di Salvatore Claudio Sgroi
Da
qualche giorno i mass media hanno puntato i riflettori sulla proposta di legge
(A.C. n. 734) di 23 deputati, risalente peraltro al 23 dicembre 2022 (ma identica
a quella presentata da 31 deputati il 31 maggio 2018,
A.C. n. 678), primo firmatario sempre il vicepresidente della Camera, Fabio
Rampelli, di Fratelli d'Italia, che riguarda le "Disposizioni per la
tutela della promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato
per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana"
("istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana" nel
titolo del 2018), costituita da 8 articoli (pp. 4-8, su una colonna).
Il
"clou" della proposta è costituito dall'art. 8 che prevede
"Sanzioni", ovvero:
"1. La violazione degli obblighi di
cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa
consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro."
Il
testo della proposta è preceduto da un commento (pp. 1-3, su due colonne) sulla
legge, che lascia come vedremo non poco perplessi.
2. Macro-fedeltà
linguistica
Gli
8 artt. in prevalenza si soffermano su quello che si può definire il problema
della "macrofedeltà linguistica", peraltro condivisibile, ovvero
sull'obbligo dell'uso della lingua italiana non sostituibile da nessun'altra lingua, in particolare
dall'anglo-americano che non viene qui mai menzionato, così:
Art. 2. "Utilizzo della
lingua italiana nella fruizione di beni e di servizi";
Art. 3. "Utilizzo della
lingua italiana nell’informazione e nella comunicazione";
Art. 4. "Utilizzo della
lingua italiana negli enti pubblici e privati";
Art. 5. "Utilizzo della
lingua italiana nei contratti di lavoro";
Art. 6. "Utilizzo della
lingua italiana nelle scuole e nelle università".
Una
esagerazione invece è il comma 2 dell'art. 3, vista anche la sanzione di
5.000/100.000 euro:
"2.
Per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica organizzata nel
territorio italiano è obbligatorio l’utilizzo di strumenti di traduzione e
di interpretariato, anche in forma scritta, che garantiscano la perfetta
comprensione in lingua italiana dei contenuti dell’evento".
3. Il Comitato
per la difesa della lingua italiana
L'art.
7 prevede poi un "Comitato per la tutela, la promozione e la
valorizzazione della lingua italiana"
che, come indicato al comma 5 in 6 punti (a-f), svolga compiti diversi,
senza però poter disporre di fondi da investire, ovvero tutti "a costo
zero". En passant, il Comitato prevede la presenza di "un
rappresentante dell'Accademia della Crusca", che ha peraltro lamentato per
bocca del suo presidente Claudio Marazzini la mancata previa consultazione.
Alcuni compiti sono decisamente banali e generici.
Così:
"a)
la
conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua
italiana";
"c)
l’insegnamento
della lingua italiana nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università".
Altri sono estremamente problematici, così
"b) l’uso
corretto della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di
comunicazione, nel commercio e nella pubblicità". Cosa sia l'uso
"corretto" dell'italiano e "della sua pronunzia" è una
questione estremamente complessa, legata alla variazione sociolinguistica
dell'italiano, posta qui in maniera a dir poco semplicistica.
Più comprensibile è il compito di
"promuove[re]" "e) nell’ambito delle amministrazioni
pubbliche, forme di espressione linguistica semplici, efficaci e
immediatamente comprensibili, al fine di agevolare e di rendere chiara la
comunicazione con i cittadini anche attraverso strumenti informatici". Ciò
sembrerebbe una ripresa della politica
del Codice di stile delle
comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, promosso
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 1993, Sabino Cassese essendo
ministro della Funzione pubblica, e Tullio De Mauro l'ispiratore. In questo caso, bisognerebbe riprendere corsi
di formazione degli amministrativi a tale fine.
Anche il problema "f) [del] l’insegnamento
della lingua italiana all’estero, d’intesa con la Commissione nazionale per la
promozione della cultura italiana all’estero, di cui all’articolo 4 della legge
22 dicembre 1990, n. 401", è certamente importante. Ma con quali fondi a
disposizione della Commissione non è detto.
(Nel
commento che precede gli artt. della legge si ricordava che la Svizzera
"Nel progetto sulla cultura 2016-2020 ha stanziato fondi per
rafforzare la presenza della lingua e della cultura italiane nell’insegnamento
e nella formazione bilingue, anche attraverso una serie di manifestazioni
culturali" p. 2).
Invece, il punto che prevede "d) l’arricchimento
della lingua italiana allo scopo primario di mettere a disposizione dei
cittadini termini idonei a esprimere tutte le nozioni del mondo
contemporaneo, favorendo la presenza della lingua italiana nelle nuove
tecnologie dell’informazione e della comunicazione", 'olezza' di
neo-purismo, data l'implicita esclusione dei prestiti di altre lingue,
soprattutto l'anglo-americano portatore di un innegabile prestigio culturale e
scientifico mondiale.
Così
come di neo-purismo e di logicismo alla Tappolet 'puzza' nell'art. 4 comma 2 il
riferimento a "Le sigle e le denominazioni delle funzioni ricoperte nelle
aziende che operano nel territorio nazionale [che] devono essere in lingua
italiana", mentre "È ammesso l’uso di sigle e di denominazioni in
lingua straniera in assenza di un corrispettivo in lingua italiana".
4. Neo-purismo plateale
Il
"livore" neo-puristico è invece lampante, come anticipato, nel
commento (pp. 1-3, su due colonne) relativo alla legge. Infatti in termini
'terroristici' si dichiara che:
(i)
"l’infiltrazione eccessiva di parole mutuate dall’inglese, [...]
negli ultimi decenni ha raggiunto livelli di guardia. Questi foresterismi
ossessivi rischiano, però, nel lungo termine, di portare a un collasso
dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa,
e, in particolare, l’uso e l’abuso di termini stranieri rischiano di
penalizzare l’accessibilità alla democrazia partecipata".
E
poi:
(ii) "L’uso sempre più frequente di termini
in inglese o derivanti dal linguaggio digitale è diventato una prassi
comunicativa che, lungi dall’arricchire il nostro patrimonio linguistico, lo immiserisce
e lo mortifica";
(iii)
l'"«itanglese», ovvero "l’intrusione di vocaboli inglesi nella
nostra lingua [...] spesso, rasenta l’abuso";
(iv) "il rischio ancora più grande è che
si perda la bellezza di una lingua complessa e ricca come la nostra o che il
suo «inquinamento» provochi una seria preoccupazione per il suo
«stato di salute»";
(v)
"l’anglomania si riflette nelle scelte di istituzioni come la
scuola e l’università, con ripercussioni sull’intera società";
(vi)
"Non è più ammissibile che si utilizzino termini
stranieri la cui corrispondenza italiana esiste ed è pienamente
esaustiva";
(vii)
Occorre porre un "un argine al dilagare dell’utilizzo di termini
stranieri al posto di quelli italiani".
Insomma,
il naturale contatto interlinguistico con conseguente arricchimento è del tutto
ignorato, anzi combattuto.
5. Politica
linguistica del ventennio fascista
Ora,
la posizione sopra espressa sulla difesa della lingua italiana e nei riguardi dell'anglo-americano
non può non richiamare La politica
linguistica del fascismo (titolo di un famoso testo di Gabriella Klein, il
Mulino 1986); o Le parole proibite. Purismo
di stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945) di
Sergio Raffaelli (il Mulino 1983), o ancora
Le parole straniere sostituite dall'Accademia
d'Italia (1941-1943) di Alberto Raffaelli (Aracne 2010), per ricordare solo
alcuni nomi.
La
posizione presente in questa proposta di legge del dic. 2022, ci sembra però
"più realista del re", perché le normative fasciste non prevedevano
sanzioni pecuniarie. Il che ha fatto scrivere a Guia Soncini nella rubrica
"L'avvelenata" de "Linkiesta.it" (3 aprile): "Non sarà
che con le multe per l'utilizzo delle
terminologie forestiere ripianiamo il debito pubblico in un fine settimana?".
6. L. Pirandello
1906
antipurista
A
questo punto non si può non ricordare la
posizione anti-purista espressa da Luigi Pirandello all'inizio del '900 –
contro un’ordinanza del sindaco di Roma
avversa all’uso delle parole straniere nelle insegne dei negozi – espressa
nell'articolo, ironico già nel titolo, Un trionfo nazionale, apparso
sulla «Gazzetta del popolo» del 26.I.1906, riedito col titolo Per
l’ordinanza d’un sindaco nel 1908, rist. nei suoi Saggi e interventi,
Mondadori 2006 (pp. 713-17, 1565-67). Pirandello fa riferimento in particolare
a termini quali chauffeur (il miglioriniano autista risalendo al
1932), frack («marsina»), pardessus («soprabito»), passe-partout
(dei quadri «sopraffondo»), salon («barbiere, barbieria»), tout-de-même
(«vestiario completo»), vient-de-paraître (‘novità libraria’), bijouterie
(«bigiotteria»), chemiserie.
Il tono di Pirandello è di pungente
ironia verso l’ordinanza. Nella brillante chiusura dell'articolo, a proposito
di chemiserie («camiceria»), con ironico gioco dichiara infatti di non
voler affatto sostituire tale termine. «Consiglio, infine – scrive Pirandello –
a quel negoziante di camicie […] di non toccare affatto […] la sua insegna
francese, che è un vero monumento! Francese sì, ma si può leggere benissimo
anche in italiano, senza alterare il senso […]. L’insegna dice: Che miserie».
Sommario
1.
L'evento legislativo
2.
Macro-fedeltà linguistica
3.
Il Comitato per la difesa della lingua italiana
4.
Neo-purismo plateale
5.
Politica linguistica del ventennio fascista
6.
L. Pirandello 1906 antipurista
(Le
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diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)
1 commento:
Non mi risulta che i termini francesi citati da Pirandello: "... chauffeur (il miglioriniano autista risalendo al 1932), frack («marsina»), pardessus («soprabito»), passe-partout (dei quadri «sopraffondo»), salon («barbiere, barbieria»), tout-de-même («vestiario completo»), vient-de-paraître (‘novità libraria’), bijouterie («bigiotteria»), chemiserie" abbiano lasciato tracce significative, tranne forse il secondo (senza k finale) e il quarto. Né che la loro scomparsa abbia costituito un impoverimento della nostra lingua. Tra l’altro, leggendo attentamente l’articolo di Pirandello, ho avuto l’impressione che l’autore – con notevole ironia – si schieri contro la tolleranza nei confronti di questi barbarismi.
D’altro canto, non sempre al naturale contatto interlinguistico consegue un arricchimento, da intendere – secondo me – come miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza della comunicazione, soprattutto quando rivolta al “grande pubblico”. Qualche esempio:
- il Jobs Act di renziana memoria, così chiamato scimmiottando l’omonimo provvedimento di Obama; dove però JOBS non significava lavori o impieghi, ma era l’acronimo di Jumpstart Our Business Startups, essendo l’act finalizzato a promuovere il finanziamento delle piccole imprese;
- l’invito agli ultraottantenni a recarsi nel hàb per ricevere il buster: Molti miei amici mi hanno chiesto cosa volesse dire;
- la frequente citazione della flat tax, che poi flat non è;
- il (o la) premier, dove l’unico arricchimento, per altro falso, è solo quello del ruolo del (o della) Presidente del Consiglio dei Ministri (in inglese: job enrichment);
- la spénding riviù, sorta di araba fenice fatta risorgere periodicamente ma che nessuno ha mai visto.
Ciò detto, aggiungo che non mi infastidisce affatto l’uso di termini inglesi, quando trattasi di espressioni entrate nell’uso comune; anzi, mi darebbe più fastidio la loro soppressione. Penso a termini quali computer e software (benché possano avere dei sostituti italiani); anche se in Francia ci si ostina a parlare di ordinateur (più o meno portable) e di logiciel (il che non vuol dire che i Francesi siano fascisti).
Infine, considerandomi piuttosto competente in alcune discipline tecnico-scientifiche, so bene che mi sarebbe impossibile comunicare con altri specialisti delle stesse (la cosiddetta community) se non ricorrendo alla terminologia specifica, prevalentemente inglese. Però non mi sognerei mai di parlare o scrivere, fuori da un contesto specialistico, di Failure Mode and Effect Analysis, o di Redundancy theory; salvo voler fare sfoggio di saccenteria.
Morale: penso che convenga usare solo quei termini che tutti i destinatari della comunicazione sono in grado di comprendere, “ricco” o “povero” che sia il linguaggio.
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