Nel gergo aeroportuale italiano si continua a usare il verbo imbarcare, ereditato dal mare e perfettamente funzionale, ma non del tutto trasparente quando applicato all’aeromobile. L’atto di “mettere in barca” i passeggeri di un aereo è un’estensione semantica storica, non una scelta morfologicamente coerente con il mezzo. Da questa constatazione nasce la proposta di un verbo nuovo, nitido, regolare e immediatamente interpretabile: inaerare.
La formazione è limpida: il prefisso in-, nel valore locativo di “dentro”, si unisce al sostantivo aereo + la desinenza verbale -are, generando un verbo parasintetico perfettamente allineato ai modelli produttivi dell’italiano (inscatolare, intubare, infornare, imbussolare). Il significato si coglie al primo sguardo: inaerare significa “mettere dentro l’aereo”, cioè far salire i passeggeri a bordo di un aeromobile. La coniugazione è naturale, priva di inciampi fonetici, e il campo semantico è libero da collisioni: nessun altro verbo italiano occupa questo spazio.
L’uso risulta immediato anche in contesto operativo: «Tra pochi minuti inizieremo a inaerare i passeggeri del volo AZ 611»; «I viaggiatori con precedenza verranno inaerati per primi»; «L’inaeramento del volo è previsto dal varco E23»; «Il personale di terra ha già inaerato i bagagli speciali». La trasparenza morfologica, la coerenza semantica e la naturalezza d’uso fanno di inaerare un candidato credibile per sostituire, almeno nel dominio dell’aviazione civile, il tradizionale e improprio imbarcare.
inaerare v. tr. [der. di aereo, con il pref. in- nel valore locativo e la desinenza verbale -are]. – 1. Far salire persone, o stipare cose a bordo di un aeromobile; procedere alla salita a bordo dei passeggeri. 2. (estens.) Trasferire all’interno di un aereo merci, attrezzature o animali. – Part. pass. inaerato; inaeramento s. m.: «l’inaeramento del volo è previsto dal varco E23».
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La forza silenziosa del “diverso”
“Diverso” non significa soltanto “non uguale”: è un sintagma che indica uno scarto, piccolo o grande, rispetto a qualcosa. Nel suo uso più comune equivale a “differente”: due persone possono avere idee diverse quando non coincidono, oppure due percorsi possono essere diversi se non conducono alla stessa meta.
Da questo nucleo nasce l’accezione estensiva in cui “diverso” vale “altro, di altro tipo”. Quando diciamo, per esempio, “vorrei un finale diverso”, non intendiamo una semplice variante, ma un esito che cambi davvero la direzione della storia; e quando invitiamo qualcuno a “guardare la situazione da un punto di vista diverso”, proponiamo un cambio di prospettiva, non un dettaglio ritoccato.
Nell’italiano contemporaneo è pienamente vivo anche l’uso quantitativo: “diversi” può significare “parecchi, vari”. Dire “ho letto diversi libri sull’argomento” o “ci sono diversi problemi da risolvere” non mette l’accento sulle differenze interne, ma sulla presenza di una pluralità concreta, non enorme ma nemmeno trascurabile.
“Diverso” può anche diventare sostantivo e indicare chi si discosta dalla norma sociale: “a scuola si sentiva un diverso”, frase che racconta un senso di marginalità o di non appartenenza. In altri contesti, lo stesso termine può essere rivendicato: “orgoglioso di essere diverso”.
Infine, “diverso” è spesso il segnale di uno scarto rispetto alle attese: “le cose sono andate in modo diverso da come pensavo” indica un cambio di rotta, un esito inatteso.
In tutte queste sfumature, la parola conserva un’idea centrale: qualcosa si sposta, devia, prende un’altra piega. Sta a chi parla (o scrive) decidere se quella distanza è lieve, marcata, neutra, problematica o liberatoria.
Le varie accezioni di diverso.

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