venerdì 5 dicembre 2025

Rompere le brocche: quando un tonfo manda all’aria i piani

 

«Quando si rompono le brocche non resta che il tonfo e il vuoto lasciato dai piani sfumati.» Così si apre un modo di dire (forse poco noto) che, nella sua forza visiva e sonora, racconta l’interruzione brusca di un discorso o di un’azione, il mandare all’aria i progetti, il chiudere di colpo una discussione o un affare.

 L’immagine nasce dal rumore improvviso e fastidioso provocato dalla rottura dei recipienti di terracotta, gesto che evoca un colpo secco capace di spezzare la continuità di ciò che stava accadendo. In alcune varianti regionali, come rompere le brenne (dove brenna indica anch’essa un recipiente di terracotta), l’espressione conserva la stessa potenza figurativa. 

Secondo alcuni, l’origine si lega a pratiche rituali in cui si faceva un gran baccano rompendo brocche o percuotendo oggetti di metallo e legno, per interrompere simbolicamente il raccoglimento liturgico o per esprimere una forma di rottura rituale, spesso associata all’ira collettiva o alla fine di una fase di attesa. Altri la interpretano come gesto di scherno, assimilabile al più noto fare chiasso, con l’intento di disturbare o ridicolizzare qualcuno.

Qualche esempio d’uso:

  • Eravamo sul punto di concludere l’accordo, ma il suo intervento improvviso ha finito col rompere le brocche: l’affare è sfumato.

    La riunione procedeva pacifica, finché una battuta fuori luogo ha rotto le brocche e tutti hanno cominciato a litigare.

    Avevamo organizzato la serata nei minimi dettagli, ma il suo ritardo ha rotto le brocche e il programma è saltato.

    Il dibattito politico stava per trovare un compromesso, quando una dichiarazione polemica ha rotto le brocche e ha fatto naufragare l’intesa.

    La compagnia teatrale era pronta a debuttare, ma un imprevisto tecnico ha rotto le brocche e lo spettacolo è saltato. 

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  • Esoterico ed essotericosi presti attenzione a questi due aggettivi perché spesso si confondono per la loro assonanza. Hanno origini e significati differenti, anzi opposti. Il primo significa “segreto”, “occulto”: dottrina esoterica; il secondo significa “pubblico”, “manifesto”, “destinato a tutti”: l’introduzione del testo è scritta in uno stile piacevole ed essoterico. Per l'etimologia dei due sintagmi aggettivali vedere qui e qui.



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giovedì 4 dicembre 2025

Autorimessa: la parola che custodisce l’auto e la lingua

 



Nel paesaggio lessicale italiano, alcune parole si distinguono per la loro trasparenza semantica: sono costruite in modo tale da raccontare, già nella loro forma, la funzione che svolgono. “Autorimessa” è una di queste. Il termine, apparentemente tecnico, racchiude in sé una logica compositiva limpida e una storia che affonda le radici nella lingua e nella cultura del trasporto.

“Autorimessa” è un composto che unisce il prefisso “auto-”, derivato dal greco autós (“sé stesso”), ma qui inteso come abbreviazione di “automobile” o “autoveicolo”, e il sostantivo “rimessa”, che proviene dal verbo “rimettere” nel senso di “riporre”, “mettere al riparo”, “ricoverare”. La rimessa*, infatti, era storicamente il luogo dove si custodivano carrozze, tram, mezzi agricoli: uno spazio di protezione e di sosta. L’unione dei due elementi genera un termine perfettamente descrittivo: autorimessa è, alla lettera, il “ricovero” per le automobili.

Accanto a questo lessema, squisitamente italiano, si è diffuso largamente l’uso del termine “garage”, prestito linguistico dal francese. “Garage” deriva dal verbo garer, che significa “riparare”, “mettere al sicuro”, “mettere al riparo” (in origine si riferiva anche alle navi). Il passaggio nel nostro lessico è stato fluido: “garage” è entrato nell’uso comune, soprattutto nel parlato urbano, ed è ormai accettato come sinonimo di “autorimessa”. Tuttavia, nei documenti ufficiali, nelle normative tecniche (come quelle antincendio) e nei contesti formali, “autorimessa” resta la scelta preferita, proprio per la sua precisione terminologica e la sua coerenza con la struttura della lingua.

La differenza tra i due sintagmi non è solo etimologica, ma anche culturale. “Autorimessa” è una parola italiana costruita per descrivere con esattezza una funzione; “garage” è un prestito che porta con sé un’aura più generica, più internazionale, talvolta più commerciale. Scegliere l’uno o l’altro significa anche posizionarsi rispetto alla lingua: privilegiare la trasparenza compositiva oppure accettare l’ibridazione (si perdoni il barbarismo) lessicale.

Per concludere queste noterelle, “autorimessa” è il termine che dice ciò che fa: ripone, protegge, custodisce. “Garage” è il termine che abbiamo adottato, ma che non abbiamo costruito. Ambi i vocaboli convivono nel nostro vocabolario, ma solo uno palesa, con chiarezza tutta italiana, la funzione che svolge: mettere al riparo la propria auto. E chi scrive lo predilige, come preferisce “rimessista” [da (auto)rimessa + il suffisso -ista] -  anche se non attestato nei vocabolari dell’uso -  a garagista.

Un’auto si custodisce in un'autorimessa, la lingua si custodisce nelle parole giuste.

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Tommaseo-Bellini: Rimessa, si dice anche Quella stanza dove si pone il cocchio, o carrozza. Buon. Fier. 2. 4. 15. (C) Dappoichè s'ha speranza Di riveder aprir botteghe e siti, Che chiusi stati sono, ed in rimesse Da cocchi e da carrozze convertiti. E 3. 4. 9. La casa abbiglia, e fa porte e rimesse Da cocchio. [G.M.] Segner. Quares. 13. 7. Calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse a incendere le carrozze. Fag. Rim. Con stalle, con cavalli e con rimesse.








mercoledì 3 dicembre 2025

Dar fondo a una nave di sughero

 

Un vecchio marinaio, che aveva solcato mari e tempeste, decise un giorno di cimentarsi in un’impresa singolare: dare fondo (affondare) a una nave di sughero. «Se il mondo dice che è impossibile, io lo proverò» pensava, convinto che la sua impresa potesse piegare persino la natura.

Costruì, dunque, una nave interamente di sughero, leggera e galleggiante. La spinse al largo e, con pietre e catene, cercò di affondarla. Ma ogni volta che la nave scendeva, tornava a galla, rendendo inutili i suoi sforzi. Più caricava pesi, più il sughero li respingeva, come se il mare stesso volesse insegnargli una lezione.

Gli abitanti del porto lo osservavano, divertiti e perplessi. «Che senso ha?» dicevano. «È come fare un buco nell’acqua» o «versare acqua nel mare». Tutti capivano che il vecchio marinaio stava sprecando energie in un’impresa vana.

Eppure, proprio grazie a quell’assurdo tentativo, il villaggio imparò a distinguere tra le azioni possibili e quelle destinate al fallimento. Da quel giorno, ogni volta che qualcuno si ostinava in un compito privo di logica, si diceva: «Sta dando fondo a una nave di sughero».

Così nacque un modo di dire raro e prezioso, meno frequente di altri ma più raffinato. Fare un buco nell’acqua rimase l’espressione comune, immediata e diffusa; versare acqua nel mare continuò a evocare la fatica inutile; ma dare fondo a una nave di sughero aggiunse un’immagine paradossale e memorabile, capace di arricchire il linguaggio di chi ama la varietà delle parole.

E ancora oggi il modo di dire trova applicazioni: convincere un “leader” inflessibile, insistere su un progetto senza risorse, tentare di bloccare un “meme” virale o di spegnere un “trend” (si perdoni l’uso dei barbarismi) con un comunicato tardivo… sono tutti esempi di imprese che non portano frutto, proprio come il vecchio marinaio che cercava di affondare ciò che per natura non può... affondare.




martedì 2 dicembre 2025

La diatesi: il respiro nascosto del verbo

 

Ogni verbo porta con sé un piccolo segreto: non dice soltanto che cosa accade, ma anche come il soggetto si colloca rispetto all’azione. È questa la funzione della diatesi, voce discreta ma essenziale della grammatica, che ci permette di distinguere se il soggetto agisce, subisce o si rivolge a sé stesso. Senza di essa, la frase perderebbe direzione e chiarezza, come un corpo privo di ossatura.

Il sintagma “diatesi” viene dal greco antico diáthesis, cioè “disposizione”. È un’immagine eloquente: la diatesi dispone il soggetto, lo colloca in una posizione precisa rispetto al verbo, e così organizza la frase. Non è un dettaglio tecnico, ma un meccanismo che consente di dare enfasi: vuoi mettere in risalto chi compie l’azione o chi la subisce? Vuoi mostrare un gesto che ritorna su chi lo compie? La diatesi è lo strumento che rende possibile questa scelta.

In italiano si distinguono tre forme fondamentali. La diatesi attiva è la più naturale: il soggetto è agente, colui che fa. “Il cuoco prepara la cena” è un esempio limpido: il cuoco agisce, la cena è l’oggetto. Anche nei verbi intransitivi, come “L’atleta corre”, il soggetto resta protagonista dell’azione. La diatesi passiva, invece, rovescia la prospettiva: il soggetto diventa paziente, subisce ciò che altri compiono. “La cena è preparata dal cuoco” mostra bene il meccanismo: la cena non fa nulla, ma riceve l’azione. La regola è chiara: solo i verbi transitivi possono assumere questa forma, costruita con l’ausiliare essere o venire più il participio passato. Infine, la diatesi riflessiva introduce un gioco di specchi: il soggetto è insieme agente e paziente, perché l’azione ricade su di lui. “Il bambino si lava” è un esempio tipico: il bambino compie l’azione e nello stesso tempo la subisce, grazie al pronome riflessivo che rimanda l’atto su chi lo ha iniziato.

Ma la storia della diatesi non si ferma qui. Nelle grammatiche antiche, soprattutto greche, si parlava anche di una forma “media”, in cui il soggetto partecipa all’azione con un coinvolgimento particolare, spesso a proprio vantaggio. È una sfumatura che in italiano si riflette talvolta nelle costruzioni riflessive o reciproche. Esiste poi un fenomeno curioso e tipicamente italiano: il cosiddetto si passivante, che permette di rendere una frase impersonale o passiva senza nominare l’agente. Dire “Si vendono libri antichi” equivale a “I libri antichi sono venduti”, ma con un tono più neutro e diffuso. Anche la terminologia rivela differenze culturali: in inglese si parla di voice, cioè “voce”, mentre in italiano si preferisce “diatesi”, che sottolinea la disposizione del soggetto.

La diatesi, insomma, non è soltanto un’etichetta grammaticale: è un modo di leggere il mondo. Pensiamo alla differenza tra dire “Io ho scelto” e “Sono stato scelto”: cambia la prospettiva, cambia il ruolo del soggetto, cambia perfino la percezione di responsabilità. Oppure, nel riflessivo, “Mi sono convinto”: qui il soggetto diventa protagonista di un processo che lo riguarda intimamente. La diatesi, insomma, non è un artificio astratto, ma un dispositivo che plasma il senso delle frasi e la loro forza comunicativa.

Per riconoscerla basta porsi una domanda semplice: cosa fa il soggetto in questa frase? Se agisce, siamo nella diatesi attiva; se subisce, nella passiva; se l’azione torna su di lui, nella riflessiva. È un criterio pratico che illumina la struttura della lingua e ci ricorda che ogni verbo non è mai neutro, ma porta con sé una precisa disposizione del soggetto. La diatesi, insomma, è il respiro nascosto del verbo: ordina, chiarisce, dà fluidità al discorso e ci permette di cogliere la sottile danza tra chi fa e chi subisce, tra chi agisce e chi si riflette, tra chi si mostra e chi si nasconde dietro la voce impersonale.

La diatesi è la bussola del verbo: senza di essa il soggetto si smarrisce, con essa trova la sua posizione.

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Avere i rostri al naso


I
n un villaggio di mare si racconta di un ragazzo che portava sul volto un segno singolare: il suo naso pareva armato di punte, come i rostri delle antiche navi romane. Quei rostri, dal latino rostrum -  becco, muso, ma soprattutto sperone bronzeo che serviva a speronare le navi nemiche - diventavano sul suo volto un simbolo di carattere. Non era cattivo, ma quando qualcuno lo provocava avanzava con il naso in avanti, pronto a colpire non con i pugni, bensì con parole taglienti e fermezza ostinata.

Gli anziani, che ricordavano le flotte romane e i loro rostri, cominciarono a dire che quel ragazzo “aveva i rostri al naso”. Da allora l’espressione non indicò più soltanto lui, ma chiunque mostrasse un atteggiamento combattivo e pungente. Così, nel villaggio si sentiva dire: “Non discutere con Marta: oggi ha i rostri al naso”, oppure “Quel giornalista scrive con i rostri al naso, non risparmia nessuno”. E ancora: “Quando si sente minacciato, tira fuori i rostri al naso e non c’è verso di fermarlo.”

La locuzione, nata come immagine narrativa, con il tempo si è "trasformata" in un modo di dire non molto conosciuto, ma capace di designare con forza chi affronta la vita con il volto armato, pronto a speronare ostacoli e avversari. È un’espressione che conserva il sapore antico delle navi romane e lo trasporta nel linguaggio quotidiano, offrendo una metafora incisiva per descrivere caratteri spigolosi e combattivi.















QUI, per scaricarlo gratuitamente


lunedì 1 dicembre 2025

Il gerundio, l’arte di fare scorrere le frasi

 

Il gerundio è uno dei sintagmi verbali più affascinanti e al tempo stesso più frainteso della nostra lingua. Spesso relegato a un uso marginale o addirittura stigmatizzato nelle scuole elementari, dove si insegnava che non andava mai posto all’inizio di una frase, esso merita invece di essere riscoperto nella sua ricchezza e nella sua funzione autentica. Il gerundio, infatti, non è un vezzo stilistico né un errore di costruzione: è una forma viva, utile e perfettamente legittima, che accompagna il discorso con sfumature di continuità, simultaneità e modalità.

La sua origine risale al latino gerundium, derivato dal verbo gerere (“portare, compiere”), e indicava un modo verbale usato per esprimere l’idea di un’azione in corso o necessaria. Nell’italiano contemporaneo il gerundio conserva questa impronta: è la forma verbale che, più di tutte, suggerisce un’azione che si svolge mentre un’altra avviene, oppure che ne specifica la modalità. È, insomma, il tempo della contemporaneità e della connessione.

Il significato del gerundio è chiaro: serve a legare due azioni senza bisogno di congiunzioni esplicite, creando un flusso naturale e scorrevole. Dire, per esempio, “camminando per la città, ho incontrato un vecchio amico” significa che l’incontro è avvenuto mentre si camminava, e la frase risulta compatta, elegante, priva di ridondanze. È proprio questa capacità di condensare e di rendere fluido il discorso che fa del gerundio uno strumento prezioso.

Il suddetto sintagma verbale (gerundio) si costruisce con la radice del verbo seguita dalla desinenza -ando (per i verbi della prima coniugazione) e -endo (per la seconda e la terza). Può essere semplice (“parlando”, “scrivendo”) o composto (“avendo detto”, “essendo partito”), e si adopera per esprimere:

  • la contemporaneità: Stava leggendo ascoltando la musica;

    la modalità: Ha risolto il problema pensando con calma;

    la causa o la condizione: Non avendo studiato, non superò l’esame.

È importante sottolineare, in proposito, che non esiste alcuna “legge grammaticale” che vieti/a di cominciare una frase con il gerundio. L’idea che fosse un errore nasce da un approccio scolastico semplificato, volto a evitare costruzioni complesse nei primi anni di apprendimento. In realtà, aprire una frase con il gerundio è non solo corretto, ma spesso efficace: “Passeggiando lungo il fiume, mi venne in mente una poesia” è una costruzione limpida e perfettamente legittima. 

Il gerundio, dunque, non è un intruso né un vezzo da evitare: è una forma che arricchisce la lingua, che permette di intrecciare le azioni e di rendere il discorso più naturale. Riscoprirlo significa liberarsi da vecchi pregiudizi scolastici e restituire al parlato e allo scritto una delle sue risorse più duttili e scorrevoli. In fondo, è proprio “adoperandolo” che se ne comprende la forza. 

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Mettersi in lista di calza… 

 ... vale a dire "indugiare", "prendere tempo", "rimandare continuamente" un compito, un lavoro o un pagamento.

L'espressione deriva dal mestiere dei calzettai (coloro che lavoravano a maglia le calze) e si riferiva all'atto di "mettere in lista" una commessa di lavoro (una calza da fare). Era un modo per far capire al cliente che c'era una lunga fila di lavori da eseguire prima del suo, indicando un'attesa lunga e indefinita.

Insomma, "mettersi in lista di calza" significava "mettersi in coda per molto tempo" o, in senso figurato, "tenere in sospeso": quel progetto è fermo da mesi; temo che il capo l'abbia messo in lista di calza.