mercoledì 12 aprile 2023

In difesa della lingua italiana



Dal dr Claudio Antonelli (Montrèal - Canada) riceviamo e pubblichiamo

 

Più d’uno nella penisola, ma non tra gli italiani all'estero, ravviserà nella proposta di legge di Fabio Rampelli per la difesa della lingua italiana un’involuzione di sapore autarchico, nazionalistico e pericolosamente nostalgico. E criticheranno la proposta di legge quelle persone che trovano sciovinisti e ridicoli i francesi, i quali insistono nel chiamare “ordinateur” non solo il loro ma anche il nostro computer. Gli italiani, da “cittadini del mondo” (invero un po’ speciali perché vanno in tilt - per usare quest’altra espressione grottesca falsamente inglese - quando sono costretti a mangiare spaghetti non al dente, il che è la triste regola all’estero) trovano comico l’insistere dei francesi sull’uso della loro arrogante lingua nazionale, e considerano oltraggioso lo scarso rispetto dei nostri cugini transalpini verso la lingua del mondo, a noi invece così cara.  

Che si rifletta invece su questo punto: non esiste una lingua unica, universale, ma esistono solo lingue locali. La stessa lingua inglese, di cui ci si serve ormai su scala planetaria, è un idioma fedele al suo passato e che esprime quindi un mondo di valori collegati a un ambito nazionale storico-geografico che per quanto ampio riflette una civiltà particolare. Che si pensi anche ai proverbi. Una lingua autenticamente planetaria sacrificherebbe i particolarismi culturali all’astrattezza e alla pura praticità di un linguaggio svincolato dalla storia. E appiattirebbe e sbiadirebbe le varie identità culturali dei parlanti.  

Ogni lingua ha il suo genio. Le lingue delle popolazioni autoctone del Gran Nord canadese contengono un ricco vocabolario di termini designanti i fenomeni naturali connessi al freddo, alla neve, al ghiaccio e alla particolare geografia dei luoghi in cui esse vivono da millenni.  

L’italiano così ricco e preciso dei nostri autori di un’epoca non proprio lontana – vedi Papini, Malaparte, Barzini – continua invece a perdere pezzi. L’attuale smodata importazione di parolette inglesi che rimpiazzano validissimi termini italiani non fa che aggravare questo processo d’impoverimento.  Abbiamo perso fare fiasco sostituito da fare flop. Gossip ha messo a tacere il pettegolezzo. I rumors hanno soffocato le voci e i chiacchiericci. Il summit ha sloggiato il vertice. L’onnipresente boss ha fatto tirare le cuoia ad una ricca nomenclatura criminosa, al vertice della quale vi era il capo di tutti i capi, espressione che solo all’estero pero’ ormai usano. Il vocabolario del crimine, per il quale noi italiani meritavamo il rispetto a livello mondiale, è oggi insidiato dai termini inglesi. Le vittime più illustri di questo assalto a colpi di vocabolario sono stati gli assassini, gli omicidi, gli uccisori, i sicari, sostituiti vergognosamente dall’americano “killer”.  Anche per chi non è un nostalgico del “bagnasciuga” non è stato facile accettare il luttuoso evento che ha visto il vecchio assassino alias omicida del codice Rocco tirare le cuoia e tramutarsi a guisa di zombie in killer. Che a sua volta ha figliato un ributtante killeraggio.

Oggi va di moda il progetto globalista, con l’abolizione delle frontiere fisiche, storiche e culturali della Nazione. Un mondialismo che è all’insegna dei valori nazionali americani. L’appecoronamento all’“italiese” (italianese, italese, itanglese, anglitaliano, inglesiano, itangliano) degli abitanti della penisola, governo ed élites (mi scuso per la esse) in testa, non è altro che cedimento, sottomissione, disgregazione dei nostri parametri identitari; il tutto condotto con spirito da camerieri, da giullari, e da sciuscià se mi è permesso questo inglesismo che è ormai insostituibile.

All’Accademia della Crusca è stato rivolto tempo fa il quesito: come rendere in italiano il termine inglese “to scan”? La risposta della Crusca: "massima libertà di scelta circa l'uso di scandire, scannare, scannerizzare, e anche eseguire una scansione e scansionare". Quelli della Crusca ci dicono in sostanza: fate come volete. Io vorrei invece che questa istituzione avesse un ruolo meno passivo e meno contemplativo. Mi piacerebbe che svolgesse un ruolo "alla francese", insomma. Ma so bene che forse non c'è una sola persona nella penisola che non si faccia regolarmente beffe del cosiddetto sciovinismo della "Académie Française" e degli altri organismi dell'Esagono preposti alla difesa della lingua nazionale. Funzione che io considero invece ammirevole.

Il qualunquismo della Crusca dà un contributo dannoso a un certo stato confusionale della lingua italiana, la quale vanta pagine di dizionari strapiene di varianti di forma di questo o quel termine, come ad esempio obbediente-ubbediente-ubbidiente considerati uguali-eguali tutti e tre, mentre è una lingua che presenta tante lacune. Molte delle quali sono dovute anche alla rimozione di termini che “non suonano bene”, come certe forme verbali eliminate dall’uso per la loro presunta cacofonia. Il crescente uso di termini inglesi riduce ancor di più la ricchezza e la varietà della nostra lingua, nella quale sempre piu’ di frequente termini validissimi vengono rimpiazzati da una paroletta americana, comicamente pronunciata e che stride eufonicamente.

L'ossessione del "Suona bene? Suona male?" tiranneggia gli italiani, pieni di idiosincrasie in fatto di pronunce e di accenti, ma dalle cui strozze fuoriescono, purtuttavia, gli sgangherati suoni dei termini inglesi (anglismi/anglicismi/inglesismi) esproprianti gli autarchici termini del nostro vocabolario. Flop ha rimpiazzato fiasco; jackpot è usato al posto di montepremi; supporter ha preso il posto di tifoso; il cartellino da timbrare al lavoro è divenuto un badge; il restyling è termine che non fa parte del gergo di parrucchieri con l'erre moscia, ma di vigorosi asfaltatori di strade con il volto bruciato dal sole. Occorrerebbe un po’ di restyling anche per la lingua italiana, affinché si riduca un'inutile obesità di forme e se ne protegga la ricchezza, riesumando certi termini molto precisi di un tempo, finiti purtroppo nel dimenticatoio.

  Visto che è stato citato Pirandello, giova riportare a questo punto un giudizio di De Mauro sugli anglicismi. Una premessa: De Mauro non fu certamente un sovranista, anzi fu un rispettato progressista, “laico di ispirazione marxista” come egli stesso si definì. L’intervistatore: “Se negli anni Cinquanta la televisione ha insegnato l'italiano agli italiani, oggi sembra voler insegnare loro l'inglese. Quali effetti provoca nella lingua comune l'atteggiamento anglofilo dei grandi mezzi di comunicazione?” De Mauro: “Magari insegnasse l'inglese davvero. Insegna, in titoli di trasmissioni e di sue articolazioni, l'esibizione sciocca e inutile di qualche anglismo, come educational per educativo. Del resto, anche come ministro, ho protestato in Parlamento contro queste ridicolaggini, il question time, per le interrogazioni urgenti, o il Welfare del ministro Maroni. Ha da passà a nuttata”.

Oramai i traduttori dall’italiano all’inglese, se seri e onesti, dovranno tradurre in inglese non solo le parole italiane ma anche i termini inglesi che il testo italiano contiene. Questi termini, infatti, sono spesso errati o usati a sproposito. Ad esempio, il writer (graffitaro) del testo italiano diventerà – nella giusta traduzione- “tagger” o “graffiti artist”, il rider (fattorino in bicicletta) diventerà “delivery man on bike”. L’“open day” dei vaccini, resterà “open day” nella traduzione inglese, ma pochi anglofoni ne capiranno il senso. E che dire del nostro "smart working", espressione imprecisa e anche sbagliata quando viene usata al posto di telelavoro, lavoro da casa? Inglesi e americani, infatti, ricorrono a “remote working”, “work from home”, e non a “smart working” per designare il lavoro che si fa da casa grazie alla Rete.

Concludo segnalandovi un fatto incredibilmente ridicolo: la Camera dei deputati risponde in inglese a chi si dichiara contento del progetto di legge che mira a fare dell'italiano la lingua obbligatoria delle istituzioni italiane nei loro rapporti con il cittadino italiano. Ecco infatti il messaggio che ho ricevuto dopo aver inviato alla Camera dei deputati un messaggio di sostegno alla proposta di Rampelli. “We confirm that your message with object: Trasmesso via sito - La difesa della lingua nazionale, sent on at 14:50 has been successfully registered.” È proprio vero che, come dicono i napoletani, ma non so per quanto tempo ancora, prima che anche loro non lo dicano in inglese: “O pesce fete da capa!”


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La lingua "biforcuta" della stampa

Ama licenzia 33 spazzini fannulloni: "Assenteisti cronici, sparivano 300 giorni al mese"

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Ci piacerebbe che i cronisti del quotidiano che ritiene Ostia un comune a sé stante e non, come è "giuridicamente", un quartiere di Roma ci spiegassero come si fa a sparire "300 giorni al mese".


 

(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

 

 

4 commenti:

falcone42 ha detto...

Gentile Dott. Antonelli,
sono d’accordo con lei su quasi tutto. Spiego il “quasi”. Lei scrive: “L’appecoronamento all’“italiese” … degli abitanti della penisola, governo ed élites (mi scuso per la esse) in testa, non è altro che cedimento, sottomissione, disgregazione dei nostri parametri identitari.”
Gli Italiani – ovvero gli abitanti della penisola – non sono un popolo unico: prescindendo da quelli di origine straniera (termine da bandire, poiché non politicamente corretto; ora si usa dire “internazionale”, come se il singolo individuo avesse parecchie nazionalità), ci sono i pochi che si considerano facenti parte delle élites e i tantissimi, etichettati dispregiativamente dai primi “gente comune”. Gruppo, questo, di cui mi onoro di fare parte, anche se per cultura, istruzione e reddito potrei ambire ad essere inserito in una qualche élite; ma lungi da me l’idea!
Ovviamente delle élites – che in pratica sono delle caste – fanno parte anche moltissimi politici e quasi tutti i giornalisti e gli opinionisti radio-televisivi e della carta stampata; forse anche qualche membro dell’Accademia della Crusca. Per connotare il loro rango nella società, fanno largo uso di termini inglesi e, in misura minore, francesi, tedeschi, financo giapponesi; oppure di vocaboli italiani “inglesizzati”. È tipico delle caste sviluppare un linguaggio esclusivo, o quanto meno selettivo.
Si veda ad esempio la pubblicità dei prodotti di alta gamma, quelli che servono ad esprimere il proprio status sociale; quelli di cui si fa shopping: in boutique, nello store, nella (sì, proprio al femminile) showroom, nel pet shop, nel food shop e così via. La famosa massaia di Voghera invece va a fare la spesa, se si tratta di generi di prima necessità; o al massimo a far compere, se si tratta di abbigliamento o accessori per la casa.
Tornando alla pubblicità dei prodotti di alta gamma: anni fa compariva di solito l’aggettivo “esclusivo”; poi si è passati ad escludere la gente comune, già tagliata fuori ovviamente dal prezzo, con l’uso di parole straniere, per lo più inglesi (è paradossale che da noi si reclamizzino in inglese anche i profumi francesi). Ultimamente, visto che anche alla gente comune fa piacere considerarsi un po’ meno emarginata, la pubblicità in inglese ha invaso anche il campo dei prodotti economici, detti di largo consumo, reclamizzati da personaggi famosi dello spettacolo e dello sport. Realizzando così un grande cambiamento culturale: l’illusione di comprare ciò che comprano anche le persone altolocate.

Claudio Antonelli ha detto...

Stimatissimo dr Falcone,
la ringrazio per il suo apprezzato, gradito commento.
Non intendevo offendere i miei connazionali, ma vedo una totale passività da parte dell’abitante medio della penisola di fronte a « in tilt », « killer », « flop »… Non una sola volta ho udito qualcuno denunciare l’uso ridicolo di una di queste parole inglesi o pseudo inglesi. Non una sola lettera di protesta ai giornali contro questi termini da barzelletta che i giornalisti usano ogni giorno. Neppure in televisione, mai che qualcuno pronunciasse la frase da riscatto nazionale: ma vogliamo tornare al nostro caro « omicida, assassino, uccisore, sicario »?
Fenomeno per me inspiegabile: gli stessi linguisti, quando enumerano gli anglicismi, sorvolano su questi anglicismi quotidiani. Evidentemente killer è divenuto un termine italiano, e cosi’ in tilt , e cosi’ flop. L’espressione in tilt, come in “traffico in tilt”, è capita da tutti gli italiani. Peccato che non la capiscano gli stranieri anglofoni, dal momento che si tratta di quell’idioma pseudo inglese all’Alberto Sordi, di cui tanti nostri Italians, ex autarchici divenuti internazionalisti da salotto, vanno oggi orgogliosi. E cosi’ dicasi anche di “hotspot” cui i dizionari inglesi danno un significa altro che non quello nostro che si limita all’emergenza migranti. Trovo poi quasi disumanizzante il qualificativo “runner” con cui gli organi d’informazione, ossessivamente direi, identificano il malcapitato cittadino italiano che è stato ucciso da un orso nel Trentino
Io riesco almeno in parte a capire la logica esterofila di chi vuole innalzarsi, usando parole che permettono di mettere in mostra sé stessi tramite un prodotto esotico da chiamare all’inglese. Ma qui assistiamo piuttosto a un gioioso sbracamento da repubblica delle banane. Qui invece di innalzarsi ci si abbassa.
Ripeto il concetto : quando si denunciano gli anglicismi occorre denunciare non in astratto, ma citare killer, in tilt, flop, gossip, in pressing… Ma nessuno lo fa. Anche discutendo con persone comuni, d’accordo con me nel denunciare l’abuso di anglicismi, non una sola volta ho udito qualcuno citare uno di questi anglicismi da barzelletta. E a proposito di « in pressing » io ogni volta cerco di capire se « in pressing » indica l’azione attiva di esercitare pressioni o quella invece passiva di subire delle pressioni. A me « in pressing » fa salire la pressione...
Pochi sottolineano il fatto aberrante che sono stati i governi italiani, succedutisi fin qui, a promuovere gli anglicismi : vedi Election day, Stalking, Ministro del welfare, Social card, Social act, Jobs act, Migration compact, Spending review, Election day, Question time, Family Act, Stepchild adoption, hotspot, ecc. Lo stesso Presidente della Repubblica, forte della sua moral suasion e convinto di poter ricevere una standing ovation, si è dichiarato favorevole a una lingua italiana aperta ed innovativa che accolga con generosità gli apporti non solo dell’inglese, ma delle numerose altre lingue parlate nella penisola dagli immigrati. Ed è questa un’originalità per un capo di stato. Sergio Mattarella auspica, infatti, l’avvento nella penisola di una nuova lingua globale, aperta alle influenze multiculturali; lingua – aggiungo io – che restringerà ulteriormente il vocabolario d’uso della vera lingua italiana, come i linguisti ben sanno, poiché il gergo chiamato lingua franca è uno strumento di comunicazione semplificato all’estremo.
Voglio concludere su una nota positiva. Un anglicismo che nobilita il prodotto e manda in brodo di giuggiole chi lo usa, e verso il quale io mi sento indulgente, è vintage. A Ladispoli, sul lungomare, vi è persino un bar-ristorante intitolato « Bar vintage » (sulla freschezza dei suoi prodotti c’è pero’ da dubitare..). Dal termine vintage sembra emanare un’aria di nobiltà. E io non me la sento di essere irrispettoso nei confronti di questo vintage all’italiana, che tanto piacere arreca a chi lo pronuncia.

Claudio Antonelli ha detto...

VINTAGE, PAROLA MAGICA
Certe parole inglesi hanno una presa straordinaria sui provincialoni italiani. Ad esempio "vintage", che nel loro parlare ha una connotazione direi magica. E mi stupisco che nessuno abbia ancora battezzato sua figlia "Vintage" per cercare di darle una nascita "nobile", garantendole, quando sarà, un matrimonio veramente all'altezza.
Vintage, in italiano, ha un significato che di molto innalza il significato originario anglo-americano, indicante un articolo di seconda mano o anche nuovo, prodotto in epoca anteriore. Per gli italiani, vintage – parola che alcuni pronunciano con bocca quasi tremante perché sopraffatti dall'emozione – è qualcosa di più, molto di più. Essa evoca nostalgie di irripetibili momenti... Irripetibili ed inesprimibili. Cosicché io non tenterò di fornirvi la connotazione italiana di questo termine aulico, vaporoso, merlettato, perché non saprei come fare, tanto esso è rarefatto e se proprio vogliamo incerto. Mi basterà dire che nel corso di un programma radiofonico italiano interrogarono, non ricordo più se un'antropologa o una sociologa, sul vero significato di vintage. L'esperta tentò l'impossibile arrabattando una definizione. Ma senza troppo successo. I suoi tentativi di spiegare il termine sfociavano ogni volta in sussurri, mormorii estatici, e in gridolini di piacere, perché "vintage" era parola che la studiosa non riusciva a pronunciare senza venir sommersa dalla calda onda amniotica dell'irripetibile "temps perdu". Ecco, per aiutarvi a capire meglio questo magico termine, vi dirò che usando "ella", pronome personale di terza persona femminile, io ho usato un termine "vintage". Ma in questa nostra Italia un po' sgangherata ma inguaribilmente ammalata di snobismo, "vintage" riguarda articoli soprattutto d'abbigliamento e prodotti che alla loro epoca furono di massa o quasi; ma che al giorno d'oggi, perché ne restano pochi a causa della falcidia del tempo e della moda, appaiono originali e assurti quasi a una nuova verginità, anche se sono irrimediabilmente di secondo pelo.
Vintage è in genere associato a “outlet”, ossia a negozio, negozietto, rivendita, spaccio. Ma guai a chiamarlo “negozio” in riferimento a vintage, a meno di voler privare gli italiani del raddoppio del piacere che la coppia “vintage-outlet” procura loro. "Outlet" è un altro termine cremoso e piacevole che le bocche degli italiani succhiano con voluttà. Ma per comprare lo straccetto "vintage" gli italiani potranno andare anche – non dispiaccia al loro snobismo – ad un comune mercato delle pulci.



falcone42 ha detto...

Gentile dott. Antonelli,
non si preoccupi: non credo affatto che lei abbia offeso i suoi connazionali; mi permetta però di spiegarle la "totale passività da parte dell’abitante medio della penisola".
Nella penisola non esiste più il "popolo italiano", ma tre gruppi etnici (volutamente non scrivo "razze") distinti:
1 - gli stranieri, a loro volta suddivisibili in due grandi categorie: quelli che si sono - in varia misura - integrati e quelli che vivono ai margini o addirittura fuori dalla società:
2 - i componenti delle varie "élites";
3 - la "gente comune".
I secondi, cioè gli appartenenti alle varie élites (culturale, economica, politica, di potere, di censo, ecc.), si dividono a loro volta in due categorie: quelli che si considerano, per varie ragioni, esseri superiori, e i cosiddetti "radical chic". Tutti accomunati dall'adesione incondizionata al "politicamente corretto". Tra dette due categorie, ovviamente, non esiste una netta separazione.
Sulla gente comune c'è poco da dire, se non che contano poco. Ecco il perché della totale passività di fronte allo scempio della nostra lingua: non hanno modo di farsi sentire, nessuno, in alto loco, gli dà retta; possono solo subire passivamente, chiedendosi: "di questo passo, chissà dove andremo a finire". Qualche speranza l'aveva data Draghi, poco dopo il suo insediamento, chiedendo[si] se fosse proprio necessario usare termini inglesi; ma tutto è finito come una bolla di sapone.
Io stesso, tempo fa, ho scritto ad un paio di quotidiani molto noti, e coi quali in precedenza avevo avuto qualche rapporto, protestando per hotspot, hub e simili. Non solo non hanno pubblicato le mie lettere (mail), ma non si sono manco degnati di rispondermi con un "non rompa le scatole".
Concludo: in Italia, di "vintage", c'è soltanto più la gente comune. Gli altri si sentono proiettati in un roseo (anzi "green"!) futuro, senza frontiere, senza distinzioni di razza e di lingua; con la sola distinzione tra élites e gente comune. Tipico delle caste dominanti.