di Salvatore Claudio Sgroi
Un caro amico filologo a cui piace navigare in Internet, qualche giorno fa mi ha girato in una e-mail il link di un discorso del presidente del consiglio Mario Draghi, tenuto al centro vaccinale di Fiumicino.
ha interrotto in questo punto la lettura del suo testo per inserire il seguente commento metalinguistico, come se il testo fosse stato scritto non da lui ma da un ghost writer:
Da rilevare
che si tratta di un testo ufficiale e che l'illustre locutore per il primo
anglicismo ha adottato la strategia, seguita anche dagli scrittori, di
adoperare dapprima il traducente italiano -- lavoro agile -- ben noto e diffuso
anche con la "benedizione" del gruppo "Incipit" dell'Accademia
della Crusca, a cui è poi seguito come variatio
stilistica il dono inglese "smart working",
a sua volta non meno diffuso.
La "riflessione a voce alta" di M. Draghi è stata l'occasione perché il presidente della Crusca, Claudio Marazzini, in un'intervista di Gaia Rau su "la Repubblica" di Firenze, del 14 marzo (segnalatami da un altro amico, cybernauta), rincarasse, per così dire, la dose -- in un'ottica neopuristica (in quanto alla Tappolet anglicismi "non necessari", ma "di lusso") -- a proposito dei "termini anglofoni utilizzati impropriamente, e perfettamente sostituibili con equivalenti italiani".
Ovvero
ha selezionato altri 13 lessemi tra "gli anglicismi più abusati e di cui
potremmo facilmente fare a meno" ricorrendo a una "loro traduzione
italiana".
"Lo
'smart working' -- ha così confermato
-- non è altro che il 'lavoro agile'".
Mentre baby sitting "possiamo tradurla semplicemente -- ha
precisato -- con assistenza dei
bambini”.
Il
traducente italiano di Marazzini assistenza dei bambini è un
suggerimento anche per la lessicografia italiana che registra la voce baby sitting senza
alcuna esterofobia e ne indica un possibile traducente, alla pari, in babysitteraggio, babisitterraggio.
Il lettore
che cercasse l'avallo normativo dei dizionari per l'uso di baby sitting rileverà infatti che, se baby sitting manca nel De Mauro 2000, il Garzanti-Patota 2013 registra baby-sitting (anche senza trattino e
anche univerbato) nella sola pronuncia
/bebi'sittiŋg/ italianizzata e definito "l'attività, il servizio di
bay-sitter". Senz'alcuna valutazione negativa.
Lo Zingarelli 2020 riporta da parte sua il
lemma baby-sitting (con trattino),
datato 1980, con duplice adattamento della pronuncia /bebi'sittin(g)/ in italiano rispetto a
quella originale /'beıbi,sıtıŋ/ e senz'alcun traducente
italiano.
Il Sabatini-Coletti
2007 lemmatizza baby-sitting con
pronuncia ingl. e una sola "pr. adatt." /bεbi'sittiŋ)/, datata 1980, definito però
col sin. babysitteraggio. Quest'ultimo a sua volta lemmatizzato con la
variante grafica babisitteraggio, definito "Attività e servizio di
bay-sitter. Sin. baby-sitting".
Anche il Devoto-Oli-Serianni-Trifone
2020 lemmatizza babysitting con
due varianti di adattamento alla fonologia dell'italiano, con la data 1980, e col
rinvio al traducente babysitteraggio datato a sua volta
1994, definito "Servizio di assistenza ai bambini durante l'assenza dei
genitori", e senz'alcuna raccomandazione "per dirlo in
italiano", come invece fa per vari altri stranierismi.
Il Treccani-Simone 1989 rist. 2009, omette infine baby sitting ma lemmatizza il
traducente babysitteraggio (mest.)
"Attività, lavoro, funzione di baby-sitter", con l'es. ho fatto due anni di b."
3. Francesco Sabatini e le 4 regole per l'uso degli stranierismi
Nella consueta trasmissione di domenica su Rai-1 "UnoMattina in famiglia", "Pronto Soccorso linguistico" anche Francesco Sabatini è intervenuto il 14 marzo ore 8.30, per commentare con compiacimento il rilievo critico di Draghi, e ricordare le 4 regole da adottare per l'uso degli stranierismi. Ovvero:
1° conoscere il significato del
termine
2° saperlo pronunciare
3° saperlo scrivere
4° accertarsi se l'interlocutore lo
conosce o no.
Una grammatica "normativa", questa di Sabatini, condivisibile certamente
per la regola (semantica) n.1 e la regola n.3 (ortografica), mentre per la regola
n.2 (fonologica) è spesso inevitabile un adattamento alla fonologia
dell'italiano come su indicato § 2.1 (magari non nel caso dell'anglofono
Draghi) . E quanto alla regola n.4 relativa alla competenza dell'interlocutore,
è sempre una scommessa, legata al livello culturale del destinatario, non
sempre noto.
Diversamente, se ne deduce, che per
Sabatini è necessario ricorrere a un traducente italiano.
4. Il "duetto" V. Della Valle - G. Patota
Immancabilmente, nella trasmissione su RAI-3, Le parole
per dirlo, delle 10h.20 della stessa domenica, non è mancato un commento di
Geppi Patota al commento di Draghi "illustre critico" riguardo alle parole straniere, con la sua
"protezione dall'alto" a favore dei traducenti/equivalenti italiani, mentre Valeria Della Valle "benediva"
il playback del critico musicale Ernesto
Assante, ospite nella trasmissione dedicata alle canzoni, in quanto termine "ormai
affermato" ovvero (neopuristicamente) stranierismo "necessario" e
solo parafrasabile.
5. Quesito di un amico
Qualche
giorno dopo l'e-mail di cui sopra, un altro caro amico, anch'egli filologo, mi
ha inviato la seguente e-mail:
"Caro SC,
ma tu cosa pensi della traduzione di
smartworking con lavoro agile?
Un mio amico 'radicale' mi
chiede se non rappresenti una manifestazione di 'sudditanza' all'
(ideologia) anglosassone più marcata dell'uso della parola inglese.
Intanto un caro saluto"
6. Risposta "laica" dinanzi al problema
degli stranierismi in italiano
La mia risposta "laica" dinanzi
al problema degli anglicismi, e degli stranierismi in generale, è la seguente.
L'uso degli angli(ci)smi non è una manifestazione di 'sudditanza' all'(ideologia)
anglosassone", ma è il riflesso del prestigio
(storico-politico-economico-scientifico-culturale...) dell'anglo-americano. Un
fattore che è un universale linguistico nel contatto inter-linguistico, che non
costituisce un attentato alla identità di una lingua, o di 'infedeltà
linguistica', ma è un'occasione di arricchimento nel caso dei prestiti sia "di necessità" (a livello denotativo) che "di lusso" (a
livello connotativo). Il ricorso agli stranierismi non è peraltro obbligatorio
ma resta a discrezione del parlante, che di volta in volta valuterà la
possibile scelta in funzione sia della precisione denotativa (soprattutto nel
caso dei tecnicismi) sia della valenza comunicativa legata ai livelli culturali
degli interlocutori. Un problema peraltro analogo nel caso dei tecnicismi
nazionali o delle sigle, che spesso rendono oscuro un testo.
Sommario
1. L'evento politico
mediatico
1.1.
Strategia nell'uso degli anglicismi
2.
L'intervento del presidente della Crusca, Claudio Marazzini
2.1.
Baby sitting (e babysitteraggio, babisitteraggio) nella lessicografia italiana
3. Francesco Sabatini e le 4 regole
per l'uso degli stranierismi
4. Il "duetto" V. Della
Valle - G. Patota
5. Quesito
di un amico
6. Risposta
"laica" dinanzi al problema degli stranierismi in italiano
1 commento:
Mario Draghi e i flop linguistici degli Italiani
Draghi si è soffermato sull’espressione “smart working”, oggi largamente usata in Italia. Sarebbe logico innanzitutto chiedersi: perché gli Italiani usano questa particolare espressione inglese? La usano perché i mass media e i personaggi di spicco del teatrino nazionale l’hanno resa d’uso comune. L’anglo-americano del popolo, infatti, non germina da sé, ma è il prodotto dello spirito d’imitazione di masse molto ben disposte verso gli anglicismi che piovono loro dall’alto, dalle élite. “‘O pesce fete d’a capa”, dicono i Napoletani. Ma perché queste “élite”: giornalisti, politici, conduttori televisivi, etc. usano tanti anglismi-anglicismi-inglesismi? Perché, essendo stati dominati nei secoli dagli stranieri, noi Italiani amiamo imitare i “non Italiani”.
Draghi conosce bene l’inglese. Commentando l’uso che in Italia si fa di “smart working”, invece di chiedersi “Chissà perché io devo usare tutte queste parole inglesi…”, avrebbe potuto dirci che “smart working” non corrisponde a ciò che per “smart working” s’intende nei paesi anglofoni. Avrebbe dovuto anche metterci in guardia, dicendo: “Se proprio vogliamo servirci dell’inglese per designare il ‘lavoro da casa’, il ‘lavoro a distanza’ – perché è questo che noi intendiamo dire con ‘smart working’ – ricorriamo allora a ‘working from home’ o ‘remote working’.” Espressioni inglesi quest’ultime preferibili – aggiungo io – a quel ‘lavoro agile’ da circo felliniano con cui la Crusca ha tradotto “smart working”. ‘Xe pèso el tacòn del buso’, dicono i Veneziani...
Ma Draghi non ha detto nulla al riguardo. Non vi nascondo che avrei voluto trovarmi, solo per un istante, al posto di Draghi per dire urbi et orbi che questo “smart working” americano, nella sua accezione di lavoro da casa o telelavoro – “télétravail” in francese – è usato impropriamente (su questo tema ho già scritto) dai nostri furbetti “smart ass”; come del resto avviene con le parole “rider” per “fattorino pedalatore”; “writer” per “graffitaro”; “badge” per “tesserino di riconoscimento”; “toast” per tramezzino; traffico “in tilt” per traffico bloccato o traffico in stallo, etc. E, viceversa, gli inglesi chiamano “latte” l’equivalente del nostro caffelatte, mentre ricorrono alla parola “confetti” per designare i coriandoli…
Cerchiamo sì di arricchire la nostra lingua attraverso i forestierismi, ma evitiamo di adottare vocaboli inglesi sbagliati. Se non altro per rispetto di quegli anglofoni che amano e studiano l’italiano, ma che rischiano d’inciampare su queste parole inglesi di difficile comprensione per loro.
Diversi giornalisti, tra cui Severgnini, hanno tratto spunto dalle parole di Draghi per allargare il discorso sull’uso in Italia delle parole inglesi, viste da loro come causa di ricchezza linguistica, e indice inoltre di furbizia, di elasticità, di apertura al “diverso”.
Nel paese dove le mode attecchiscono furiosamente specie se mode straniere, e dove l’imitazione dei belli e famosi, flatulenze verbali incluse, è per le masse un comprovato metodo d’innalzamento sociale, bisognerebbe invece invitare i nostri padroni delle ferriere – giornalisti, politici, conduttori televisivi – a sbracarsi un po’ di meno nei confronti di una lingua, l’inglese, che dimostrano di conoscere assai poco.
Il ragionare pragmatico vorrebbe che di fronte all’uso errato o impreciso di una parola o di un’espressione inglese si dicesse: se proprio dobbiamo continuare ad “arricchire” l’italiano di termini inglesi, adottiamo i termini inglesi giusti, e cerchiamo anche di non abolire, attraverso questo trapianto linguistico autocastrante, termini ed espressioni italiane validissime, come il nostro “fare fiasco” ormai eliminato da “fare flop”, suo “killer”. Ma cosa volete, le nostre élite, progressiste, “audacemente” anti-autarchiche ed aperte ed anzi spalancate al “diverso”, amano proprio “fare flop”.
Claudio Antonelli
---------
Posta un commento