Nella lingua italiana esistono coppie di verbi che sembrano gemelli e invece, a guardarli bene, sono solo cugini lontani. Tornare e ritornare appartengono a questa famiglia: due forme che condividono la radice, la direzione e persino l’immaginario, ma che non sono - e non possono essere - sinonimi assoluti. La loro differenza non è una questione di correttezza, ma di sfumatura: un gioco di intensità, di frequenza, di ritorni che non hanno lo stesso peso.
Tornare affonda nel latino tornare, “girare, voltare, tornire”, voce legata al tornus, il tornio: un attrezzo che compie un giro e riporta sempre al punto di partenza. È da questa immagine circolare che nasce il valore moderno del verbo: il rientrare dopo essersi allontanati. È un verbo semplice, primario, essenziale. Indica il movimento di chi va via e poi rientra, di chi lascia un luogo e poi lo raggiunge di nuovo. È il verbo del ciclo naturale: si torna a casa, si torna indietro, si torna sui propri passi. Ha una neutralità che lo rende adatto a ogni contesto, dal più quotidiano al più letterario. È un verbo che non giudica: registra un movimento e basta.
Ritornare, invece, nasce dall’aggiunta del prefisso ri- allo stesso tornare: un prefisso che nella nostra lingua porta con sé l’idea della ripetizione, del “di nuovo”, dell’ “ancora una volta”. Non è un semplice doppione: è un verbo che amplifica, che intensifica, che aggiunge un eco (sic!). Ritornare non si limita a indicare un rientro: suggerisce un ritorno che ha un prima e un dopo, un’ombra, una memoria. Si ritorna dove si è già stati, ma anche su un pensiero, su un tema, su un ricordo. È un sintagma che vibra di risonanza.
La differenza si coglie soprattutto nell’uso figurato. Tornare è spesso concreto: «torno domani», «torno presto», «torno da te». Ritornare è più mentale, più circolare: «ritorno sull’argomento», «ritornano le stesse paure», «ritorna la primavera». È il verbo delle ricorrenze, dei cicli, delle ripetizioni che scandiscono il tempo. Non a caso, nella lingua poetica, ritornare è più frequente: ha un passo più lento, più ampio, più evocativo.
Esiste poi un’altra sfumatura, più sottile ma decisiva: ritornare può suggerire un ritorno inatteso, sorprendente, quasi misterioso. «Ritornò dopo anni» non significa semplicemente che tornò: significa che il suo ritorno ha un peso, una storia, un’ombra. È un lemma che porta con sé una densità narrativa, come se ogni ritorno fosse anche un racconto.
In definitiva, e concludiamo queste noterelle, tornare e ritornare non sono in competizione: convivono, si completano, si scelgono in base al tono, al contesto, all’intenzione. Il primo è il verbo del movimento; il secondo è il verbo della risonanza. Il primo registra un fatto; il secondo lo carica di senso. E la lingua, che non spreca mai un prefisso, ci ricorda che anche un ritorno può avere più di una profondità.
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“Avere il sole in tasca”
Ci sono espressioni che nascono come immagini luminose e finiscono col vivere due vite parallele: una affettuosa, l’altra ironica. “Avere il sole in tasca” appartiene a questa famiglia di metafore elastiche, capaci di scaldare o di graffiare a seconda di come vengono pronunciate. È un modo di dire non codificato, ma proprio per questo mobile, duttile, sorprendente.
“Avere il sole in tasca” è una di quelle immagini che sembrano nate per illuminare, ma che a volte vengono usate per pungere. La sua forza sta proprio qui: nella possibilità di oscillare tra una lettura affettuosa e una ironica, senza perdere la sua carica figurativa.
Nella versione più spontanea e diffusa, chi ha “il sole in tasca” porta con sé una luce interiore che non dipende dal meteo né dalle circostanze. È la persona che entra in una stanza e la rischiara, che affronta le giornate con un calore naturale, quasi inconsapevole. Si dice di chi ha un buonumore che non si lascia scalfire, di chi sa contagiare gli altri con un’energia positiva: Non so come faccia, ma ha sempre il sole in tasca; Con te è facile: hai il sole in tasca anche quando piove. È un’immagine tenera, quasi infantile, che restituisce l’idea di una riserva personale di luce.
Esiste però anche un’altra lettura, meno zuccherina e più scettica, che parte proprio dall’impossibilità concreta dell’immagine. Il sole - è lapalissiano - non si può avere in tasca, dunque chi dice di averlo sta millantando, facendo il brillante senza sostanza. In questo uso, l’espressione diventa una piccola puntura ironica: Dice di aver risolto tutto, ma ha solo il sole in tasca; Fa il luminoso, ma è tutto sole in tasca. Qui la metafora non illumina: smaschera. È un modo per dire che dietro la posa radiosa non c’è molto, che la luce è più dichiarata che reale.
Le due interpretazioni convivono senza annullarsi. Dipendono dal tono, dal contesto, dalla relazione tra chi parla e chi ascolta. È il destino delle metafore non codificate: vivono di sfumature, si piegano all’intenzione, cambiano colore come la luce del giorno. E forse è proprio questo che rende “avere il sole in tasca” un’espressione così viva: può scaldare o può bruciare, ma non lascia mai indifferenti.

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