L’usanza di formulare l’augurio “buon appetito” all’inizio di un pasto costituisce un automatismo sociale talmente interiorizzato da sottrarci, nella maggior parte dei casi, alla possibilità stessa di interrogarci sulla sua legittimità linguistica e sulla sua pertinenza pragmatica. Sebbene oggi l’espressione sia percepita come un atto di cortesia elementare, un’osservazione più attenta dei codici comportamentali rivela come la questione sia tutt’altro che risolta. Il galateo più rigoroso, infatti, ne “ordina” l’eliminazione. Tale interdizione non risponde a un mero criterio estetizzante, ma si radica in una concezione aristocratica della convivialità: nelle società di antico regime, la tavola nobiliare non era deputata a soddisfare la fame - considerata un bisogno primario, dunque “basso” - bensì a sancire la centralità della conversazione e la performatività (si perdoni il termine di provenienza barbara) del rango. Augurare “appetito” equivaleva, in quel contesto, a evocare una mancanza fisiologica ritenuta sconveniente. Per questo l’inizio del pasto era affidato non a un “discorso” ma a un gesto del padrone di casa, che prendeva per primo le posate, evitando così di trasformare il convivio in un momento di mera alimentazione.
A tale quadro si affiancano alcuni aneddoti di natura storico-culturale. Secondo una tradizione diffusa, la circolazione capillare dell’augurio risalirebbe al Medioevo, quando per le classi meno abbienti il pasto non costituiva una certezza quotidiana: in quel caso, la formula assumeva il valore di una benedizione, esprimendo il desiderio che il commensale disponesse effettivamente di cibo e che il corpo fosse in grado di assimilarlo. Un’altra interpretazione, più maliziosa, rimanda ai banchetti rinascimentali, caratterizzati da un numero eccessivo di portate e da una ricchezza gastronomica tale da rendere l’augurio quasi apotropaico, come se si volesse scongiurare un sovraccarico dello stomaco. Solo con l’affermazione della borghesia la formula si è progressivamente stabilizzata come convenzione sociale, divenendo un espediente per attenuare il silenzio iniziale della tavola. È tuttavia proprio in questo passaggio che il linguista deve vigilare, per evitare che la formula scivoli nel “parlottismo”, ossia in quel chiacchiericcio privo di funzione comunicativa sostanziale.
Sotto il profilo strettamente lessicale, la nostra lingua mette a disposizione alternative più neutrali, quali “buon pranzo” o “buona cena”, che non implicano alcuna valutazione dello stato fisiologico dell’interlocutore e si limitano a designare l’occasione conviviale. Chi invece indulge nella ricerca terminologica può facilmente immaginare l’effetto prodotto da un ospite che, senza essere sollecitato, si abbandoni a una dissertazione sull’origine di ogni spezia presente nel piatto, assumendo così il ruolo di “vanveriere” e compromettendo il momento della degustazione.
Per concludere questa chiacchierata, benché il bon ton suggerisca il silenzio o un sorriso misurato, la lingua d’uso continua a riconoscere nel “buon appetito” una formula di contatto, un dispositivo relazionale che facilita l’interazione. La scelta dell’espressione più adeguata dipende dal contesto e dal ruolo pragmatico assunto dal parlante: l’ospite accorto privilegerà la discrezione; l’esperto, qualora intervenga, dovrà esercitare la virtù della sintesi, affinché la sua spiegazione non ecceda la durata della pietanza stessa.
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La lingua “biforcuta” della stampa
Maria Sole Agnelli, addio alla sorella riservata dell’Avvocato che scelse la cultura e il servizio pubblico
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Ecco un “bel caso” di anfibologia, di cui la stampa è maestra insuperabile. Chi scelse la cultura Maria Sole o l’Avvocato? Si veda anche qui.

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