giovedì 25 dicembre 2025

La piccola stella che scaldò il cielo

 

Nel cielo d’inverno, quando l’aria profuma di neve e le case si accendono come lanterne, viveva una piccola stella, Lumìna. Non era tra le più grandi né tra le più appariscenti: stava in un angolo quieto del firmamento, dove il silenzio sembrava fatto apposta per lei.

Tutte le notti osservava le altre stelle che scintillavano sicure, mentre lei tremolava appena, come una candela che teme di spegnersi.

Una sera di dicembre, mentre sulla Terra cominciavano a comparire i primi presepi e le prime ghirlande, il Vento del Nord passò di lì, portando con sé odore di legna bruciata e campanelli lontani.

«Perché tremi così, piccola Lumìna?», chiese con voce che sapeva di neve fresca.

«Perché non servo a niente», rispose lei. «Non illumino abbastanza, non guido nessuno, non annuncio nulla. Sono solo… piccola.»

Il Vento del Nord sorrise piano, con quella tenerezza che si riserva a chi non sa ancora quanto brilla.

«A volte», disse, «le cose piccole diventano preziose proprio quando arriva il Natale

E se ne andò, lasciandola con un pensiero che brillava più di lei.

Passarono notti, finché arrivò quella speciale: la vigilia di Natale. La Terra, laggiù, era un mosaico di luci. Le famiglie preparavano tavole, i bambini lasciavano biscotti e latte, le strade profumavano di arancia e cannella. Ma c’erano anche finestre buie, cuori un po’ soli, persone che avrebbero voluto sentire una voce, un abbraccio, un segno.

Lumìna guardò tutto questo e sentì dentro di sé un calore nuovo, come se qualcuno avesse acceso una piccola lanterna nel suo cuore stellare.

«Forse posso fare qualcosa anch’io», pensò.

Provò a brillare. Poco. Poi un po’ di più. Poi ancora.

E accadde una cosa meravigliosa: più cercava di illuminare gli altri, più la sua luce cresceva. Non diventò enorme, non diventò la più luminosa del cielo. Ma diventò chiara, calda, natalizia.

Una bambina, affacciata alla finestra accanto all’albero addobbato, la notò per prima.

«Papà, guarda! Quella stella sembra che ci faccia gli auguri.»

E il papà, che aveva avuto una giornata difficile, si sentì più leggero.

Una donna anziana, sola, la vide e pensò: «Forse questa notte non sono dimenticata.»

Un ragazzo che aveva perso fiducia in sé stesso la guardò e pensò: «Se brilla lei, posso farcela anch’io.»

E così, senza rumore, senza clamore, Lumìna diventò la stella che sapeva aspettare: aspettava solo il momento giusto per essere utile, e quel momento era arrivato proprio nella notte più luminosa dell’anno.

Da allora, ogni Natale, chi guarda bene il cielo può scorgere una piccola luce che sembra dire: non serve essere grandi per portare un po’ di Natale nel cuore di qualcuno; basta esserci, quando qualcuno ha bisogno della tua luce.

  • Il Natale non è grandezza, ma presenza.

    Anche la luce più piccola può scaldare una notte intera.

    Donare illumina chi riceve, ma anche chi dona.

  • ***


  Un sereno Natale alle amiche e agli amici di questo portale.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)







mercoledì 24 dicembre 2025

Beccare: da mangiare a picchiare

 


C’è un fascino particolare in quei verbi che, senza quasi farsi notare, scivolano dal corpo alla scena, dal gesto fisico all’intreccio sociale. “Beccare” è uno di questi. Nasce da un movimento piccolissimo - il colpo di becco di un uccello - e finisce con il dire cose che con il mangiare sembrano non c’entrare nulla: sorprendere qualcuno, coglierlo in fallo, oppure picchiare, assestare colpi, menare le mani. Eppure il filo è continuo: basta seguirlo attentamente e con pazienza, e il percorso “dal becco al ceffone” diventa limpido, quasi inevitabile.

Alla base c’è il sostantivo “becco”: il “naso duro” degli uccelli, lo strumento con cui afferrano, strappano, pungono, frugano. Il verbo “beccare” è prima di tutto l’azione tipica del becco: toccare e colpire a piccoli colpi secchi, rapidi, puntati. L’idea originaria non è quella del morso, lungo e avvolgente, ma quella del tocco-urto: un contatto che è già, in sé, una “piccola aggressione”. L’uccello “becca” il seme, il granello, la briciola; “becca” anche, se serve, un altro animale, un rivale, perfino la mano dell’umano che si avvicina troppo. Dal becco non si scappa: è preciso, mirato, arriva di scatto.

L’etimologia ci aiuta a fissare il quadro. “Becco” è attestato nelle lingue romanze come erede di un termine già circolante nel latino tardo (“beccus”), probabilmente di origine imitativa: un suono che riproduce la brevità del colpo, la secchezza del “tac”, “pic”, “bec”. Non siamo davanti a un lessema astratto, ma a una parola nata per dare forma a un rumore, a un gesto minimo del mondo animale. Da questo sostantivo concreto si forma il verbo “beccare”: fare col becco, cioè pungolare, colpire, prendere a piccoli tocchi qualcosa con il becco per mangiarla o spostarla. La base semantica, quindi, è: colpo + presa, tocco + “afferramento”.

Da qui è quasi naturale il primo allargamento di senso: “beccare” come “mangiare”, più o meno alla svelta, spesso con una sfumatura familiare. Se l’animale “becca” i chicchi, la gallina “becca” nel cortile, per analogia l’umano “becca qualcosa” da mangiare: “vado a beccare un panino”, “abbiamo beccato due tartine all’aperitivo”. È un mangiare che conserva dentro di sé il ritmo del becco: veloce, non necessariamente composto, fatto di piccoli assaggi svelti. Non si “beccano” banchetti solenni, ci si “becca” qualcosa al volo. In sottofondo rimangono l’idea del colpo ripetuto e quella della presa: si va verso ciò che si vuole, lo si afferra, lo si fa proprio.

A questo punto, dal mangiare si passa a un senso più ampio: “beccare” diventa “acchiappare”, “riuscire a ottenere”, “riuscire a prendere” qualcosa o qualcuno. Se il becco afferra il chicco, io “becco” un’occasione, “becco” un passaggio in macchina, “becco” un posto a sedere. Il nucleo semantico è sempre la riuscita del colpo: non solo mi muovo verso un bersaglio, ma lo centro. “Beccarlo” vuol dire coglierlo in pieno. È la precisione del becco che trasloca nella riuscita dell’azione umana.

Su questa linea si affaccia la prima delle accezioni che ci interessano: “beccare” nel senso di sorprendere, cogliere in fallo. “L’hanno beccato che copiava”, “l’hanno beccata con l’amante”, “mi hanno beccato senza biglietto”. Che cosa è rimasto del becco, qui? Il colpo improvviso, mirato, inevitabile. Chi viene “beccato” è colto all’improvviso, inchiodato come il chicco sotto il becco dell’uccello. Non ha il tempo di scappare, non può più dissimulare: è “preso”. La sorpresa non è un semplice vedere: è un vedere che cattura, che blocca, che non lascia scampo. Occhio e becco, qui, si sovrappongono: prima ti “puntano”, poi ti “prendono”.

In più c’è un’altra sfumatura: chi “becca” qualcuno che sbaglia, in certa misura lo colpisce. Non fisicamente, ma nella reputazione, nella libertà di movimento, nella finzione che stava reggendo. “Beccare uno in castagna” equivale a infliggergli un piccolo danno sociale: lo si mette a nudo, lo si espone, lo si mette alla gogna. Il becco, da organo che rompe il guscio del seme, diventa metafora di un’azione che rompe il guscio delle apparenze. L’idea di “sorprendere” si intreccia a quella di “ferire” o “colpire” l’altro nella sua “postura sociale”.

Da qui il passaggio alla seconda accezione, “picchiare”, è più corto di quanto possa sembrare. Se il becco colpisce, se la “beccata” è già un piccolo colpo fisico, portare il verbo nel campo della violenza fisica è quasi automatico. “Beccare uno schiaffo”, “beccare un pugno”, “beccarsi due legnate” sono espressioni che conservano due tratti fondamentali: il colpo è secco, improvviso, spesso inatteso; e chi lo riceve è, in qualche modo, passivo, lo “subisce”. “Mi sono beccato una sberla” porta con sé l’ombra del destino, della malasorte, della punizione.

Molto interessante è il doppio uso: “beccare” attivo (picchiare) e “beccarsi” riflessivo (prendere botte). “Se continui così, ti becchi uno schiaffo” mette l’accento sul colpo che parte: l’azione del becco, del pugno, della mano. “Ieri mi sono beccato un pugno” illumina invece la passività: sono stato il granello, non il becco. In ambi i casi l’immagine è quella di un urto netto, un “toc” preciso, non di una violenza prolungata e diffusa. “Beccare” non è torturare: è colpire secco, magari ripetutamente, ma con unità di colpi distinti, come le beccate di un gallo.

L’uso familiare e colloquiale del verbo amplifica poi il ventaglio dei colpi che si possono “beccare”: non solo schiaffi e pugni, ma anche malattie, sventure, rimproveri. “Mi sono beccato l’influenza”, “si è beccata una denuncia”, “ti becchi un bel quattro”. Ancora una volta la dinamica è la stessa: qualcosa arriva addosso e ti colpisce; non sei tu a sceglierlo, lo subisci. Qui la “botta” è metaforica, ma la logica del becco resta intatta: un contatto che è già un danno, un’improvvisa perdita di integrità (del corpo, della fedina penale, della media scolastica).

Se ci chiediamo, quindi, come si passa da “prendere con il becco, mangiare” a “sorprendere” e “picchiare” il percorso, tappa per tappa, appare lineare. Possiamo, dunque, riassumere il tragitto in cinque passaggi consecutivi:

  1. 1) Becco → organo che colpisce e afferra a colpi brevi e secchi.

    2) Beccare (originario) → colpire e prendere con il becco (mangiare, frugare).

    3) Beccare (per estensione) → afferrare qualcosa con successo (acchiappare, ottenere).

    4) Beccare qualcuno → coglierlo nel mirino e “prenderlo”, anche nel senso di sorprendere, inchiodare.

    5) Beccare / beccarsi → colpire fisicamente o subire un colpo (da cui “picchiare” e “prendere botte”).

Ogni passaggio conserva un nucleo semantico forte: la combinazione di precisione, improvvisazione e presa. Non si “becca” in modo vago: si becca un punto preciso, un attimo preciso, una persona precisa nel momento esatto in cui è scoperta o raggiunta dal colpo. Il valore di “sorprendere” sfrutta la dimensione del “presa in fallo”; il valore di “picchiare” sfrutta quella di “colpo secco che fa male”. Ambedue restano fedeli al gesto minuscolo del becco sul seme. 

In più, il registro basso e colloquiale del verbo permette questi slittamenti senza fratture: “beccare” si presta al sorriso, al racconto informale, al proverbio improvvisato. È un verbo che nasce vicino alla stalla, al cortile, al pollaio, e proprio per questo può sporcarsi le mani con scene quotidiane di litigi, scoperte, sfortune. Dal chicco alla ceffata, dalla mangiata al “ti becco”, la lingua non fa salti arbitrari: segue, con sorprendente coerenza, la traiettoria precisa, rapida e implacabile di un colpo di becco ben assestato.  




martedì 23 dicembre 2025

Profittare o approfittare? Il vantaggio ha due voci


 Nella lingua italiana basta una sillaba per spostare il baricentro etico di un’intera frase. È ciò che accade con profittare e approfittare, due sintagmi verbali che nel parlato quotidiano vengono spesso trattati come sinonimi perfetti, mentre nella loro struttura profonda custodiscono “intenzioni” molto diverse. Il primo guarda al progresso, il secondo all’occasione; il primo matura, il secondo afferra; il primo eleva, il secondo può anche mordere.

Profittare, dal francese profiter, è un sintagma che porta con sé l’idea di un vantaggio che non nasce dall’astuzia ma dalla crescita. È legato al concetto di profitto come frutto, giovamento, avanzamento: l’alunno profitta molto negli studi non implica alcuno sfruttamento, ma un percorso che dà risultati. Anche quando regge un complemento conserva un tono nobile e letterario: si profitta di un consiglio, di un esempio, di un’esperienza, sempre con l’idea di diventare migliori. È un verbo che non si appropria: si lascia... nutrire.

Approfittare, anch’esso di origine francese (approfiter), cambia natura per via di quel prefisso a‑ che indica direzione, movimento verso qualcosa. Non è un dettaglio: è proprio quell’‑a a trasformare il gesto. Qui il vantaggio non matura: si coglie nell’istante. Approfittare può essere un atto di prontezza: approfittiamo degli sconti per rinnovare l’attrezzatura della nostra imbarcazione, e in questo senso è un verbo luminoso, legato alla capacità di non lasciarsi sfuggire un’occasione favorevole. Ma è anche il verbo che più facilmente scivola nell’abuso: approfittare della bontà altrui non è un progresso, è una prevaricazione. La lingua, in questo caso, non è neutra: suggerisce un giudizio. Da qui la diffusione, molto spesso criticata dai puristi, della forma riflessiva approfittarsi di, che accentua ulteriormente la sfumatura negativa. Non esiste invece profittarsi: e non potrebbe esistere, perché profittare non “contiene” mai un gesto di appropriazione.

Per orientarsi con precisione, basta osservare le differenze d’uso: profittare ha una sfumatura etica prevalentemente positiva, guarda al risultato e al progresso, può essere usato assolutamente o con la preposizione di, e si presta a frasi come spero possiate profittare di queste note linguistiche. Approfittare, invece, oscilla tra neutralità e negatività, concentra il suo significato sull’occasione e sulla tempestività, regge stabilmente la preposizione di, e trova il suo esempio tipico in non vorrei approfittare della vostra pazienza.

La scelta tra i due sintagmi non è un dettaglio stilistico: è precisione semantica. Profittare indica un vantaggio che eleva; approfittare un vantaggio che si afferra e talvolta si impone. La lingua non giudica, ma orienta. Sta a noi profittarne con cura, senza mai approfittarcene.

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Cercare i nodi nel giunco

Nel nostro musicale idioma ci sono alcuni modi di dire che, pur avendo un’eleganza naturale e un’immagine vivida, sono stati lentamente soppiantati da espressioni più comuni. “Cercare i nodi nel giunco” appartiene a questa famiglia di perle linguistiche: un modo di dire antico, preciso, quasi poetico, che oggi sopravvive ai margini del parlato, pur meritando pienamente un ritorno in scena.

L’espressione significa andare a caccia di difficoltà inesistenti, intestardirsi nel trovare difetti dove non ce ne sono, complicare ciò che è semplice. Il senso figurato nasce dal giunco, pianta dal fusto liscio, flessibile e privo di nodi: cercarne uno è un’impresa impossibile, un esercizio di pignoleria fine a sé stessa. Non stupisce che il giunco abbia una presenza forte anche nella nostra tradizione letteraria. Dante, nel Purgatorio I, lo pone al centro del rito di umiltà che Catone impone al poeta: Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto. Il giunco è “schietto” proprio perché privo di nodi, flessibile, capace di piegarsi senza spezzarsi: un simbolo perfetto di umiltà e, indirettamente, della sua impossibilità di offrire appigli a chi cerca difetti dove non ce ne sono.

Anche Boccaccio, pur non citando il giunco, offre più volte ritratti di personaggi che incarnano lo stesso atteggiamento: cavillosi, puntigliosi, pronti a trovare mancanze immaginarie pur di mostrarsi più acuti degli altri. È un tratto che attraversa il Decameron, soprattutto nelle figure dei pedanti e dei sofisti, e che rende l’espressione “cercare i nodi nel giunco” sorprendentemente adatta anche al suo mondo narrativo.

Nell’uso quotidiano, il modo di dire funziona benissimo per smascherare chi si ostina a trovare problemi immaginari: «Il progetto è impeccabile, smettila di cercare i nodi nel giunco solo perché vuoi ritardare la consegna»; oppure: «Siamo stati benissimo, non capisco perché tu debba sempre cercare i nodi nel giunco e lamentarti del cameriere». In ambi i casi il giunco diventa il simbolo di una semplicità che qualcuno si ostina a incrinare.

Perché recuperarlo oggi? Perché è un’alternativa più elegante e colta rispetto al diffusissimo “cercare il pelo nell’uovo”. Quest’ultimo è efficace, certo, ma il giunco porta con sé un’immagine più morbida, naturale, quasi letteraria. È un’espressione che non solo comunica un concetto, ma lo fa con grazia, evocando un gesto inutile compiuto su una pianta che, per sua natura, non offre appigli. In un’epoca in cui il linguaggio tende a semplificarsi, riportare in vita locuzioni come questa significa restituire alla lingua di Dante e di Manzoni un po’ della sua ricchezza figurativa.







lunedì 22 dicembre 2025

Dire, disdire, incidere: l’arte dell’epanortosi – La correzione che non corregge: rafforza

 


C’è un momento, nella lingua, in cui la parola sembra fermarsi, ripensarsi, tornare indietro di un passo solo per affondarne due in avanti. È il momento in cui ciò che è stato appena detto si incrina, si corregge, si rilancia con una forza nuova: un gesto minuscolo e teatrale insieme, un ripensamento che non ripensa, una correzione che non corregge ma incide. È qui che nasce l’epanortosi, figura antica e sorprendentemente viva, capace di trasformare un’apparente esitazione in un colpo di precisione.

L’epanortosi, dunque, è una delle figure retoriche più raffinate e teatrali del nostro patrimonio linguistico. Deriva dal greco epanorthosis, “correzione”, composto da epi (“sopra”), ana (“indietro”) e orthoo (“raddrizzare”): un ritorno sulla parola appena detta per raddrizzarla, precisarla, attenuarla o, più spesso, rafforzarla. I latini la chiamavano correctio, ma la sostanza non cambia: non è un ripensamento autentico, sibbene un gesto consapevole, un artificio che finge l’incertezza per ottenere un effetto più netto.

L’epanortosi non nasce dall’errore, come accade nell’autocorrezione spontanea; nasce dalla volontà di guidare l’attenzione del lettore (o dell’ascoltatore) verso la parola “giusta”, quella che deve risuonare più forte. La prima espressione è un trampolino, la seconda è il punto d’arrivo. Per questo la figura può assumere sfumature diverse: talvolta potenzia un concetto sostituendo un termine con uno più incisivo - «È un errore, anzi, una vera follia!» -; talvolta attenua, smussando un giudizio troppo duro - «È un uomo poco onesto, o per meglio dire, talvolta distratto nel rispetto delle regole.»; talvolta simula un dubbio, come se l’autore cercasse la parola più autentica - «Ti amo; che dico? Ti adoro.» In tutti i casi, la correzione non è un ripiego: è  il "traguardo" del discorso.

Il nostro idioma dispone di “segnali” che introducono naturalmente questo movimento: anzi, o meglio, per meglio dire, che dico, volevo dire. Sono piccole soglie che preparano il lettore (o l'ascoltatore) al salto semantico, alla parola che sta per sopravvenire e che, proprio perché presentata come “corretta”, acquista un rilievo maggiore.

Gli esempi letterari mostrano quanto la figura possa essere potente. Catullo, nel Carme 77, usa l’epanortosi con una violenza emotiva che ancora oggi colpisce: «frustra? immo magno cum pretio atque malo» (“invano? anzi, con grande prezzo e male”). La prima parola viene annullata, la seconda affonda. Anche l’uso colto contemporaneo non rinuncia al gusto dell’epanortosi, che può diventare ironica, elegante, perfino maliziosa: «È un libertino; anzi, (per non urtare la sensibilità dei presenti) un frequentatore assiduo di amori prezzolati.» Qui la correzione finge di attenuare, ma in realtà amplifica, come spesso accade quando la lingua gioca con i registri.

La differenza con l’autocorrezione è netta: quest’ultima è un inciampo, un lapsus rimediato al volo; l’epanortosi è una strategia. Nell’autocorrezione si ripara un errore reale; nell’epanortosi l’errore è messo in scena. La parola “corretta” non è un’aggiunta: è la destinazione finale, il punto in cui il discorso voleva arrivare fin dall’inizio.

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La lingua “biforcuta” della stampa

Il scontro in autostrada paralizza il traffico

Maxi operazione contro i traficanti di opere d’arte

Il governo sono al lavoro sulla manovra

Grandinata improvvisa annunciata da giorni 




domenica 21 dicembre 2025

“Inaerare”: un nuovo verbo per l’aeromobile

 

Nel gergo aeroportuale italiano si continua a usare il verbo imbarcare, ereditato dal mare e perfettamente funzionale, ma non del tutto trasparente quando applicato all’aeromobile. L’atto di “mettere in barca” i passeggeri di un aereo è un’estensione semantica storica, non una scelta morfologicamente coerente con il mezzo. Da questa constatazione nasce la proposta di un verbo nuovo, nitido, regolare e immediatamente interpretabile: inaerare.

La formazione è limpida: il prefisso in-, nel valore locativo di “dentro”, si unisce al sostantivo aereo + la desinenza verbale -are, generando un verbo parasintetico perfettamente allineato ai modelli produttivi dell’italiano (inscatolare, intubare, infornare, imbussolare). Il significato si coglie al primo sguardo: inaerare significa “mettere dentro l’aereo”, cioè far salire i passeggeri a bordo di un aeromobile. La coniugazione è naturale, priva di inciampi fonetici, e il campo semantico è libero da collisioni: nessun altro verbo italiano occupa questo spazio.

L’uso risulta immediato anche in contesto operativo: «Tra pochi minuti inizieremo a inaerare i passeggeri del volo AZ 611»; «I viaggiatori con precedenza verranno inaerati per primi»; «L’inaeramento del volo è previsto dal varco E23»; «Il personale di terra ha già inaerato i bagagli speciali». La trasparenza morfologica, la coerenza semantica e la naturalezza d’uso fanno di inaerare un candidato credibile per sostituire, almeno nel dominio dell’aviazione civile, il tradizionale e improprio imbarcare.

inaerare v. tr. [der. di aereo, con il pref. in- nel valore locativo e la desinenza verbale -are]. – 1. Far salire persone, o stipare cose a bordo di un aeromobile; procedere alla salita a bordo dei passeggeri. 2. (estens.) Trasferire all’interno di un aereo merci, attrezzature o animali. – Part. pass. inaerato; inaeramento s. m.: «l’inaeramento del volo è previsto dal varco E23».


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La forza silenziosa del “diverso”


“D
iverso” non significa soltanto “non uguale”: è un sintagma che indica uno scarto, piccolo o grande, rispetto a qualcosa. Nel suo uso più comune equivale a “differente”: due persone possono avere idee diverse quando non coincidono, oppure due percorsi possono essere diversi se non conducono alla stessa meta.

Da questo nucleo nasce l’accezione estensiva in cui “diverso” vale “altro, di altro tipo”. Quando diciamo, per esempio, “vorrei un finale diverso”, non intendiamo una semplice variante, ma un esito che cambi davvero la direzione della storia; e quando invitiamo qualcuno a “guardare la situazione da un punto di vista diverso”, proponiamo un cambio di prospettiva, non un dettaglio ritoccato.

Nell’italiano contemporaneo è pienamente vivo anche l’uso quantitativo: “diversi” può significare “parecchi, vari”. Dire “ho letto diversi libri sull’argomento” o “ci sono diversi problemi da risolvere” non mette l’accento sulle differenze interne, ma sulla presenza di una pluralità concreta, non enorme ma nemmeno trascurabile.

“Diverso” può anche diventare sostantivo e indicare chi si discosta dalla norma sociale: “a scuola si sentiva un diverso”, frase che racconta un senso di marginalità o di non appartenenza. In altri contesti, lo stesso termine può essere rivendicato: “orgoglioso di essere diverso”.

Infine, “diverso” è spesso il segnale di uno scarto rispetto alle attese: “le cose sono andate in modo diverso da come pensavo” indica un cambio di rotta, un esito inatteso.

In tutte queste sfumature, la parola conserva un’idea centrale: qualcosa si sposta, devia, prende un’altra piega. Sta a chi parla (o scrive) decidere se quella distanza è lieve, marcata, neutra, problematica o liberatoria.

Le varie accezioni di diverso.





 











sabato 20 dicembre 2025

Il fluire e lo svuotare: la favola dei fratelli liquidi

 

C’erano una volta due fratelli, nati dallo stesso ceppo, ma con indole diversa. Il maggiore si chiamava Colare, e portava nel nome la sua origine: veniva dal latino “colare”, che a sua volta ricordava il “colum”, il colino che separa il limpido dall’impuro. Colare era contemplativo: amava scendere piano, goccia dopo goccia, come l’acqua dalle grondaie dopo un temporale o il sudore sulla fronte del cuoco. Ma sapeva anche farsi operoso: prendeva il colino e filtrava brodi, succhi, cere; e quando narrava le sue avventure nei tempi composti, mostrava la sua doppia anima con garbo. Se il protagonista era il liquido, parlava con Essere: “Il vino è colato tutta la notte”. Se, invece, protagonista era il contenitore, passava ad Avere: “La botte ha colato tutta la notte”. Così faceva comprendere che la voce del verbo cambia respiro a seconda di chi guida la scena: il fluire della sostanza, o l’azione del recipiente.

Il fratello minore si chiamava Scolare, e il suo nome, nato in casa italiana accanto a Colare, portava un prefisso sottile, una piccola “s-” che gli dava forza sottrattiva: togliere il liquido in eccesso, liberare, svuotare il superfluo. Scolare era pratico e deciso: rovesciava la pasta nel colapasta, lasciava scivolare via il bollore, sgocciolava i fagioli con pazienza, e talvolta, in compagnia, scolava una bottiglia fino all’ultima goccia. Per questo parlava sempre con Avere, raramente con Essere: “Ho scolato la pasta”, “Abbiamo scolato il vino”. Non si lasciava confondere con i processi spontanei: Scolare era azione, intenzione, mano ferma.

Una sera, al gran banchetto delle Parole, Colare raccontò di come il brodo fosse colato limpido attraverso il colino, mentre Scolare mostrò la pasta bene scolata, lucida e pronta al condimento. Gli ospiti capirono che i due fratelli, pur vicini, non erano sinonimi: uno narrava il fluire della sostanza - e sapeva scegliere tra Essere e Avere con misura -; l’altro celebrava l’atto volontario, e parlava con Avere, di rado con Essere.

Da quel giorno, chi incontrava Colare e Scolare imparava a distinguere tra ciò che scende e ciò che si fa scendere, tra il racconto del liquido e la mano che lo conduce. E la lingua, grazie a loro, risultava più completa: precisa come un colino, leggera come una goccia che trova la sua via.

Chi cola segue la natura, chi scola guida la mano: confonderli è perdere chiarezza.


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È proprio vero, la lingua, al contrario della matematica, è un’opinione. Una riprova? Ecco come tre vocabolari dividono in sillabe uno stesso termine: suicidio.
Dizionario Sabatini Coletti in rete: [sui-cì-dio]
Dizionario Gabrielli in linea: [sui-cì-di-o]
GRADIT: [su-i-ci-dio].
Tre vocabolari, tre versioni diverse, come avete visto.
Una persona sprovveduta in fatto di lingua non sa veramente come deve regolarsi.




venerdì 19 dicembre 2025

L’aggettivo ballerino: quando il posto cambia il senso

 

Nel lessico italiano la posizione dell’aggettivo non è mai neutra: collocarlo prima o dopo il sostantivo significa alterarne la sfumatura, il peso semantico, persino l’effetto stilistico. È un gioco sottile, ma decisivo, che permette di modulare il significato con eleganza e precisione. Non si tratta di un vezzo ornamentale, sibbene di una vera e propria strategia espressiva che affonda le radici nella tradizione letteraria e nella sensibilità comunicativa. Vediamo come “funziona”.

Quando l’aggettivo precede il sostantivo tende a caricarsi di un valore più soggettivo, valutativo, quasi emotivo. Dire “una straordinaria partecipazione” significa attribuire all’evento un’aura di eccezionalità percepita, un giudizio che nasce dall’impressione di chi parla. L’attributo, in questa posizione, si fa più vicino al tono dell’enfasi, della valutazione globale, e colora il sostantivo di un alone interpretativo. È come se il parlante dicesse: “Quella partecipazione mi appare straordinaria, la sento tale, la giudico tale”.

Quando invece l’aggettivo segue il sostantivo il suo valore si fa più oggettivo, descrittivo, quasi classificatorio. “Una partecipazione straordinaria” non è tanto un giudizio soggettivo, quanto la constatazione di un dato di fatto: la partecipazione è fuori dell’ordinario, superiore alla norma, e l’aggettivo  registra ciò con precisione. In questa posizione, l’aggettivo si avvicina al tono della constatazione, della misura, della definizione. È come se il parlante dicesse: “Quella partecipazione, per quantità o qualità, è straordinaria in senso tecnico”.

La distinzione, naturalmente, non è rigida: la lingua vive di sfumature e di contesti. La regola di fondo, tuttavia, rimane: prima del sostantivo l’aggettivo tende a esprimere un giudizio soggettivo, dopo il sostantivo tende a esprimere una qualità oggettiva. È un meccanismo che si ritrova in moltissimi casi: “un povero uomo” (valutazione compassionevole) non coincide con “un uomo povero” (descrizione economica); “un grande artista” (giudizio di valore) non coincide con “un artista grande” (descrizione fisica).

Questa mobilità dell’aggettivo è una delle tante ricchezze della nostra lingua: consente di giocare con le sfumature, di passare dall’enfasi alla precisione, dall’impressione al dato di fatto, senza cambiare parola ma solo spostandola. È un segreto di stile che ogni scrittore, giornalista o parlante consapevole può sfruttare per rendere più incisivo il proprio discorso. La posizione dell’aggettivo, insomma, è una leva sottile ma potentissima: basta spostarla di un passo per cambiare il respiro della frase.

 

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Dal cocchio al "coach": il traghettista delle parole


I
l termine coach è oggi familiare a chiunque segua lo sport o si muova nel mondo della formazione personale, ma la sua storia è sorprendente e affonda le radici in un contesto ben diverso. Il lessema vede la luce in Inghilterra, a metà Cinquecento, per indicare una grande carrozza coperta a quattro ruote, ma non nasce lì: deriva dal francese coche, dal tedesco kotsche, e risale all’ungherese kocsi szekér, cioè “carrozza di Kocs”, il villaggio ungherese noto per la produzione di veicoli robusti e veloci. Il cocchio era lo strumento che permetteva di trasportare qualcuno da un luogo all’altro, e proprio da questa immagine si sviluppò, nel linguaggio universitario inglese del XIX secolo, il senso figurato di coach: un insegnante privato che “traghettava” lo studente verso l’esame, accompagnandolo nel percorso di apprendimento.

Da qui il sintagma si è esteso dal campo educativo a quello sportivo. Nel mondo anglosassone coach è diventato l’allenatore, colui che guida la squadra, che prepara, che motiva. La semantica si è arricchita di sfumature: non solo chi insegna la tecnica, ma chi sostiene psicologicamente, chi orienta, chi consiglia, chi accompagna. Nel Novecento, con la diffusione planetaria dello sport professionistico, il termine ha varcato i confini linguistici ed è entrato stabilmente anche nella nostra lingua, dapprima come forestierismo legato al calcio e alla pallacanestro, poi come parola di moda in ambiti extragonistici. Oggi si parla di life coach, business coach, mental coach, e il vocabolo ha assunto un’aura quasi magica, richiamando la figura di un mentore che conduce verso il successo o la realizzazione personale.

Il percorso semantico è dunque chiaro: dalla carrozza al docente privato, dall’insegnante all’allenatore, dall’allenatore al mentore universale. Ogni passaggio conserva l’idea originaria del trasporto, del condurre qualcuno da un punto di partenza a un punto di arrivo. È proprio questa immagine che suggerisce la proposta di un neologismo italiano: traghettista. Il traghettista è colui che, metaforicamente in questo caso, porta da una riva all’altra, che accompagna nel passaggio, che assicura il transito. La parola restituisce in italiano l’immagine originaria di coach, liberandola dall’aura anglicizzante e riportandola a una figura concreta, familiare e potente.

Accogliere traghettista nel nostro vocabolario come alternativa al barbaro coach significherebbe ridare al nostro lessico la capacità di indicare con chiarezza e immediatezza un ruolo che non è solo tecnico, ma anche simbolico: quello di chi guida, sostiene e conduce. Così la carrozza di Kocs, passando per Oxford e per i campi da gioco, trova oggi una nuova riva nella lingua italiana, pronta a traghettare il senso verso il futuro.




 






giovedì 18 dicembre 2025

L’attimino che si allunga e svuota l’attimo

 

La lingua italiana ama la forma alterata dei sostantivi e degli aggettivi: la usa per addolcire, per rendere familiare, per smorzare. Ma non sempre il vezzeggiativo o il diminutivo sono “innocenti”. Prendiamo attimino, parola che sembra leggera, quasi tenera: nasconde, invece, un abuso quotidiano.

Un attimo è, per definizione, un tempo brevissimo, un lampo. Già di per sé è minimo, fugace, quasi impercettibile. Che senso ha, allora, ridurlo ulteriormente con un diminutivo? Un “attimino” non è più breve di un attimo: è un vezzo linguistico che svuota la parola della sua forza.

Il risultato è paradossale: chi dice “arrivo tra un attimino” raramente intende un tempo fulmineo. Al contrario, l’attimino si dilata, diventa un quarto d’ora, mezz’ora, un tempo indefinito. Il diminutivo, nato per rendere più piccolo, finisce col rendere più vago.

La lingua perde così la sua precisione. “Attimo” è netto, incisivo, quasi poetico. “Attimino” è molle, accomodante, un compromesso che non dice nulla. È come se la parola fosse stata anestetizzata.

Abbiamo alternative splendide:

  • Subito, quando si vuole indicare immediatezza.

    Tra poco, se si intende un intervallo breve ma concreto.

    Un momento, se si chiede una sospensione gentile.

Perché, dunque, rifugiarsi in un diminutivo che non diminuisce, ma confonde? Restituiamo all’attimo la sua dignità di lampo, di istante puro. Lasciamo che sia ciò che è: breve, intenso, irripetibile.

La lingua vive di chiarezza e di ritmo. Non lasciamola scivolare in vezzi che, invece di arricchirla, la rendono opaca, se non la ridicolizzano.


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La "sussurranza": il silenzio che parla


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l linguaggio non vive soltanto di parole pronunciate. Esiste una dimensione più sottile, fatta di segni, di presenze invisibili, di vibrazioni che non hanno voce ma che comunicano con forza. È in questo spazio che nasce sussurranza, termine che cattura la qualità di ciò che parla senza parlare, che trasmette senso senza bisogno di suono.

Il neologismo si costruisce su sussurro, voce bassa e discreta, e sul suffisso -anza, che indica qualità o condizione. Sussurranza è dunque la condizione del sussurrare, ma traslata dal piano fonico a quello simbolico: non il bisbiglio reale, bensì la sua aura comunicativa.

La sussurranza è la capacità di un elemento muto - vento, memoria, oggetto, paesaggio - di trasmettere un messaggio. È la comunicazione silenziosa che si percepisce più con l’anima che con l’orecchio. Non è rumore, non è parola: è presenza che si fa segno.

In Ovidio, il bosco che “mormora” accompagna la metamorfosi: la natura parla senza voce. In Leopardi, la “voce della natura” è sussurranza pura, un dialogo silenzioso con l’uomo. In Montale, il “male di vivere” si manifesta attraverso immagini mute: il rivo strozzato, la foglia secca (che comunicano senza dire).

Il vento che scuote le tende e sembra portare un messaggio, una fotografia che evoca ricordi senza bisogno di parole, il silenzio di una stanza vuota che “dice” più di mille discorsi, persino un oggetto dimenticato in tasca - un biglietto, una chiave - che parla di un passato senza voce: sono tutte forme di sussurranza quotidiana.

La sussurranza è la lingua segreta delle cose mute. È il vento che parla, la memoria che risponde, l’assenza che diventa presenza. In un mondo saturo di parole, essa ci ricorda che il silenzio può essere eloquente e che ciò che non ha voce, spesso, comunica più profondamente di ciò che grida.





 

mercoledì 17 dicembre 2025

Quando il vano diventa vuoto di senso

      L’evoluzione della lingua non si ferma mai: scorre, muta, si reinventa. Ma non per questo dobbiamo accettare ogni scivolone semantico come inevitabile. Ci sono parole che hanno radici chiare, precise, e che meritano rispetto. Una di queste è “vano”, abusato e trasformato in sinonimo di “stanza” o “locale” e lemmatizzato nei vocabolari dell’uso.

Così facendo, il linguaggio si appiattisce, perde colore, smarrisce la sua ricchezza. “Vano” nasce dal latino vānu(m), che significa “vuoto”, “inutile”, “privo di contenuto”. Da qui sono nati “sforzo vano”, “vanità”: termini che portano con sé l’idea di mancanza, di inconsistenza. Quando è entrato nel gergo dell’architettura “vano” ha conservato questa impronta originaria: uno spazio vuoto, una cavità, un’apertura. Non una stanza, dunque, ma un vuoto funzionale.

Ecco perché è corretto parlare di vano scala, vano ascensore, vano tecnico, vano finestra o vano porta. In tutti questi casi, il termine indica un’apertura, una nicchia, un contenitore predisposto a ospitare qualcosa. Ma quando leggiamo negli annunci immobiliari “appartamento composto da tre vani più servizi”, ecco che il vocabolo si piega, si snatura, diventa un’unità di misura asettica.

Il problema è evidente: “vano”, oltre tutto, è generico, “stanza” è specifico. Una stanza è un luogo abitato, vissuto, arredato; un vano, per sua natura, è vuoto. Dire “vano” al posto di “camera da letto” o “salotto” significa cancellarne la funzione, ridurlo a un guscio privo di vita. È un controsenso etimologico: se vano è vuoto, una stanza piena di oggetti e di significato è l’esatto contrario.

La lingua mette a nostra disposizione parole splendide: stanza, camera, locale, salone, ambiente. Perché rinunciarvi? Perché sacrificare la precisione sull’altare della pigrizia lessicale? È tempo di restituire dignità al linguaggio tecnico e professionale, di chiamare le cose con il loro nome.

Stanza quando si parla di spazi abitabili. Locale quando si vuole sottolineare la destinazione d’uso. Ambiente se si cerca una neutralità elegante. E “vano” resti dov’è nato: nelle aperture, negli spazi di servizio, nelle nicchie funzionali.

Il lessico vive di ritmo e di chiarezza. Non lasciamolo svuotare da parole che, per etimologia e funzione, non hanno nulla da dire in quel contesto.


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Ti vedo o vedo te? Il segreto dell’accento invisibile. Il suono che guida la grammatica, anche senza segni


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on tutte le grammatiche si soffermano su un dettaglio tanto semplice quanto decisivo: la distinzione tra pronomi personali atoni e tonici. Eppure è proprio lì che si nasconde l’accento invisibile, quello che “dà il tono” alla parola senza mai comparire sulla pagina. Capire questa differenza significa entrare nel cuore vivo della lingua, dove la scelta tra ti vedo e vedo te non è un capriccio stilistico, ma la chiave per padroneggiare la sfumatura tra funzione e espressione.

Molti testi scolastici trattano i pronomi personali in modo rapido, quasi sbrigativo, e non sempre distinguono con chiarezza tra forme atone e toniche. Eppure la differenza è sostanziale e incide direttamente sull’uso corretto della lingua. I pronomi atoni sono quelli privi di accento proprio, che si appoggiano al verbo e ne diventano parte integrante: mi vedi, ti scrivo, glielo porto. Non hanno autonomia fonetica e non possono essere adoperati isolatamente, ma svolgono funzioni essenziali come sostituire complementi diretti e indiretti, esprimere il riflessivo, combinarsi tra loro in costruzioni complesse.

I pronomi tonici, invece, hanno accento e autonomia: me, te, lui, lei, noi, voi, loro, sé. L’accento è detto tonico perché “dà il tono” alla parola, cioè ne porta la forza fonica, ma non si segna graficamente: si percepisce solo nella pronuncia. Proprio per questo i pronomi tonici si usano dopo preposizioni (con me, per loro), oppure quando si vuole dare enfasi o contrasto (parlo con te, non con lui). In certi casi sostituiscono gli atoni per ragioni di stile o di chiarezza, ma non possono mai fondersi con il verbo.

La distinzione è dunque sia fonetica sia sintattica: gli atoni sono “deboli” e legati al verbo, i tonici “forti” e indipendenti. Non tutte le grammatiche approfondiscono questo aspetto, eppure è proprio qui che si gioca la precisione dell’italiano: sapere quando dire ti vedo e quando dire vedo te significa padroneggiare la sfumatura tra uso funzionale e uso espressivo. Comprendere questa differenza permette di evitare improprietà e di sfruttare al meglio la ricchezza del nostro idioma, che offre strumenti sottili per distinguere tra semplice funzione grammaticale e intenzione comunicativa.

In fondo, la differenza tra ti vedo e vedo te non è solo grammaticale: è la prova che anche un accento invisibile può guidare il senso e la forza di ciò che diciamo.











martedì 16 dicembre 2025

Il ritorno che incanta: l’epanalessi - La figura retorica che trasforma la ripetizione in ritmo e memoria

 

Ci sono parole che non bastano dette una volta sola. Tornano, insistono, si ripetono: e proprio in quel ritorno acquistano potenza. L’epanalessi è la figura retorica che fa della ripetizione un’arma di ritmo e di memoria. Non è un vezzo, non è un errore: è la scelta di ribadire, di scolpire un termine nel discorso fino a renderlo indimenticabile.

Il nome viene dal greco epanálēpsis, “ripresa, ripetizione”. La sua funzione è semplice e insieme raffinata: riportare in scena una parola già detta, collocandola in punti strategici della frase (del discorso).

La forza di questa figura sta nella sua capacità di fissare un concetto. Dante, nel canto di Paolo e Francesca, ripete “Amor” come un ritornello che domina il passo. Foscolo invoca “O sera” più volte, trasformando la ripetizione in canto solenne. Montale insiste su “Non chiederci la parola”, e la ripresa diventa rifiuto, ostinazione, stile. Anche nel parlato quotidiano la figura è viva: “Mai dire mai”, “Piano piano”, “No, no, no”. La lingua comune conosce bene il potere del ritorno.

Usare l’epanalessi significa scegliere una parola chiave e farla risuonare più volte, senza paura di insistere. È un artificio che non va abusato: troppa ripetizione stanca. Ma quando compare, la ripresa imprime ritmo, musicalità, enfasi. È come un tamburo che batte due volte, e proprio nel secondo colpo si fa sentire davvero.

In conclusione, l’epanalessi è la figura del ritorno. La sua etimologia racconta la ripresa, il suo significato è la ripetizione che rafforza, la sua chiarezza sta nella semplicità del gesto, la sua efficacia nel rendere la lingua più incisiva, più ritmica, più memorabile. È un piccolo artificio che, se ben dosato, trasforma il discorso in canto e la parola in eco.