mercoledì 5 aprile 2023

Sgroi - 148 - UNA PROPOSTA LEGISLATIVA PIÙ REALISTA ("FASCISTA"?) DEL RE. PIRANDELLO AVREBBE DETTO: "CHE MISERIE!"

 


di Salvatore Claudio Sgroi

 

 1. L'evento legislativo

Da qualche giorno i mass media hanno puntato i riflettori sulla proposta di legge (A.C. n. 734) di 23 deputati, risalente peraltro al 23 dicembre 2022 (ma identica a quella presentata da 31 deputati il 31 maggio 2018, A.C. n. 678), primo firmatario sempre il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, di Fratelli d'Italia, che riguarda le "Disposizioni per la tutela della promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana" ("istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana" nel titolo del 2018), costituita da 8 articoli (pp. 4-8, su una colonna).

Il "clou" della proposta è costituito dall'art. 8 che prevede "Sanzioni", ovvero:

 

             "1. La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro."

 

Il testo della proposta è preceduto da un commento (pp. 1-3, su due colonne) sulla legge, che lascia come vedremo non poco perplessi.

 

2. Macro-fedeltà linguistica

Gli 8 artt. in prevalenza si soffermano su quello che si può definire il problema della "macrofedeltà linguistica", peraltro condivisibile, ovvero sull'obbligo dell'uso della lingua italiana non sostituibile  da nessun'altra lingua, in particolare dall'anglo-americano che non viene qui mai menzionato, così:

Art. 2. "Utilizzo della lingua italiana nella fruizione di beni e di servizi";

Art. 3. "Utilizzo della lingua italiana nell’informazione e nella comunicazione";

Art. 4. "Utilizzo della lingua italiana negli enti pubblici e privati";

Art. 5. "Utilizzo della lingua italiana nei contratti di lavoro";

Art. 6. "Utilizzo della lingua italiana nelle scuole e nelle università".

Una esagerazione invece è il comma 2 dell'art. 3, vista anche la sanzione di 5.000/100.000 euro:

"2. Per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica organizzata nel territorio italiano è obbligatorio l’utilizzo di strumenti di traduzione e di interpretariato, anche in forma scritta, che garantiscano la perfetta comprensione in lingua italiana dei contenuti dell’evento".

 

3. Il Comitato per la difesa della lingua italiana

L'art. 7 prevede poi un "Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana" che, come indicato al comma 5 in 6 punti (a-f), svolga compiti diversi, senza però poter disporre di fondi da investire, ovvero tutti "a costo zero". En passant, il Comitato prevede la presenza di "un rappresentante dell'Accademia della Crusca", che ha peraltro lamentato per bocca del suo presidente Claudio Marazzini la mancata previa consultazione.

Alcuni compiti sono decisamente banali e generici. Così:

"a) la conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua italiana";

"c) l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università".

Altri sono estremamente problematici, così "b) l’uso corretto della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità". Cosa sia l'uso "corretto" dell'italiano e "della sua pronunzia" è una questione estremamente complessa, legata alla variazione sociolinguistica dell'italiano, posta qui in maniera a dir poco semplicistica.

Più comprensibile è il compito di "promuove[re]" "e) nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, forme di espressione linguistica semplici, efficaci e immediatamente comprensibili, al fine di agevolare e di rendere chiara la comunicazione con i cittadini anche attraverso strumenti informatici". Ciò sembrerebbe una ripresa della politica  del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 1993, Sabino Cassese essendo ministro della Funzione pubblica, e Tullio De Mauro l'ispiratore.  In questo caso, bisognerebbe riprendere corsi di formazione degli amministrativi a tale fine.

Anche il problema "f) [del] l’insegnamento della lingua italiana all’estero, d’intesa con la Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all’estero, di cui all’articolo 4 della legge 22 dicembre 1990, n. 401", è certamente importante. Ma con quali fondi a disposizione della Commissione non è detto.

(Nel commento che precede gli artt. della legge si ricordava che la Svizzera "Nel progetto sulla cultura 2016-2020 ha stanziato fondi per rafforzare la presenza della lingua e della cultura italiane nell’insegnamento e nella formazione bilingue, anche attraverso una serie di manifestazioni culturali" p. 2).

Invece, il punto che prevede "d) l’arricchimento della lingua italiana allo scopo primario di mettere a disposizione dei cittadini termini idonei a esprimere tutte le nozioni del mondo contemporaneo, favorendo la presenza della lingua italiana nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione", 'olezza' di neo-purismo, data l'implicita esclusione dei prestiti di altre lingue, soprattutto l'anglo-americano portatore di un innegabile prestigio culturale e scientifico mondiale.

Così come di neo-purismo e di logicismo alla Tappolet 'puzza' nell'art. 4 comma 2 il riferimento a "Le sigle e le denominazioni delle funzioni ricoperte nelle aziende che operano nel territorio nazionale [che] devono essere in lingua italiana", mentre "È ammesso l’uso di sigle e di denominazioni in lingua straniera in assenza di un corrispettivo in lingua italiana".

 

4. Neo-purismo plateale

Il "livore" neo-puristico è invece lampante, come anticipato, nel commento (pp. 1-3, su due colonne) relativo alla legge. Infatti in termini 'terroristici' si dichiara che:

(i) "l’infiltrazione eccessiva di parole mutuate dall’inglese, [...] negli ultimi decenni ha raggiunto livelli di guardia. Questi foresterismi ossessivi rischiano, però, nel lungo termine, di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa, e, in particolare, l’uso e l’abuso di termini stranieri rischiano di penalizzare l’accessibilità alla democrazia partecipata".

E poi:

 (ii) "L’uso sempre più frequente di termini in inglese o derivanti dal linguaggio digitale è diventato una prassi comunicativa che, lungi dall’arricchire il nostro patrimonio linguistico, lo immiserisce e lo mortifica";

(iii) l'"«itanglese», ovvero "l’intrusione di vocaboli inglesi nella nostra lingua [...] spesso, rasenta l’abuso";

 (iv) "il rischio ancora più grande è che si perda la bellezza di una lingua complessa e ricca come la nostra o che il suo «inquinamento» provochi una seria preoccupazione per il suo «stato di salute»";

(v) "l’anglomania si riflette nelle scelte di istituzioni come la scuola e l’università, con ripercussioni sull’intera società";

(vi) "Non è più ammissibile che si utilizzino termini stranieri la cui corrispondenza italiana esiste ed è pienamente esaustiva";

(vii) Occorre porre un "un argine al dilagare dell’utilizzo di termini stranieri al posto di quelli italiani".

Insomma, il naturale contatto interlinguistico con conseguente arricchimento è del tutto ignorato, anzi combattuto.

 

5. Politica linguistica del ventennio fascista

Ora, la posizione sopra espressa sulla difesa della lingua italiana e nei riguardi dell'anglo-americano non può non richiamare La politica linguistica del fascismo (titolo di un famoso testo di Gabriella Klein, il Mulino 1986); o Le parole proibite. Purismo di stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945) di Sergio Raffaelli (il Mulino 1983), o ancora Le parole straniere sostituite dall'Accademia d'Italia (1941-1943) di Alberto Raffaelli (Aracne 2010), per ricordare solo alcuni nomi.

La posizione presente in questa proposta di legge del dic. 2022, ci sembra però "più realista del re", perché le normative fasciste non prevedevano sanzioni pecuniarie. Il che ha fatto scrivere a Guia Soncini nella rubrica "L'avvelenata" de "Linkiesta.it" (3 aprile): "Non sarà che con le multe per l'utilizzo delle terminologie forestiere ripianiamo il debito pubblico in un fine settimana?".

 

6. L. Pirandello 1906 antipurista

A questo punto non si può non ricordare la posizione anti-purista espressa da Luigi Pirandello all'inizio del '900 – contro un’ordinanza del sindaco di Roma avversa all’uso delle parole straniere nelle insegne dei negozi – espressa nell'articolo, ironico già nel titolo, Un trionfo nazionale, apparso sulla «Gazzetta del popolo» del 26.I.1906, riedito col titolo Per l’ordinanza d’un sindaco nel 1908, rist. nei suoi Saggi e interventi, Mondadori 2006 (pp. 713-17, 1565-67). Pirandello fa riferimento in particolare a termini quali chauffeur (il miglioriniano autista risalendo al 1932), frack («marsina»), pardessus («soprabito»), passe-partout (dei quadri «sopraffondo»), salon («barbiere, barbieria»), tout-de-même («vestiario completo»), vient-de-paraître (‘novità libraria’), bijouterie («bigiotteria»), chemiserie.

Il tono di Pirandello è di pungente ironia verso l’ordinanza. Nella brillante chiusura dell'articolo, a proposito di chemiserie («camiceria»), con ironico gioco dichiara infatti di non voler affatto sostituire tale termine. «Consiglio, infine – scrive Pirandello – a quel negoziante di camicie […] di non toccare affatto […] la sua insegna francese, che è un vero monumento! Francese sì, ma si può leggere benissimo anche in italiano, senza alterare il senso […]. L’insegna dice: Che miserie».

 

Sommario

1. L'evento legislativo

2. Macro-fedeltà linguistica

3. Il Comitato per la difesa della lingua italiana

4. Neo-purismo plateale

5. Politica linguistica del ventennio fascista

6. L. Pirandello 1906 antipurista












(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

1 commento:

falcone42 ha detto...

Non mi risulta che i termini francesi citati da Pirandello: "... chauffeur (il miglioriniano autista risalendo al 1932), frack («marsina»), pardessus («soprabito»), passe-partout (dei quadri «sopraffondo»), salon («barbiere, barbieria»), tout-de-même («vestiario completo»), vient-de-paraître (‘novità libraria’), bijouterie («bigiotteria»), chemiserie" abbiano lasciato tracce significative, tranne forse il secondo (senza k finale) e il quarto. Né che la loro scomparsa abbia costituito un impoverimento della nostra lingua. Tra l’altro, leggendo attentamente l’articolo di Pirandello, ho avuto l’impressione che l’autore – con notevole ironia – si schieri contro la tolleranza nei confronti di questi barbarismi.
D’altro canto, non sempre al naturale contatto interlinguistico consegue un arricchimento, da intendere – secondo me – come miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza della comunicazione, soprattutto quando rivolta al “grande pubblico”. Qualche esempio:
- il Jobs Act di renziana memoria, così chiamato scimmiottando l’omonimo provvedimento di Obama; dove però JOBS non significava lavori o impieghi, ma era l’acronimo di Jumpstart Our Business Startups, essendo l’act finalizzato a promuovere il finanziamento delle piccole imprese;
- l’invito agli ultraottantenni a recarsi nel hàb per ricevere il buster: Molti miei amici mi hanno chiesto cosa volesse dire;
- la frequente citazione della flat tax, che poi flat non è;
- il (o la) premier, dove l’unico arricchimento, per altro falso, è solo quello del ruolo del (o della) Presidente del Consiglio dei Ministri (in inglese: job enrichment);
- la spénding riviù, sorta di araba fenice fatta risorgere periodicamente ma che nessuno ha mai visto.
Ciò detto, aggiungo che non mi infastidisce affatto l’uso di termini inglesi, quando trattasi di espressioni entrate nell’uso comune; anzi, mi darebbe più fastidio la loro soppressione. Penso a termini quali computer e software (benché possano avere dei sostituti italiani); anche se in Francia ci si ostina a parlare di ordinateur (più o meno portable) e di logiciel (il che non vuol dire che i Francesi siano fascisti).
Infine, considerandomi piuttosto competente in alcune discipline tecnico-scientifiche, so bene che mi sarebbe impossibile comunicare con altri specialisti delle stesse (la cosiddetta community) se non ricorrendo alla terminologia specifica, prevalentemente inglese. Però non mi sognerei mai di parlare o scrivere, fuori da un contesto specialistico, di Failure Mode and Effect Analysis, o di Redundancy theory; salvo voler fare sfoggio di saccenteria.
Morale: penso che convenga usare solo quei termini che tutti i destinatari della comunicazione sono in grado di comprendere, “ricco” o “povero” che sia il linguaggio.