C’è un fascino particolare in quei verbi che, senza quasi farsi
notare, scivolano dal corpo alla scena, dal gesto fisico
all’intreccio sociale. “Beccare” è uno di questi. Nasce da un
movimento piccolissimo - il colpo di becco di un uccello - e finisce
con il dire cose che con il mangiare sembrano non c’entrare nulla:
sorprendere qualcuno, coglierlo in fallo, oppure picchiare,
assestare colpi, menare le mani. Eppure il filo è continuo:
basta seguirlo attentamente e con pazienza, e il percorso “dal
becco al ceffone” diventa limpido, quasi inevitabile.
Alla base c’è il sostantivo “becco”: il “naso duro”
degli uccelli, lo strumento con cui afferrano, strappano, pungono,
frugano. Il verbo “beccare” è prima di tutto l’azione tipica
del becco: toccare e colpire a piccoli colpi secchi, rapidi,
puntati. L’idea originaria non è quella del morso, lungo e
avvolgente, ma quella del tocco-urto: un contatto che è già, in sé,
una “piccola aggressione”. L’uccello “becca” il seme, il
granello, la briciola; “becca” anche, se serve, un altro animale,
un rivale, perfino la mano dell’umano che si avvicina troppo. Dal
becco non si scappa: è preciso, mirato, arriva di scatto.
L’etimologia ci aiuta a fissare il quadro. “Becco” è
attestato nelle lingue romanze come erede di un termine già
circolante nel latino tardo (“beccus”), probabilmente di origine
imitativa: un suono che riproduce la brevità del colpo, la secchezza
del “tac”, “pic”, “bec”. Non siamo davanti a un lessema
astratto, ma a una parola nata per dare forma a un rumore, a un gesto
minimo del mondo animale. Da questo sostantivo concreto si forma il
verbo “beccare”: fare col becco, cioè pungolare, colpire,
prendere a piccoli tocchi qualcosa con il becco per mangiarla o
spostarla. La base semantica, quindi, è: colpo + presa, tocco +
“afferramento”.
Da qui
è quasi naturale il primo allargamento di senso: “beccare” come
“mangiare”, più o meno alla svelta, spesso con una sfumatura
familiare. Se l’animale “becca” i chicchi, la gallina “becca”
nel cortile, per analogia l’umano “becca qualcosa” da mangiare:
“vado a beccare un panino”, “abbiamo beccato due tartine
all’aperitivo”. È un mangiare che conserva dentro di sé il
ritmo del becco: veloce, non necessariamente composto, fatto di
piccoli assaggi svelti. Non si “beccano” banchetti solenni, ci si
“becca” qualcosa al volo. In sottofondo rimangono l’idea del
colpo ripetuto e quella della presa: si va verso ciò che si vuole,
lo si afferra, lo si fa proprio.
A questo punto, dal mangiare si passa a un senso più ampio:
“beccare” diventa “acchiappare”, “riuscire a ottenere”,
“riuscire a prendere” qualcosa o qualcuno. Se il becco afferra il
chicco, io “becco” un’occasione, “becco” un passaggio in
macchina, “becco” un posto a sedere. Il nucleo semantico è
sempre la riuscita del colpo: non solo mi muovo verso un bersaglio,
ma lo centro. “Beccarlo” vuol dire coglierlo in pieno. È la
precisione del becco che trasloca nella riuscita dell’azione umana.
Su questa linea si affaccia la prima delle accezioni che ci
interessano: “beccare” nel senso di sorprendere, cogliere in
fallo. “L’hanno beccato che copiava”, “l’hanno beccata con
l’amante”, “mi hanno beccato senza biglietto”. Che cosa è
rimasto del becco, qui? Il colpo improvviso, mirato, inevitabile. Chi
viene “beccato” è colto all’improvviso, inchiodato come il
chicco sotto il becco dell’uccello. Non ha il tempo di scappare,
non può più dissimulare: è “preso”. La sorpresa non è un
semplice vedere: è un vedere che cattura, che blocca, che non lascia
scampo. Occhio e becco, qui, si sovrappongono: prima ti “puntano”,
poi ti “prendono”.
In più c’è un’altra sfumatura: chi “becca” qualcuno che
sbaglia, in certa misura lo colpisce. Non fisicamente, ma nella
reputazione, nella libertà di movimento, nella finzione che stava
reggendo. “Beccare uno in castagna” equivale a infliggergli un
piccolo danno sociale: lo si mette a nudo, lo si espone, lo si mette
alla gogna. Il becco, da organo che rompe il guscio del seme, diventa
metafora di un’azione che rompe il guscio delle apparenze. L’idea
di “sorprendere” si intreccia a quella di “ferire” o
“colpire” l’altro nella sua “postura sociale”.
Da qui il passaggio alla seconda accezione, “picchiare”, è
più corto di quanto possa sembrare. Se il becco colpisce, se la
“beccata” è già un piccolo colpo fisico, portare il verbo nel
campo della violenza fisica è quasi automatico. “Beccare uno
schiaffo”, “beccare un pugno”, “beccarsi due legnate” sono
espressioni che conservano due tratti fondamentali: il colpo è
secco, improvviso, spesso inatteso; e chi lo riceve è, in qualche
modo, passivo, lo “subisce”. “Mi sono beccato una sberla”
porta con sé l’ombra del destino, della malasorte, della
punizione.
Molto interessante è il doppio uso: “beccare” attivo
(picchiare) e “beccarsi” riflessivo (prendere botte). “Se
continui così, ti becchi uno schiaffo” mette l’accento sul colpo
che parte: l’azione del becco, del pugno, della mano. “Ieri mi
sono beccato un pugno” illumina invece la passività: sono stato il
granello, non il becco. In ambi i casi l’immagine è quella di un
urto netto, un “toc” preciso, non di una violenza prolungata e
diffusa. “Beccare” non è torturare: è colpire secco, magari
ripetutamente, ma con unità di colpi distinti, come le beccate di un
gallo.
L’uso familiare e colloquiale del verbo amplifica poi il
ventaglio dei colpi che si possono “beccare”: non solo schiaffi e
pugni, ma anche malattie, sventure, rimproveri. “Mi sono beccato
l’influenza”, “si è beccata una denuncia”, “ti becchi un
bel quattro”. Ancora una volta la dinamica è la stessa: qualcosa
arriva addosso e ti colpisce; non sei tu a sceglierlo, lo subisci.
Qui la “botta” è metaforica, ma la logica del becco resta
intatta: un contatto che è già un danno, un’improvvisa perdita di
integrità (del corpo, della fedina penale, della media scolastica).
Se ci chiediamo, quindi, come si passa da “prendere
con il becco, mangiare” a “sorprendere” e “picchiare” il
percorso, tappa per tappa, appare lineare. Possiamo, dunque,
riassumere il tragitto in cinque passaggi consecutivi:
1) Becco → organo che colpisce e
afferra a colpi brevi e secchi.
2) Beccare (originario) → colpire e prendere con il becco
(mangiare, frugare).
3) Beccare (per estensione) → afferrare qualcosa con successo
(acchiappare, ottenere).
4) Beccare qualcuno → coglierlo nel mirino e “prenderlo”,
anche nel senso di sorprendere, inchiodare.
5) Beccare / beccarsi → colpire fisicamente o subire un colpo (da
cui “picchiare” e “prendere botte”).
Ogni passaggio conserva un nucleo semantico forte: la combinazione
di precisione, improvvisazione e presa. Non si “becca” in modo
vago: si becca un punto preciso, un attimo preciso, una persona
precisa nel momento esatto in cui è scoperta o raggiunta dal colpo.
Il valore di “sorprendere” sfrutta la dimensione del “presa in
fallo”; il valore di “picchiare” sfrutta quella di “colpo
secco che fa male”. Ambedue restano fedeli al gesto minuscolo del
becco sul seme.
In più, il registro
basso e colloquiale del verbo permette questi slittamenti senza
fratture: “beccare” si presta al sorriso, al racconto informale,
al proverbio improvvisato. È un verbo che nasce vicino alla stalla,
al cortile, al pollaio, e proprio per questo può sporcarsi le mani
con scene quotidiane di litigi, scoperte, sfortune. Dal chicco alla
ceffata, dalla mangiata al “ti becco”, la lingua non fa salti
arbitrari: segue, con sorprendente coerenza, la traiettoria precisa,
rapida e implacabile di un colpo di becco ben assestato.