Perché il termine “troia” – e non vorremmo essere tacciati di volgarità – oltre che per indicare la città viene adoperato per apostrofare una donna di facili costumi? Tutti sappiamo che questo vocabolo è "ambivalente": con la “ T ” maiuscola indica, per l’appunto, l’antica città capitale della Troade. La città fece parte della satrapia persiana di Frigia, ricevette l’autonomia dai Greci per tornare, poi, sotto la dominazione persiana. Chi non ricorda l’Iliade in cui si parla ampiamente di questa città? Indica anche un ridente comune italiano in provincia di Foggia. Con la “t” minuscola, invece, il termine ha acquisito l’accezione volgare (e popolare) di donnaccia, donna di malaffare. Come si spiega, dunque, questa ambivalenza?
La spiegazione di questa seconda accezione sembra debba essere ricercata nel
campo culinario. I Latini chiamavano porcus troianus, con riferimento al
cavallo di Troia, un maiale arrostito, e ripieno di altri animali, da servire
nelle mense di personaggi importanti.
Di qui il termine troia sarebbe passato a indicare la femmina del maiale in
stato di gravidanza. Infine, con un altro passaggio semantico, il vocabolo ha
acquisito il significato attuale, volgare e spregiativo, di donna dai facili
costumi.
E, visto che siamo in tema, parliamo della donna, quella con la “D” maiuscola,
però. Ne parliamo dal punto di vista etimologico; parliamo, cioè, della
“nascita” del vocabolo. E, come sempre – in fatto di lingua – occorre
richiamarsi al latino. La compagna dell’uomo, infatti, dal punto di vista
linguistico viene dal latino “domina”. Vediamo i vari passaggi. Questo termine
discendeva da “domus” (casa) e letteralmente valeva “padrona della casa”,
signora; cosí come “dominus”, propriamente, voleva dire “padre della casa”,
signore. Le parole, come si sa, corrono di bocca in bocca, dalla persona colta
a quella ignorante e nel corso dei secoli – è risaputo – si alterano per
influsso dell’uso popolare. A questa sorte non ha potuto sottrarsi la lingua
latina; cosí nel Medio Evo il latino “imbastardito” ha partorito “domna” e
“domnus”, mangiandosi la sillaba centrale, la “i”. Piú tardi ancora, per la
comunissima legge linguistica dell’assimilazione (processo per cui due
consonanti in una stessa parola divengono uguali) si disse “donna” e “donnus”.
Infine nei secoli successivi, con la nascita della lingua italiana, il “volgare”,
il “donnus” si tramutò in “donno”, mentre “donna” rimase tale e quale.
Non possiamo chiudere questa modestissima chiacchierata sulla donna senza
dedicarle un pensiero di Stendhal: «Una donna di carattere generoso
sacrificherà mille volte la vita per colui che ama, e si guasterà per sempre
con lui per una questione di orgoglio, a proposito di una porta chiusa o
aperta: sono questi i punti di onore di una donna».
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La lingua "biforcuta" della stampa
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