lunedì 15 marzo 2021

Sgroi - 99 - Lo "smart working" e il presidente del consiglio Mario Draghi

 


di Salvatore Claudio Sgroi

 

         1. L'evento politico mediatico

Un caro amico filologo a cui piace navigare in Internet, qualche giorno fa mi ha girato in una e-mail il link di un discorso del presidente del consiglio Mario Draghi, tenuto al centro vaccinale di Fiumicino.

Mario Draghi, leggendo il suo comunicato (venerdì, 12 marzo) in cui tra l'altro diceva:

 "Per venire incontro alle esigenze delle famiglie abbiamo deciso, già nel decreto di oggi, di garantire il diritto al lavoro agile per chi ha figli a didattica a distanza o in quarantena. Per chi svolge attività che non consentono lo smart working sarà riconosciuto l'accesso ai congedi parentali straordinari o al contributo baby setting"  

 ha interrotto in questo punto la lettura del suo testo per inserire il seguente commento metalinguistico, come se il testo fosse stato scritto non da lui ma da un ghost writer:

          "Chissà perché io devo sempre usare tutte queste parole inglesi... questo..."

 1.1. Strategia nell'uso degli anglicismi

Da rilevare che si tratta di un testo ufficiale e che l'illustre locutore per il primo anglicismo ha adottato la strategia, seguita anche dagli scrittori, di adoperare dapprima il traducente italiano -- lavoro agile -- ben noto e diffuso anche con la "benedizione" del gruppo "Incipit" dell'Accademia della Crusca, a cui è poi seguito come variatio stilistica il dono inglese "smart working", a sua volta non meno diffuso.

 2. L'intervento del presidente della Crusca, Claudio Marazzini

La "riflessione a voce alta" di M. Draghi è stata l'occasione perché il presidente della Crusca, Claudio Marazzini, in un'intervista di Gaia Rau su "la Repubblica" di Firenze, del 14 marzo (segnalatami da un altro amico, cybernauta), rincarasse, per così dire, la dose -- in un'ottica neopuristica (in quanto alla Tappolet anglicismi "non necessari", ma "di lusso") -- a proposito dei "termini anglofoni utilizzati impropriamente, e perfettamente sostituibili con equivalenti italiani".

Ovvero ha selezionato altri 13 lessemi tra "gli anglicismi più abusati e di cui potremmo facilmente fare a meno" ricorrendo a una "loro traduzione italiana".

"Lo 'smart working' -- ha così confermato -- non è altro che il 'lavoro agile'". Mentre baby sitting "possiamo tradurla semplicemente -- ha precisato -- con assistenza dei bambini”.

          2.1. Baby sitting (e babysitteraggio, babisitteraggio) nella lessicografia italiana

Il traducente italiano di Marazzini assistenza dei bambini è un suggerimento anche per la lessicografia italiana che registra la voce baby sitting senza alcuna esterofobia e ne indica un possibile traducente, alla pari, in babysitteraggio, babisitterraggio.

Il lettore che cercasse l'avallo normativo dei dizionari per l'uso di baby sitting rileverà infatti che, se baby sitting manca nel De Mauro 2000, il Garzanti-Patota 2013 registra baby-sitting (anche senza trattino e anche univerbato) nella sola pronuncia /bebi'sittiŋg/ italianizzata e definito "l'attività, il servizio di bay-sitter". Senz'alcuna valutazione negativa.

Lo Zingarelli 2020 riporta da parte sua il lemma baby-sitting (con trattino), datato 1980, con duplice adattamento della pronuncia /bebi'sittin(g)/ in italiano rispetto a quella originale /'bbi,sıtıŋ/ e senz'alcun traducente italiano.

Il Sabatini-Coletti 2007 lemmatizza baby-sitting con pronuncia ingl. e una sola "pr. adatt." /bεbi'sittiŋ)/, datata 1980, definito però col sin. babysitteraggio. Quest'ultimo a sua volta lemmatizzato con la variante grafica babisitteraggio, definito "Attività e servizio di bay-sitter. Sin. baby-sitting".

Anche il Devoto-Oli-Serianni-Trifone 2020 lemmatizza babysitting con due varianti di adattamento alla fonologia dell'italiano, con la data 1980, e col rinvio al traducente babysitteraggio datato a sua volta 1994, definito "Servizio di assistenza ai bambini durante l'assenza dei genitori", e senz'alcuna raccomandazione "per dirlo in italiano", come invece fa per vari altri stranierismi.

Il Treccani-Simone 1989 rist. 2009, omette infine baby sitting ma lemmatizza il traducente babysitteraggio (mest.) "Attività, lavoro, funzione di baby-sitter", con l'es. ho fatto due anni di b."

 

3. Francesco Sabatini e le 4 regole per l'uso degli stranierismi

Nella consueta trasmissione di domenica su Rai-1 "UnoMattina in famiglia", "Pronto Soccorso linguistico" anche Francesco Sabatini è intervenuto il 14 marzo ore 8.30, per commentare con compiacimento il rilievo critico di Draghi, e ricordare le 4 regole da adottare per l'uso degli stranierismi. Ovvero:

1° conoscere il significato del termine

2° saperlo pronunciare      

3° saperlo scrivere

4° accertarsi se l'interlocutore lo conosce o no.

Una grammatica "normativa", questa di Sabatini, condivisibile certamente per la regola (semantica) n.1 e la regola n.3 (ortografica), mentre per la regola n.2 (fonologica) è spesso inevitabile un adattamento alla fonologia dell'italiano come su indicato § 2.1 (magari non nel caso dell'anglofono Draghi) . E quanto alla regola n.4 relativa alla competenza dell'interlocutore, è sempre una scommessa, legata al livello culturale del destinatario, non sempre noto.

Diversamente, se ne deduce, che per Sabatini è necessario ricorrere a un traducente italiano.

 

4. Il "duetto" V. Della Valle - G. Patota

Immancabilmente, nella trasmissione su RAI-3, Le parole per dirlo, delle 10h.20 della stessa domenica, non è mancato un commento di Geppi Patota al commento di Draghi "illustre critico"  riguardo alle parole straniere, con la sua "protezione dall'alto" a favore dei traducenti/equivalenti  italiani, mentre Valeria Della Valle "benediva" il playback del critico musicale Ernesto Assante, ospite nella trasmissione dedicata alle canzoni, in quanto termine "ormai affermato" ovvero (neopuristicamente) stranierismo "necessario" e solo parafrasabile.

 

5. Quesito di un amico

Qualche giorno dopo l'e-mail di cui sopra, un altro caro amico, anch'egli filologo, mi ha inviato la seguente e-mail:

"Caro SC,

ma tu cosa pensi della traduzione di smartworking con lavoro agile?

Un mio amico 'radicale' mi chiede se non rappresenti una manifestazione di 'sudditanza' all' (ideologia) anglosassone più marcata dell'uso della parola inglese.

Intanto un caro saluto"

 

6. Risposta "laica" dinanzi al problema degli stranierismi in italiano

La mia risposta "laica" dinanzi al problema degli anglicismi, e degli stranierismi in generale, è la seguente. L'uso degli angli(ci)smi non è una manifestazione di 'sudditanza' all'(ideologia) anglosassone", ma è il riflesso del prestigio (storico-politico-economico-scientifico-culturale...) dell'anglo-americano. Un fattore che è un universale linguistico nel contatto inter-linguistico, che non costituisce un attentato alla identità di una lingua, o di 'infedeltà linguistica', ma è un'occasione di arricchimento  nel caso dei prestiti sia "di necessità" (a livello denotativo) che "di lusso" (a livello connotativo). Il ricorso agli stranierismi non è peraltro obbligatorio ma resta a discrezione del parlante, che di volta in volta valuterà la possibile scelta in funzione sia della precisione denotativa (soprattutto nel caso dei tecnicismi) sia della valenza comunicativa legata ai livelli culturali degli interlocutori. Un problema peraltro analogo nel caso dei tecnicismi nazionali o delle sigle, che spesso rendono oscuro un testo.

 

 

Sommario

1. L'evento politico mediatico

1.1. Strategia nell'uso degli anglicismi

2. L'intervento del presidente della Crusca, Claudio Marazzini

2.1. Baby sitting (e babysitteraggio, babisitteraggio) nella lessicografia italiana

3. Francesco Sabatini e le 4 regole per l'uso degli stranierismi

4. Il "duetto" V. Della Valle - G. Patota

5. Quesito di un amico

6. Risposta "laica" dinanzi al problema degli stranierismi in italiano





 

 

1 commento:

Anonimo ha detto...


Mario Draghi e i flop linguistici degli Italiani
Draghi si è soffermato sull’espressione “smart working”, oggi largamente usata in Italia. Sarebbe logico innanzitutto chiedersi: perché gli Italiani usano questa particolare espressione inglese? La usano perché i mass media e i personaggi di spicco del teatrino nazionale l’hanno resa d’uso comune. L’anglo-americano del popolo, infatti, non germina da sé, ma è il prodotto dello spirito d’imitazione di masse molto ben disposte verso gli anglicismi che piovono loro dall’alto, dalle élite. “‘O pesce fete d’a capa”, dicono i Napoletani. Ma perché queste “élite”: giornalisti, politici, conduttori televisivi, etc. usano tanti anglismi-anglicismi-inglesismi? Perché, essendo stati dominati nei secoli dagli stranieri, noi Italiani amiamo imitare i “non Italiani”.
Draghi conosce bene l’inglese. Commentando l’uso che in Italia si fa di “smart working”, invece di chiedersi “Chissà perché io devo usare tutte queste parole inglesi…”, avrebbe potuto dirci che “smart working” non corrisponde a ciò che per “smart working” s’intende nei paesi anglofoni. Avrebbe dovuto anche metterci in guardia, dicendo: “Se proprio vogliamo servirci dell’inglese per designare il ‘lavoro da casa’, il ‘lavoro a distanza’ – perché è questo che noi intendiamo dire con ‘smart working’ – ricorriamo allora a ‘working from home’ o ‘remote working’.” Espressioni inglesi quest’ultime preferibili – aggiungo io – a quel ‘lavoro agile’ da circo felliniano con cui la Crusca ha tradotto “smart working”. ‘Xe pèso el tacòn del buso’, dicono i Veneziani...
Ma Draghi non ha detto nulla al riguardo. Non vi nascondo che avrei voluto trovarmi, solo per un istante, al posto di Draghi per dire urbi et orbi che questo “smart working” americano, nella sua accezione di lavoro da casa o telelavoro – “télétravail” in francese – è usato impropriamente (su questo tema ho già scritto) dai nostri furbetti “smart ass”; come del resto avviene con le parole “rider” per “fattorino pedalatore”; “writer” per “graffitaro”; “badge” per “tesserino di riconoscimento”; “toast” per tramezzino; traffico “in tilt” per traffico bloccato o traffico in stallo, etc. E, viceversa, gli inglesi chiamano “latte” l’equivalente del nostro caffelatte, mentre ricorrono alla parola “confetti” per designare i coriandoli…
Cerchiamo sì di arricchire la nostra lingua attraverso i forestierismi, ma evitiamo di adottare vocaboli inglesi sbagliati. Se non altro per rispetto di quegli anglofoni che amano e studiano l’italiano, ma che rischiano d’inciampare su queste parole inglesi di difficile comprensione per loro.
Diversi giornalisti, tra cui Severgnini, hanno tratto spunto dalle parole di Draghi per allargare il discorso sull’uso in Italia delle parole inglesi, viste da loro come causa di ricchezza linguistica, e indice inoltre di furbizia, di elasticità, di apertura al “diverso”.
Nel paese dove le mode attecchiscono furiosamente specie se mode straniere, e dove l’imitazione dei belli e famosi, flatulenze verbali incluse, è per le masse un comprovato metodo d’innalzamento sociale, bisognerebbe invece invitare i nostri padroni delle ferriere – giornalisti, politici, conduttori televisivi – a sbracarsi un po’ di meno nei confronti di una lingua, l’inglese, che dimostrano di conoscere assai poco.
Il ragionare pragmatico vorrebbe che di fronte all’uso errato o impreciso di una parola o di un’espressione inglese si dicesse: se proprio dobbiamo continuare ad “arricchire” l’italiano di termini inglesi, adottiamo i termini inglesi giusti, e cerchiamo anche di non abolire, attraverso questo trapianto linguistico autocastrante, termini ed espressioni italiane validissime, come il nostro “fare fiasco” ormai eliminato da “fare flop”, suo “killer”. Ma cosa volete, le nostre élite, progressiste, “audacemente” anti-autarchiche ed aperte ed anzi spalancate al “diverso”, amano proprio “fare flop”.
Claudio Antonelli
---------