lunedì 8 dicembre 2025

Essere a Firenze e non veder le cupole

 


L
a lingua italiana è ricca di espressioni che nascono da un paesaggio e diventano metafore universali. Firenze, con le sue cupole che dominano la città e segnano l’orizzonte, ha regalato un modo di dire che trasforma l’architettura in linguaggio: “essere a Firenze e non veder le cupole”. È un invito a non trascurare l’evidenza, a non passare accanto all’essenziale senza riconoscerlo.

Essere a Firenze, e non veder le cupole” è un modo di dire che nasce dall’evidenza visiva: chi si trova a Firenze non può non notare le grandi cupole che dominano la città, prima fra tutte quella di Santa Maria del Fiore, capolavoro del Brunelleschi. La cupola è talmente imponente e centrale da diventare simbolo della città stessa.

Il significato è chiaro: indica la persona che si trova in un luogo o in una situazione e non coglie ciò che è più caratteristico, evidente o importante. È un modo ironico per sottolineare distrazione, superficialità o incapacità di riconoscere l’essenziale.

L’uso quotidiano si presta a paragoni vividi: “È come essere a Firenze e non veder le cupole”. La formula funziona in diversi contesti: chi visita una città e ignora i suoi monumenti più celebri, chi in una discussione non si accorge dell’argomento centrale, o chi, più in generale, manca di attenzione verso ciò che è lampante.

Ed è proprio questa forza figurativa che permette di adattarla a situazioni moderne. Pensiamo al mondo della giustizia: ignorare il ruolo dei legali in una vicenda è come essere a Firenze e non veder le cupole, perché la loro presenza è talmente evidente da rendere incomprensibile ogni analisi che li escluda. Allo stesso modo, nel dibattito sulla riforma della giustizia, trascurare la voce dei legali equivale a essere a Firenze e non veder le cupole: un errore di prospettiva che mina la credibilità dell’intero discorso.

Anche nel linguaggio quotidiano l’espressione mantiene la sua efficacia: se parli di un processo e non menzioni i legali, è come essere a Firenze e non veder le cupole; discutere di contratti senza consultarli è davvero come trovarsi sotto la cupola del Brunelleschi e non alzare lo sguardo, cioè lasciarsi sfuggire l’essenziale.

Così il proverbio antico si lega naturalmente agli esempi moderni, mostrando come un’immagine architettonica possa trasformarsi in metafora universale: non vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti.


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Quando le parole si somigliano, ma non si equivalgono


N
ella nostra stupenda lingua italiana capita spesso che la somiglianza fonetica e l’etimologia comune inducano a confondere parole che, in realtà, hanno significati e funzioni molto diverse. È il caso di perverso e imperverso, sintagmi che condividono la radice -verso e un legame storico, ma che non possono essere usati come sinonimi. La confusione nasce dal fatto che imperversare deriva proprio da perverso, ma ha subito uno slittamento semantico che lo ha portato a indicare tutt’altro.

Perverso è un aggettivo che giudica una qualità morale: indica malvagità, corruzione, deviazione dalla norma, vizio. È la parola che si usa per descrivere un comportamento aberrante, un meccanismo dannoso, un atteggiamento inclinato al male. Imperversare, invece, è un verbo intransitivo che significa infierire, accanirsi, infuriare. Si usa per descrivere fenomeni naturali che si scatenano con violenza, come una tempesta o un’epidemia, ma anche per comportamenti aggressivi o per mode che si diffondono con forza. Dire “la bufera imperversa” è corretto; dire “quel comportamento è imperverso” è un errore, perché imperverso non è aggettivo.

Molti li confondono perché il prefisso in (im)- è ambiguo: può sembrare una negazione o un rafforzativo di perverso, mentre in realtà ha valore intensivo, trasformando l’idea di “diventare perverso” in quella di “scatenarsi con violenza”. Inoltre, l’uso figurato di imperversare in ambito giornalistico (“imperversano le notizie false”, “imperversa la moda delle fotografie in posa”) avvicina il verbo a un campo semantico che richiama deviazione e corruzione, creando un’area di sovrapposizione con perverso.

La chiarezza arriva distinguendo bene le categorie grammaticali: perverso è aggettivo, imperversare è verbo. Il primo giudica una qualità morale, il secondo descrive un’azione o un fenomeno che si scatena. È proprio questa differenza che va fissata per evitare confusioni: due parole simili nella forma, ma lontane nel senso. A conferma, basti ricordare l’uso letterario di Giuseppe Parini: «Quando Orïon dal cielo declinando imperversa», dove il verbo descrive l’infuriare delle stagioni e non certo una qualità morale.

Due parole possono vestirsi dello stesso suono, ma abitare mondi semantici lontanissimi.








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