività, concentra il suo significato sull’occasione e sulla tempestività, regge stabilmente la preposizione di, e trova il suo esempio tipico in non vorrei approfittare della vostra pazienza.
La scelta tra i due sintagmi non è un dettaglio stilistico: è precisione semantica. Profittare indica un vantaggio che eleva; approfittare un vantaggio che si afferra e talvolta si impone. La lingua non giudica, ma orienta. Sta a noi profittarne con cura, senza mai approfittarcene.
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Cercare i nodi nel giunco
Nel nostro musicale idioma ci sono alcuni modi di dire che, pur avendo un’eleganza naturale e un’immagine vivida, sono stati lentamente soppiantati da espressioni più comuni. “Cercare i nodi nel giunco” appartiene a questa famiglia di perle linguistiche: un modo di dire antico, preciso, quasi poetico, che oggi sopravvive ai margini del parlato, pur meritando pienamente un ritorno in scena.
L’espressione significa andare a caccia di difficoltà inesistenti, intestardirsi nel trovare difetti dove non ce ne sono, complicare ciò che è semplice. Il senso figurato nasce dal giunco, pianta dal fusto liscio, flessibile e privo di nodi: cercarne uno è un’impresa impossibile, un esercizio di pignoleria fine a sé stessa. Non stupisce che il giunco abbia una presenza forte anche nella nostra tradizione letteraria. Dante, nel Purgatorio I, lo pone al centro del rito di umiltà che Catone impone al poeta: Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto. Il giunco è “schietto” proprio perché privo di nodi, flessibile, capace di piegarsi senza spezzarsi: un simbolo perfetto di umiltà e, indirettamente, della sua impossibilità di offrire appigli a chi cerca difetti dove non ce ne sono.
Anche Boccaccio, pur non citando il giunco, offre più volte ritratti di personaggi che incarnano lo stesso atteggiamento: cavillosi, puntigliosi, pronti a trovare mancanze immaginarie pur di mostrarsi più acuti degli altri. È un tratto che attraversa il Decameron, soprattutto nelle figure dei pedanti e dei sofisti, e che rende l’espressione “cercare i nodi nel giunco” sorprendentemente adatta anche al suo mondo narrativo.
Nell’uso quotidiano, il modo di dire funziona benissimo per smascherare chi si ostina a trovare problemi immaginari: «Il progetto è impeccabile, smettila di cercare i nodi nel giunco solo perché vuoi ritardare la consegna»; oppure: «Siamo stati benissimo, non capisco perché tu debba sempre cercare i nodi nel giunco e lamentarti del cameriere». In ambi i casi il giunco diventa il simbolo di una semplicità che qualcuno si ostina a incrinare.
Perché recuperarlo oggi? Perché è un’alternativa più elegante e colta rispetto al diffusissimo “cercare il pelo nell’uovo”. Quest’ultimo è efficace, certo, ma il giunco porta con sé un’immagine più morbida, naturale, quasi letteraria. È un’espressione che non solo comunica un concetto, ma lo fa con grazia, evocando un gesto inutile compiuto su una pianta che, per sua natura, non offre appigli. In un’epoca in cui il linguaggio tende a semplificarsi, riportare in vita locuzioni come questa significa restituire alla lingua di Dante e di Manzoni un po’ della sua ricchezza figurativa.

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