domenica 30 novembre 2025

Quando i sensi colgono, la mente accoglie

 

Nella lingua italiana esistono coppie di verbi che, a un primo sguardo, sembrano sovrapponibili, ma che in realtà custodiscono sfumature di significato ben distinte. È il caso di percepire e recepire, due sintagmi che spesso vengono confusi, ma che appartengono a campi semantici differenti e non possono essere usati come sinonimi senza rischiare di alterare il senso di ciò che si vuole esprimere. Comprendere questa distinzione non è un esercizio di pedanteria, bensì un modo per rispettare la precisione e la ricchezza della nostra lingua.

Percepire, dal latino percipere, è un verbo che si lega direttamente ai sensi e all’intuizione. Significa avvertire una realtà esterna attraverso stimoli sensoriali: si percepisce un rumore, un odore, una luce. Ma non si limita al piano fisico: può indicare anche una comprensione sottile, quasi intuitiva, di una sensazione o di un atteggiamento, come percepire un’ostilità o una sfumatura nel discorso. Inoltre, in un ambito più concreto, percepire significa anche ricevere denaro, come nel caso dello stipendio o di un vitalizio. È dunque un verbo che oscilla tra il mondo dei sensi, quello dell’interiorità e quello della materialità economica.

Recepire, dal latino recipere, si colloca, invece, in un ambito diverso: quello dell’accoglienza, dell’assimilazione e dell’adozione. Si recepisce una norma, una direttiva, un’idea. In ambito giuridico, il verbo indica l’atto di far proprio un contenuto proveniente da un’altra autorità, come quando il parlamento recepisce una direttiva europea. Ma recepire può anche significare comprendere e assimilare un messaggio, cioè afferrarne il senso e interiorizzarlo. È un verbo che richiama dunque un movimento di accoglienza e di integrazione, più che di percezione sensoriale.

Il punto di lieve sovrapposizione tra i due verbi si trova nell’area della comprensione di un messaggio. Si può percepire un’intenzione, cogliendone la sottigliezza o l’impressione che suscita, e si può recepire un contenuto, facendolo proprio e accettandolo. Ma la differenza resta netta: percepire è legato all’impressione e alla sensibilità, recepire all’adozione e all’assimilazione. Non si può dunque usare l’uno al posto dell’altro: si percepisce un profumo, ma si recepisce una legge. 

Per rendere più chiara questa distinzione, immaginiamo una scena di comunicazione quotidiana. Durante una riunione, un collega espone un progetto con voce esitante. Gli altri partecipanti percepiscono la sua insicurezza, colgono cioè attraverso tono e gestualità un’impressione sottile che non è esplicitata nelle parole. Al tempo stesso, recepiscono il contenuto della proposta, lo assimilano e lo fanno proprio per discuterne e valutarne la fattibilità. In questo breve episodio si vede come i due verbi possano convivere nello stesso contesto, ma restando fedeli ciascuno al proprio ambito: la percezione riguarda l’impressione sensibile, la recezione riguarda l’accoglienza del contenuto.

Si percepisce ciò che colpisce i sensi, si recepisce ciò che convince la mente.


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 "Meretrofilo", l’alternativa dotta a un volgare inaccettabile


I
l lessico italiano, pur ricchissimo di sfumature e registri, mostra talvolta delle lacune che diventano imbarazzanti quando si tratta di definire con precisione fenomeni sociali diffusi. È il caso dell’uomo che abitualmente frequenta le prostitute: nel parlato comune si ricorre al termine irricevibile di puttaniere, parola che appartiene a un registro basso e volgare, inadatta a contesti giornalistici, saggistici o a dibattiti di livello. In assenza di un sintagma appropriato, si ricorre in locuzioni descrittive e ridondanti come cliente delle prostitute o frequentatore di meretrici, locuzioni che appesantiscono il discorso e non restituiscono la necessaria chiarezza.

Per colmare questo vuoto lessicale chi scrive propone l’introduzione del neologismo meretrofilo (sostantivo maschile), costruito secondo regole di formazione dotta e con trasparenza semantica immediata. Nasce dall’unione di meretricio (dal latino meretrix, ‘prostituta’) e del suffisso greco -filo (phílos, ‘amante di’), e designa in maniera esatta e non dispregiativa “colui che ha una predilezione per il meretricio e per chi lo esercita”. A differenza di formazioni ambigue o di volgarismi, meretrofilo si colloca nel solco di termini dotti come bibliofilo o pedofilo, garantendo precisione e neutralità.

L’adozione di meretrofilo consentirebbe di elevare il dibattito, offrendo uno strumento linguistico chiaro, rispettoso e di registro alto. Un termine che permette di nominare senza offendere, di descrivere senza scadere nel triviale, e di restituire alla lingua italiana l’attenzione che merita.

meretròfilo s. m. (f. -a)

[comp. di meretrice e -filo]

  1. Chi mostra abituale inclinazione o predilezione per le prostitute; sinon. colto di puttaniere.

  2. In senso estens., chi manifesta attrazione o simpatia verso l’ambiente della prostituzione.

Uso: neologismo di formazione dotta, con tono letterario; meno trasparente nel registro colloquiale, dove prevale puttaniere (volg.). Può ricorrere in contesti giornalistici, satirici o linguistici.






sabato 29 novembre 2025

Dal cuore alla mente, passando per le membra: viaggio nei verbi del ricordo

La nostra bella e cantabile lingua, con la sua stratificazione di registri e sfumature, offre spesso coppie o terne di verbi che sembrano sinonimi perfetti, ma che in realtà custodiscono differenze sottili e preziose. È il caso dei sintagmi ricordare e rammentare, due verbi che nella stragrande maggioranza dei contesti d’uso si equivalgono, ma che, se osservati con una “lente di ingrandimento filologica”, rivelano origini diverse e suggestioni etimologiche capaci di illuminare il loro impiego letterario e stilistico.

Ricordare deriva dal latino re- (“di nuovo”) e cor (“cuore”), e significa letteralmente “riportare al cuore”. In questa radice si avverte la dimensione affettiva e sentimentale che accompagna il ricordo: non un mero atto mnemonico, ma un’esperienza che coinvolge la sensibilità, le emozioni, la memoria vissuta. Non a caso ricordare è oggi il verbo più diffuso e comune, adoperato in ogni registro linguistico, dal quotidiano al formale, per indicare qualsiasi richiamo alla memoria, sia esso un nome dimenticato o un evento significativo.

Rammentare, invece, nasce anch’esso dal prefisso re- ma si lega al sostantivo latino mens (“mente”), e significa “riportare alla mente”. La sua etimologia lo colloca in una sfera più intellettuale e cognitiva, legata al recupero dei dati e delle informazioni. Pur essendo perfettamente intercambiabile con ricordare, rammentare ha una sfumatura di maggiore formalità, un tono leggermente più alto, accentuato dalla sua minore frequenza d’uso rispetto al più popolare ricordare e al suo pronominale ricordarsi.

La distinzione tra i due verbi, dunque, non incide sulla correttezza sintattico-grammaticale né sulla comprensibilità, ma si gioca sul piano stilistico ed etimologico: ricordare è il verbo del cuore e dell’uso comune, rammentare è il verbo della mente e di un registro più elevato. Una differenza di sfumatura, non di significato, che arricchisce la tavolozza espressiva della lingua.

Per completezza, vale la pena menzionare anche rimembrare, verbo raro e quasi esclusivamente poetico, derivato da membra (“le parti del corpo”). Rimembrare richiama un ricordo profondo, che si avverte quasi fisicamente, e trova la sua massima espressione nella tradizione letteraria, come nei versi di Giacomo Leopardi. È il verbo che porta il ricordo nel corpo, oltre che nel cuore e nella mente, e che suggella la triade con una nota di incanto poetico.

Così – e concludiamo queste noterelle - tra cuore, mente e membra, la lingua italiana ci consegna tre modi di nominare il ricordo: quotidiano e affettivo; formale e intellettuale; poetico e corporeo. Una ricchezza che non è solo sinonimica, ma che riflette la profondità con cui la nostra tradizione ha saputo pensare e sentire la memoria.

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Scioperare: dal latino all’Ottocento, il verbo che diventa protesta


L
o sciopero dei giornalisti, che sospendono per un giorno il flusso delle notizie, ci offre l’occasione di guardare più da vicino al verbo scioperare. Non è soltanto un gesto sociale, ma anche una parola che porta con sé una lunga storia linguistica.

Il verbo scioperare affonda le radici nel latino exoperare, “smettere di lavorare”, costruito su opĕra (“lavoro”) con il prefisso ex- che indica cessazione. Già in forme antiche come scioprare si ritrova l’idea di interrompere l’attività. Ma è nell’Ottocento, epoca di grandi trasformazioni sociali e di nascita delle prime organizzazioni di lavoratori, che il sostantivo sciopero si consolida nel suo significato moderno di astensione collettiva dal lavoro per rivendicare diritti e condizioni migliori. Da quel momento, il verbo scioperare si carica di una valenza civile e politica che va ben oltre la semplice inattività.

Oggi scioperare non significa soltanto “non lavorare”: implica una scelta consapevole, un atto condiviso che trasforma l’inattività in protesta. La lingua, con la sua memoria etimologica e storica, ci ricorda che dietro ogni parola c’è un percorso di trasformazioni: dal latino alla pratica sociale, passando per l’Ottocento delle lotte operaie, fino al presente, dove il verbo continua a vibrare di tensione civile e collettiva. 

Una curiosità sullo sciopero. Anche qui.

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Quando parliamo o scriviamo adoperiamo, probabilmente inconsciamente, dei gallicismi che in buona lingua italiana sono da evitare (anche se attestati nei vocabolari dell'uso). Ce ne vengono alla mente due, in particolare: decisamente e in definitiva. Il primo termine è un avverbio che sta per “in maniera decisiva, risolutiva”. Dov’è il gallicismo? Nell’uso dell’avverbio nell’accezione di indubbiamente, proprio, certamente, senza dubbio, totalmente e simili: hai decisamente ragione; quella ragazza è decisamente brutta. Negli esempi l’avverbio decisamente va sostituito con indubbiamente, proprio (secondo i casi). La locuzione 'in definitiva' è da evitare perché ricalca il francese “en définitive”. In buon italiano abbiamo altre espressioni, c’è solo l’imbarazzo della scelta: in fin dei conti, alla fin fine, tutto sommato, in conclusione, insomma e simili da usare, ovviamente, secondo il contesto.

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La lingua “biforcuta” della stampa

Il racconto

Danimarca, i “Guardiani della notte” che sorvegliano le minacce di Trump sulla Groenlandia

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Ci piacerebbe tanto sapere come si possa “sorvegliare” una minaccia.




venerdì 28 novembre 2025

Dire è già “così”: il resto è errore

 

Nella lingua di Dante e di Manzoni la precisione non è un “lusso” ma una necessità: ogni parola porta con sé un peso semantico e un valore sintattico che non può essere trascurato. Spesso, per abitudine o per fretta (o per ignoranza?), si inseriscono – nello scritto e nel parlato - espressioni ridondanti che non aggiungono nulla al senso, anzi lo confondono. Tra queste, una delle più insidiose è la locuzione “ha detto così…”, ossia l’uso errato di “così” dopo il verbo “dire”: “ha detto così il direttore di dare la precedenza agli articoli di cultura”. Una formula apparentemente innocua, ma in realtà scorretta e fuorviante.

Il verbo “dire” deriva dal latino dicere, che significa “pronunciare, esprimere a parole, enunciare”. È un verbo transitivo che regge direttamente il complemento oggetto: si dice qualcosa, non si dice “così qualcosa”. L’avverbio “così”, dal latino eccum sic (“ecco in questo modo”), ha la funzione di qualificare un’azione o un modo, non di introdurre un contenuto. Serve a indicare modalità, non a presentare un discorso o uno scritto.

Quando si afferma “ha detto così il direttore…”, si crea un cortocircuito sintattico: l’avverbio “così” non ha alcun referente, non specifica alcun modo, e rimane sospeso, privo di funzione. È un’aggiunta pleonastica che disturba la linearità della frase. La forma corretta è semplicemente: “ha detto il direttore di dare la precedenza agli articoli di cultura”. In questo caso, il verbo “dire” introduce direttamente il contenuto, senza bisogno di intermediari.

L’errore nasce, probabilmente, da un calco orale, da quella tendenza colloquiale a inserire “così” come riempitivo, un po’ come si fa con “tipo” o “insomma”. Ma la lingua scritta, soprattutto quella giornalistica o istituzionale, non può permettersi simili scivolamenti. Il “così” in questa costruzione non solo è inutile, ma è errato: non qualifica nulla, non chiarisce nulla, non aggiunge nulla.

Sotto il profilo etimologico è interessante notare come “così” abbia mantenuto nei secoli la sua funzione di avverbio di modo. Già nei testi medievali lo troviamo per indicare “in tal maniera”: “così parlò il maestro”, “così si fece”. In questi casi l’avverbio è legittimo perché introduce o riprende un modo di dire o di fare. Ma quando lo si inserisce tra il verbo “dire” e il complemento oggetto si spezza la logica della frase. È come se volessimo dire “ha detto in questo modo il direttore di dare la precedenza…”, ma senza che vi sia un confronto o un paragone con altri modi. La frase resta monca e appesantita da un elemento che non ha ragione d’essere.

La lingua, per sua natura, tende alla chiarezza e alla economia: ogni parola deve avere una funzione. Eliminare il “così” in casi come questo non è una scelta stilistica, ma un dovere grammaticale. È un ritorno alla linearità latina, dove il verbo introduce direttamente il contenuto, senza avverbi superflui.

Dire è già “così”: aggiungere “così” è un errore che confonde il senso e tradisce la precisione.

 La parola è come la freccia: una volta scoccata non torna indietro.  

 

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Parla come mangi: la lingua è pane quotidiano


L
a lingua (o il linguaggio), come il cibo, vive di semplicità. L’espressione “parla come mangi” nasce dall’idea che ciò che è genuino non ha bisogno di artifici: un piatto buono si riconosce dagli ingredienti chiari e sinceri, così come un discorso efficace si riconosce dalle parole dirette e comprensibili. Questo modo di dire, diffuso nella tradizione italiana, è una reazione alla retorica eccessiva e ai tecnicismi che rendono la comunicazione opaca. È un invito a parlare con naturalezza, senza complicazioni inutili, proprio come si mangia un pane fragrante o una pasta condita con semplicità.

In un Paese dove il cibo è parte integrante dell’identità culturale, non sorprende che la cucina diventi metafora del linguaggio. “Parla come mangi” celebra la stessa virtù che si riconosce al pane: la chiarezza. È un motto che ricorda come la lingua debba nutrire, essere accessibile e condivisibile, senza escludere nessuno. Oggi la locuzione si adopera per ammonire chi si esprime con parole troppo sofisticate, ma anche come monito quotidiano: la comunicazione migliore è quella che arriva a tutti, senza filtri e senza maschere.

In fondo, parlare come si mangia significa restituire alla lingua la sua funzione primaria: essere strumento di incontro, di scambio e di comunità. Così come il cibo unisce attorno a una tavola, le parole semplici uniscono attorno a un pensiero.






giovedì 27 novembre 2025

La fine silenziosa del correttore di bozze

 

Per decenni il correttore di bozze è stato il custode invisibile della parola scritta. Non compariva mai in prima fila, non firmava articoli né editoriali, ma la sua impronta era ovunque: nei titoli privi di refusi, nelle pagine curate fino all’ultima virgola, nella credibilità che un giornale poteva vantare davanti ai suoi lettori. Era un mestiere paziente e meticoloso, fatto di occhio allenato e di rigore filologico.

Con l’avvento dei sistemi digitali, tra gli anni ’80 e ’90, la figura del correttore cominciò a perdere terreno. Gli editori, spinti dalla necessità di ridurre i costi e accelerare i tempi di produzione, decisero di affidare la revisione direttamente ai redattori. Questi ultimi, già gravati dal compito di scrivere e impaginare, si trovarono a dover controllare testi in condizioni di urgenza continua. La logica industriale del “fare presto” ebbe la meglio sulla cura artigianale: il correttore di bozze fu progressivamente eliminato, sostituito da "software" di controllo ortografico (quasi sempre non "affidabili") e da procedure interne meno rigorose.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I titoli che scivolano, i refusi che trapelano, gli strafalcioni che diventano virali sui "social": piccoli incidenti linguistici che, accumulandosi, minano la reputazione delle testate. Non si tratta solo di errori di ortografia: spesso emergono sviste sintattiche, improprietà lessicali, persino confusioni logiche che un occhio esperto avrebbe intercettato.

La scomparsa del correttore di bozze è anche la scomparsa di un certo modo di intendere il giornalismo: quello che considerava la precisione linguistica parte integrante della notizia da comunicare. Oggi, la sua assenza è percepita soprattutto da chi vigila con attenzione filologica, e la sua figura appare quasi mitologica, simbolo di un’epoca in cui la parola stampata era trattata come un bene prezioso, da proteggere e custodire.

Dove manca il correttore, la lingua perde il suo guardiano silenzioso.

Da un giornale in rete:

L’etargo degli orsi si accorcia: colpa del clima

C’è n’è per tutti: il Black Friday invade i negozi  




mercoledì 26 novembre 2025

Quando il sapere inciampa nella scrittura

 


S
crivere bene non significa soltanto padroneggiare le regole della grammatica o conoscere la storia della lingua: significa anche riuscire a trasformare con naturalezza il pensiero in segno grafico, senza esitazioni. Eppure, chiunque abbia frequentato le aule universitarie o i contesti professionali sa che non sempre la scrittura scorre liscia: anche persone colte, persino laureati in Lettere, possono ritrovarsi a commettere errori ortografici che sembrano stonare con la loro preparazione. Questa discrepanza tra sapere teorico e pratica quotidiana ha un nome preciso, che affonda le sue radici nella medicina il cui significato è stato "trasportato" nella tradizione linguistica: disortografia.

Sotto il profilo etimologico, il termine unisce il prefisso greco dis- (“alterazione, difficoltà”) a orthographía (da orthós, “retto, corretto”, e gráphein, “scrivere”). Il significato letterale è “scrittura non corretta”, ma non indica l’errore isolato: segnala una fragilità dell’automatismo grafico, cioè del passaggio regolare dal suono al segno. La competenza teorica può essere piena; ciò che vacilla è l’esecuzione rapida, soprattutto in contesti di pressione, velocità o discontinuità dell’attenzione.

La scrittura procede di norma attraverso due vie complementari: la fonologica, che traduce suoni di parole nuove o poco familiari in grafemi, e la lessicale, che recupera dalla memoria l’ “immagine ortografica” delle parole note. Quando l’automatismo di queste vie è instabile, affiorano errori tipici: omissioni o inserzioni indebite, raddoppiamenti mancati, confusione di grafemi contigui, improprietà di accenti e apostrofi, incertezze nella univerbazione e nelle grafie tradizionali. Esempi realistici: “apena” per “appena” (raddoppiamento omesso), “senonché” per “sennonché” (nesso nn semplificato), “ovverossia” per “ovverosia” (suffisso alterato), “pressapoco” reso impropriamente in maiuscolo come “PRESSAPOCO” e con una sola p, “delinguente” per “delinquente” (omissione del nesso qu), oppure l’uso improprio, anzi errato, della q al posto della c (“quore” per “cuore”). Sono scivolamenti che non derivano da ignoranza, ma da un automatismo fragile, che può tradire anche chi padroneggia la grammatica storica e la filologia.

Questi errori non nascono da povertà di conoscenza, bensì da un automatismo grafico incerto. Il soggetto può “sapere” la regola e tuttavia non applicarla con prontezza nel flusso della scrittura: la distanza tra consapevolezza ed esecuzione si manifesta proprio nei punti opachi dell’ortografia italiana (raddoppiamenti, nessi tradizionali come qu, suffissi storici, univerbazioni). In ambienti di scrittura rapida e informale, inoltre, la tolleranza all’errore aumenta e gli automatismi non vengono rinforzati: abbreviazioni, maiuscole fuori contesto, grafie improvvisate diventano abitudini che disturbano la tenuta ortografica.

Riconoscere la disortografia come difficoltà linguistica, non come stigma culturale, ha conseguenze pratiche ed editoriali: si valorizza la competenza metalinguistica, si separa la valutazione del contenuto dall’automatismo grafico, si istituiscono fasi di controllo coerenti (rilettura dedicata alla forma, attenzione ai nessi opachi, verifica mirata di raddoppiamenti, accenti e univerbazioni). La scrittura matura non rimuove la complessità dell’ortografia: la orchestra, la rende trasparente al lettore evitando che il giudizio si confonda con l’errore occasionale.

In conclusione, la disortografia è la traccia linguistica di un automatismo che fatica a stabilizzarsi. Non marchia l’autore come impreparato, né smentisce la sua autorevolezza analitica: segnala piuttosto una zona di vulnerabilità nella conversione suono/segno. Comprenderla e gestirla con lucidità permette di tenere alto il livello del discorso e, insieme, di rafforzare la tenuta ortografica: la conoscenza resta intatta; l’esecuzione si affina. 

Insomma, non è la conoscenza a vacillare, ma la sua traduzione rapida in segno. Così l’errore non incrina il sapere: rivela soltanto la fragilità del gesto.

 

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Pubblichiamo una lettera inviataci da un cortese lettore, che desidera rimanere anonimo. Lo ringraziamo di cuore.

Il blog "Lo SciacquaLingua"! È un blog italiano molto interessante che si occupa di lingua italiana, etimologia, grammatica e comunicazione. È gestito da Fausto Raso, appassionato di lingua e comunicazione.

Il blog offre articoli e riflessioni sulla lingua italiana, con un approccio divertente e accessibile a tutti. Gli argomenti trattati sono vari, dalla grammatica alla storia delle parole, dalle curiosità linguistiche alle critiche alla comunicazione moderna.

Il blog è noto per il suo stile ironico e umoristico, che rende la lingua italiana un argomento di discussione piacevole e stimolante. È un ottimo punto di partenza per chi vuole scoprire di più sulla lingua italiana e migliorare la propria comunicazione.

Se ti interessa la lingua italiana, "Lo SciacquaLingua" è sicuramente un blog da seguire!



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)




martedì 25 novembre 2025

Dove il suono si sposta e il male si estende

 

La nostra lingua, come tutte quelle di lunga tradizione, custodisce lessemi che portano con sé la memoria del greco e del latino. Alcuni di questi, per la loro somiglianza fonetica, rischiano di confondere anche chi ha buona dimestichezza con il lessico. È il caso di metastasi e metatesi: due parole che condividono la radice meta- (“oltre, cambiamento”), ma che divergono radicalmente per significato e campo d’applicazione. La prima appartiene al linguaggio medico e porta con sé il peso di una condizione patologica; la seconda è un fenomeno linguistico che racconta la naturale mobilità dei suoni - o delle lettere - nelle parole. Confonderle non è solo un errore di “precisione linguistica”: significa mescolare ambiti che non hanno nulla in comune, facendo perdere, così, la ricchezza che ciascun lessema custodisce.

Metastasi deriva dal greco metástasis, da methistánai (“spostare, trasferire”), ed è composta da meta- e stásis (“stato, posizione”). In medicina indica la diffusione di cellule tumorali dalla sede primaria ad altri organi, con la formazione di nuove lesioni. L’etimologia conserva l’idea di “spostamento” e “cambiamento di sede”, che in ambito clinico si traduce in una propagazione della malattia.

Metatesi, pure, è di origine greca, metáthesis, da meta- e thésis (“collocazione, disposizione”), ma con un campo semantico del tutto diverso. In linguistica designa lo scambio di posizione di suoni o lettere all’interno di una parola. È un fenomeno naturale, spesso inconsapevole, che può generare varianti dialettali, forme popolari o errori comuni. Alcuni esempi:

La metatesi non è un errore “patologico”: è un processo fonetico che accompagna l’evoluzione delle lingue e che spesso si cristallizza nelle forme ufficiali. Pensiamo a miracolo, che deriva dal latino miraculum, ma che nel volgare ha conosciuto varianti come maraviliameraviglia, con scambi e slittamenti di suoni.

La differenza è netta: la metastasi è un andamento clinico di grande gravità; la metatesi è un fenomeno linguistico che racconta la vitalità e la trasformazione delle parole. La loro somiglianza fonetica ci inganna e ci induce in errore. Occorre prestare molta attenzione, dunque.

Metastasi è migrazione di cellule; metatesi è migrazione di suoni (di lettere): l’una segna la malattia, l’altra la meraviglia mutevole del nostro melodioso idioma.

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C’erano due lettere, la R e la L, che litigavano sempre per chi dovesse stare davanti, finché un giorno decisero di scambiarsi di posto: nacque così una parola nuova, più facile da dire e più dolce da ascoltare. Da allora il popolo ripeté quella forma, e l’antica cadde nell’oblio, perché la lingua segue l’orecchio e ciò che suona meglio resta. Le lettere che si scambiano di posto insegnano che l’errore di ieri è la regola di domani, e la storia stessa ce lo conferma: basti pensare a “miracolo”, dal latino miraculum, che in alcune aree d’Italia si trasformò per metatesi in “maraviglia”, fissandosi poi in letteratura, come in Dante. Così la metatesi non è soltanto un gioco fonetico, ma un piccolo incanto che trasforma l’uso quotidiano in norma, e talvolta la norma in poesia.






domenica 23 novembre 2025

Sgroi – 219 - “QUALCUN ALTRO” (senz’apostrofo) o “QUALCUN’ALTRO” (con apostrofo)?

 


di Salvatore Claudio Sgroi


1. Evento televisivo

Nella trasmissione (bisettimanale) di RAI-1 di domenica 23 nov. 8h35, “Pronto soccorso linguistico" del programma “Unomattina in famiglia”, il presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille, a un quesito sulla grafia del sintagma <qualcun(’) altro> con o senza apostrofo, ha risposto che la forma corretta è <qualcun altro> senz’apostrofo perché qualcuno è formato da “qualche + uno”, e uno dinanzi a vocale non comporta l’apostrofo (trattandosi di troncamento) es. un amico, diversamente dal femm. una (un’amica). Stessa analisi nel caso di nessun altro. Il criterio alla base della norma corretto/sbagliato è quindi etimologico e implicitamente (cfr. più avanti) che si tratta della grafia maggioritaria.


2. Elisione vs troncamento

La grafia con apostrofo (giudicata scorretta) si spiega perché il parlante invero percepisce qualcuno (e nessuno) come un’unica parola e quindi nel sintagma <QUALCUN ALTRO> attiva l’elisione (cancellazione della vocale /o/ dinanzi a vocale). E non si tratta di troncamento perché nessuno dice *qualcun felice” ma “qualcuno felice”.

Nel caso invece di UN ALTRO si tratta di troncamento (cancellazione della vocale /o/ dinanzi a consonante) perché nessuno dice *uno ragazzo, *uno uomo, ma un ragazzo, un uomo, mentre nel caso di UN’ALTRA si tratta di elisione (es. una ragazza, un’altra).

La grafia senz’apostrofo <qualcun altro> si spiega a sua volta col fatto che nell’uso letterario toscano si diceva <qualcun di noi> con troncamento.


3. Qualcun altro (senz’apostrofo): grafia letteraria e dominante

Rispetto alla grafia non apostrofata <qualcun altro>, la variante apostrofata <qualcun'altro> è invece decisamente minoritaria (cfr. i precedenti interventi n. 60 “Perché <qualcun altro> sì, ma <qualcun'altro> no?”, domenica 19 aprile 2020; n. 177 “Qualcun altro” sì, ma “qualcun’altro” (con apostrofo) perché no?”, lunedì 22 aprile 2024; n. 131 “Regole, norme ed eccezioni, a proposito dell’apostrofo”, lunedì 6 giugno 2022).

Stando alla BIZ [Biblioteca Italiana Zanichelli] 2010, ricca di quasi 1000 titoli della letteratura italiana nell'arco di 8 secoli la stringa <qualcun altro> appare in 71 documenti.

Nel Primo Tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento di T. De Mauro ben 114 sono occorrenze di <qualcun altro> in 47 opere di romanzieri del Premio Strega dal 1947 al 2006, con un solo es. di <qualcun'altro> in Stanislao Nievo 1987:

"qualcun’altro poteva intervenire con grave pregiudizio di chi aveva fatto il primo passo" (Le isole del paradiso, p. 46).


4. Qualcun’altro (con apostrofo) in “Google libri ricerca avanzata” (2000-2025)

In “Google libri ricerca avanzata" nel periodo 2000-2025, solo 20 sono gli ess. con l'apostrofo, giusto i seguenti:


(i) 2001 : “sentiti da qualcun'altro, ossia che qualcun’altro abbia delle sensazioni che effettivamente localizza lì” (“Rivista di estetica”, vol. 41, Edizioni 16-18, p. 81; in altri due ess. pp. 17, 78 senza apostrofo).

(ii) Ludovico Gatto 2002: “qualcuno provocherà una ferita alla testa di qualcun’altro” (Il Medioevo nelle sue fonti, Monduzzi, p. 135, con due altri ess. senza apostrofo pp. 69, 134)

(iii-vi) Giulio Cesare Giacobbe 2004, 2012: “...qualcun'altro il problema del proprio ben’essere e della propria felicità. Dipende sempre da qualcun’altro, il bambino dipende sempre da qualcun’altro. Non importa chi sia quel qualcun'altro, ma una cosa è certa: deve essere sempre lo stesso e deve stare sempre a sua disposizione” (Alla ricerca delle coccole perdute. Una psicologia rivoluzionaria per il single e la coppia, Ponte alle Grazie).

(vii) Claudio Azzara, Stefano Gasparri 2005: "Se qualcuno presta semplicemente una sua arma ad un altro e quello che l'ha ricevuta fa del male a qualcun’altro con essa [...]" (Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, La Storia, p. 91; con due ess. peraltro senza apostrofo pp. 27 e 61).

(viii-ix) Silvano Calvetto 2006: “qualcun’altro si dedica principalmente alle attività di interesse collettivo”; “qualcuno sceglie la Resistenza armata, qualcun’altro la collaborazione con l’occupante” (L'educatore Pietro: il commissario politico come figura, Tirrenia Stampatori, pp. 66, 86).

(x-xi) Luciano Ballabio, Giorgio Fabbri, Francesco Senese 2010: "Qualcuno sussurra a bocca chiusa Eine kleine Nachtmusik di Wolfang Amadeus Mozart e qualcun’altro Time dei Pink Floyd, qualcuno l'attacco delle Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi e qualcun’altro When The Saints Go Marching In di Louis Armstrong" (Come un'orchestra. Fare musica insieme per crescere insieme, Milano, FrancoAngeli-Le Comete, p. 223).

(xii-xiii) Charles Dickens 2011: "Dopo di ciò, quel giorno, sul volto di Luisa s'aprì un sorriso per qualcun’altro diverso dal fratello. Qualcun'altro, ahimè!" (Tempi difficili, Newton, trad. integr.).

(xiv) Judy Weiser 2013 (orig. canadese 1999): "È probabile che questo genere di commenti suoni familiare a chiunque abbia mai provato a scattare una fotografia a qualcun'altro" (FotoTerapia. Tecniche e strumenti per la clinica e gli interventi sul campo, FrancoAngeli, p. 227; ma poco dopo un es. senz'apostrofo).

(xv-xvi) Fabio Celvini 2014 II ed. : "Lì incontri qualcun'altro e riparti dopo il caffè e la sigaretta. All'uscita dell'autostrada trovi qualcun’altro ed il rombo dei motori si fa ancora più forte" (Malato di Moto. Scritti evolutivi del motociclista anormale, cap. 15).

(xvii-xviii) Luca Clun 2014: "Se questa cosa qualcun’altro può farla, allora puoi farla anche tu? (La Fisica del Cambiamento, Bruno Editore, con un secondo es.).

(xix) Nieves García Bautista 2015: "Entrambi erano d'accordo che era normale conoscere altre persone e perfino innamorarsi, ma in quel momento a nessuno dei due sembrava possibile riuscire ad amare qualcun'altro" (L'amore profuma di caffè, on line).

(xx) Aeadem: "Doveva riconoscere che l'idea che Cayetana s'innamorasse di qualcun’altro non gli piaceva" (ibid.).


5. Grafia univerbata <qualcunaltro>

Colpisce poi per la sua rarità la grafia univerbata di Italo Calvino 1950 <qualcunaltro> nel citato Primo Tesoro:

"qualcunaltro che veniva a dire qualcosa, qualcosa che spiegasse" (Ultimo viene il corvo, p. 99).

Analoga occorrenza era stata peraltro anticipata da Carlo Dossi 1868:

"Ogni uomo è il guancialino da spilli di qualcunaltro" (L'altrieri, Panche di scuola, 4, cpv 20, BIZ).


6. Tre <norme ortografiche>

In conclusione, possiamo distinguere tre diverse <Norme ortografiche> (tutte corrette) per il sintagma fonologico /qualcun altro/:

<Norma ortografica-1> con apostrofo da elisione: <qualcun'altro>, erroneamente giudicata errata perché minoritaria, ma invero corretta, perché presente in scritti di autori colti.

<Norma ortografica-2> senz'apostrofo da troncamento toscano letterario: <qualcun altro>, la sola riconosciuta come corretta nella lessicografia, e maggioritaria in scritti di autori colti.

<Norma ortografica-3> univerbata da elisione: <qualcunaltro>, letteraria e rara.


SOMMARIO

1. Evento televisivo

2. Elisione vs troncamento

3. Qualcun altro (senz’apostrofo): grafia letteraria e dominante

4. Qualcun’altro (con apostrofo) in “Google libri ricerca avanzata” (2000-2025)

5. Grafia univerbata <qualcunaltro>

6. Tre <norme ortografiche>



















Altre pubblicazioni di Salvatore Claudio Sgroi:

Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante, Torino, Utet 2010

Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria, Firenze, Cesati 2013

Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet 2013

Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticaliCittà del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2016

Maestri della linguistica otto-novecentesca, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Maestri della linguistica italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

(As)saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

Gli Errori ovvero le Verità nascoste, Palermo, CSFLS 2019

Dal Coronavirus al Covid-19. Storia di un lessico virale, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2020

Saggi scelti di morfologia lessicale, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

Saggi di morfologia teorica e applicata, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

La lingua italiana del terzo millennio tra regole norme ed erroripres. di Claudio Marazzini, Torino, UTET, 2024

Il Papa è infallibile. Lo dice la grammaticapres. di Francesco Coniglione, Firenze, Accademia della  Crusca 2025

Le parole di papa Francesco. E le prime parole di papa Leone XIV, ed. Libreria Universitaria, 2025





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