Delusione è parola che appartiene alla sfera emotiva. Indica lo smarrimento di chi vede infrangersi una speranza, il dolore sottile di un’attesa tradita. “La delusione di un esame andato male” o “la delusione di un amico che non mantiene la promessa” sono esempi tipici: qui la parola porta con sé il peso dell’aspettativa spezzata. Oriana Fallaci, in Un cappello pieno di ciliege (ciliege, purtroppo, senza la terza “i”) scrive: “La delusione è un veleno capace di ferire, corrompere, far ammalare l’anima”. E la tradizione posrisorgimentale parla di “delusione storica”: la mancata realizzazione delle speranze di libertà e giustizia dopo l’Unità d’Italia, tema che attraversa romanzi e saggi di fine Ottocento.
Collisione, invece, è parola tecnica, che si muove tra la fisica e la cronaca. Significa urto, impatto violento tra corpi in movimento. “La collisione tra due automobili” o “la collisione tra particelle subatomiche” mostrano il suo valore concreto e materiale. Ma la letteratura contemporanea ha saputo piegarla anche con uso figurato: Maria Teresa Infante intitola una raccolta Collisione d’interni, dove l’urto non è tra corpi, ma tra anime e linguaggi. E la critica culturale usa spesso l’espressione “rotta di collisione” per descrivere conflitti politici o ideologici, trasformando l’impatto fisico in metafora di scontro di idee.
Un aneddoto curioso racconta che, negli anni Sessanta, un giornalista confuse i due termini in un titolo: invece di scrivere “La delusione dei tifosi dopo la sconfitta”, pubblicò “La collisione dei tifosi dopo la sconfitta”. Il refuso provocò ilarità, perché trasformava un sentimento in un incidente, e dimostrava quanto la somiglianza sonora possa trarre in inganno anche chi lavora con le parole ogni giorno.
La confusione nasce dalla somiglianza fonetica, ma basta ricordare la radice: delusione viene da deludere, “tradire l’attesa”; collisione viene da collidere, “urtare insieme”. L’una appartiene al cuore, l’altra alla strada o al laboratorio. Due parole che si somigliano, ma che non vanno mai confuse: l’una racconta un sentimento, l’altra descrive un impatto.
Ed è proprio in questa distanza che la lingua rivela la sua forza: il suono può illudere di una parentela, ma l’etimologia smaschera l’inganno e restituisce a ciascun termine il suo destino. La delusione rimane ferita dell’anima, la collisione urto di corpi o di idee: gemelli fonetici che abitano universi lontani.
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Rabboccare e riboccare: due verbi, due distinte azioni
Nonostante la somiglianza fonetica i sintagmi rabboccare e riboccare non sono affatto sinonimi, come si è portati a ritenere. La loro differenza sta nell’etimologia, che ne definisce con precisione il significato e l’ambito d’uso. Confonderli può portare a inesattezze concettuali.
Il verbo rabboccare, attestato dal XIV secolo, nasce dalla combinazione di r- (prefisso iterativo o intensivo), a- (prefisso avverbiale) e bocca. Quest’ultima non indica soltanto l’organo del corpo, ma anche l’orlo o l’apertura superiore di un recipiente. Rabboccare significa dunque riempire fino all’orlo o fino al livello stabilito. È un verbo transitivo che designa l’atto di aggiungere una piccola quantità di liquido o sostanza per riportare il contenuto di un recipiente al livello desiderato o massimo. Si usa soprattutto in ambito tecnico e domestico, per liquidi o sostanze che tendono a calare o evaporare: devo rabboccare l’olio nel motore dell’auto; dopo aver bevuto un sorso, la cameriera ha cortesemente rabboccato il mio bicchiere di vino; per fare un buon caffè bisogna rabboccare l’acqua della caldaia fino alla valvola.
Diverso è il caso di riboccare, verbo meno comune ma attestato in italiano, formato da ri- (prefisso iterativo, che indica ripetizione o ritorno) e boccare. Qui il riferimento è a un senso più antico di bocca, intesa come apertura. Il riboccare richiama l’idea di traboccare o rovesciarsi fuori dall’orlo: più spesso è usato, infatti, come variante di traboccare, e significa scorrere fuori a causa di un eccessivo riempimento. È un verbo principalmente intransitivo, coniugato con l’ausiliare essere, e indica l’azione di un liquido che fuoriesce o si trova in eccesso: se versi ancora, il bicchiere riboccherà; la vasca era così piena che l’acqua è riboccata sul pavimento. In un’accezione meno comune può essere usato come transitivo, per indicare il riempire a tal punto da far straboccare: per errore ho riboccato la damigiana e ho fatto un pasticcio.
La distinzione fondamentale tra i due sintagmi verbali risiede dunque nell’azione che si compie o si osserva: rabboccare significa aggiungere per raggiungere il livello corretto o massimo, e si coniuga con avere (ho rabboccato), mentre riboccare indica il fuoriuscire o lo straboccare per eccesso di contenuto, e si coniuga con essere (è riboccato). In conclusione, se si desidera portare a livello l’acqua nel vaso, bisogna rabboccarla; se invece l’acqua è riboccata, significa che ne è stata versata troppa.
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