Ogni
verbo porta con sé un piccolo segreto: non dice soltanto che
cosa accade, ma anche come il soggetto si colloca
rispetto all’azione. È questa la funzione della diatesi, voce
discreta ma essenziale della grammatica, che ci permette di
distinguere se il soggetto agisce, subisce o si rivolge a sé stesso.
Senza di essa, la frase perderebbe direzione e chiarezza, come un
corpo privo di ossatura.
Il sintagma “diatesi” viene dal greco antico diáthesis,
cioè “disposizione”. È un’immagine eloquente: la diatesi
dispone il soggetto, lo colloca in una posizione precisa rispetto al
verbo, e così organizza la frase. Non è un dettaglio tecnico, ma un
meccanismo che consente di dare enfasi: vuoi mettere in risalto chi
compie l’azione o chi la subisce? Vuoi mostrare un gesto che
ritorna su chi lo compie? La diatesi è lo strumento che rende
possibile questa scelta.
In italiano si distinguono tre forme fondamentali. La diatesi
attiva è la più naturale: il soggetto è agente, colui che fa. “Il
cuoco prepara la cena” è un esempio limpido: il cuoco agisce, la
cena è l’oggetto. Anche nei verbi intransitivi, come “L’atleta
corre”, il soggetto resta protagonista dell’azione. La diatesi
passiva, invece, rovescia la prospettiva: il soggetto diventa
paziente, subisce ciò che altri compiono. “La cena è preparata
dal cuoco” mostra bene il meccanismo: la cena non fa nulla, ma
riceve l’azione. La regola è chiara: solo i verbi transitivi
possono assumere questa forma, costruita con l’ausiliare essere
o venire più il participio passato. Infine, la diatesi
riflessiva introduce un gioco di specchi: il soggetto è insieme
agente e paziente, perché l’azione ricade su di lui. “Il bambino
si lava” è un esempio tipico: il bambino compie l’azione e nello
stesso tempo la subisce, grazie al pronome riflessivo che rimanda
l’atto su chi lo ha iniziato.
Ma la storia della diatesi non si ferma qui. Nelle grammatiche
antiche, soprattutto greche, si parlava anche di una forma “media”,
in cui il soggetto partecipa all’azione con un coinvolgimento
particolare, spesso a proprio vantaggio. È una sfumatura che in
italiano si riflette talvolta nelle costruzioni riflessive o
reciproche. Esiste poi un fenomeno curioso e tipicamente italiano: il
cosiddetto si passivante, che permette di rendere una frase
impersonale o passiva senza nominare l’agente. Dire “Si vendono
libri antichi” equivale a “I libri antichi sono venduti”, ma
con un tono più neutro e diffuso. Anche la terminologia rivela
differenze culturali: in inglese si parla di voice, cioè
“voce”, mentre in italiano si preferisce “diatesi”, che
sottolinea la disposizione del soggetto.
La diatesi, insomma, non è soltanto un’etichetta grammaticale: è un modo
di leggere il mondo. Pensiamo alla differenza tra dire “Io ho
scelto” e “Sono stato scelto”: cambia la prospettiva, cambia il
ruolo del soggetto, cambia perfino la percezione di responsabilità.
Oppure, nel riflessivo, “Mi sono convinto”: qui il soggetto
diventa protagonista di un processo che lo riguarda intimamente. La
diatesi, insomma, non è un artificio astratto, ma un dispositivo che
plasma il senso delle frasi e la loro forza comunicativa.
Per riconoscerla basta porsi una domanda semplice: cosa fa il
soggetto in questa frase? Se agisce, siamo nella diatesi attiva; se
subisce, nella passiva; se l’azione torna su di lui, nella
riflessiva. È un criterio pratico che illumina la struttura della
lingua e ci ricorda che ogni verbo non è mai neutro, ma porta con sé
una precisa disposizione del soggetto. La diatesi, insomma, è il
respiro nascosto del verbo: ordina, chiarisce, dà fluidità al
discorso e ci permette di cogliere la sottile danza tra chi fa e chi
subisce, tra chi agisce e chi si riflette, tra chi si mostra e chi si
nasconde dietro la voce impersonale.
La diatesi è la bussola del verbo: senza di essa il soggetto
si smarrisce, con essa trova la sua posizione.
***
Avere
i rostri al naso
In un villaggio di mare si racconta di un ragazzo che portava sul
volto un segno singolare: il suo naso pareva armato di punte, come i
rostri delle antiche navi romane. Quei rostri, dal latino rostrum
- becco, muso, ma soprattutto sperone bronzeo che serviva a
speronare le navi nemiche - diventavano sul suo volto un simbolo di
carattere. Non era cattivo, ma quando qualcuno lo provocava avanzava
con il naso in avanti, pronto a colpire non con i pugni, bensì con
parole taglienti e fermezza ostinata.Gli anziani, che ricordavano le flotte romane e i loro rostri,
cominciarono a dire che quel ragazzo “aveva i rostri al naso”. Da
allora l’espressione non indicò più soltanto lui, ma chiunque
mostrasse un atteggiamento combattivo e pungente. Così, nel
villaggio si sentiva dire: “Non discutere con Marta: oggi ha i
rostri al naso”, oppure “Quel giornalista scrive con i rostri al
naso, non risparmia nessuno”. E ancora: “Quando si sente
minacciato, tira fuori i rostri al naso e non c’è verso di
fermarlo.”
La locuzione, nata come immagine narrativa, con il tempo si è "trasformata" in un modo
di dire non molto conosciuto, ma capace di designare con forza chi
affronta la vita con il volto armato, pronto a speronare ostacoli e
avversari. È un’espressione che conserva il sapore antico delle
navi romane e lo trasporta nel linguaggio quotidiano, offrendo una
metafora incisiva per descrivere caratteri spigolosi e combattivi.
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