1. Ipse dixit
Chi ha ascoltato domenica
scorsa, 30 dicembre, la consueta rubrica linguistica di "Uno mattina in
famiglia" in RAI-1, dinanzi al quesito di un ascoltatore se l'espressione
"Mi auspico" fosse corretta, ha sentito rispondere Francesco
Sabatini con un "No!". Una frase come "Mi auspico che cali il
prezzo" sarebbe errata. Corretta invece "Mi auguro che cali
prezzo". Risposta coerente con quanto si legge ne "Il Sabatini
Coletti. Dizionario della lingua Italiana" (1997-2006), dove il verbo auspiscare
è registrato come verbo transitivo (e non già pronominale) col significato
di "Augurarsi il verificarsi di eventi favorevoli" e i sinon.
"sperare, desiderare" con gli ess. a. la riuscita dell'impresa,
a. di arrivare in tempo, a. che la ricostruzione avvenga rapidamente.
2. Ma però...
Ogni ascoltatore avrà così
avuto subito modo di ricevere conferma/disconferma del proprio uso. Se poi
l'ascoltatore ha la curiosità di verificare in un dizionario la correttezza del
pronominale auspicarsi andrà incontro a qualche sorpresa. Così il Devoto/Oli/Serianni/Trifone
(almeno a partire dall'ed. 2004) non manca di registrare
descrittivamente l'uso pronominale di auspicare, con due ess.:
"tr. pron. Augurarsi,
sperare [con che e il cong., o con la prep. di e l'inf.] mi auspico
che gli ospiti arrivino in orario; mi auspico di potere venire presto a
trovarti".
Non diversamente tutta la
lessicografia diretta da T. De Mauro, fin dal GRADIT ovvero
"Grande dizionario italiano dell'uso" (1999-2000, 20072
in 8 voll.), e poi nello scolastico De Mauro (2000), dove la forma riflessiva auspicarsi
è promossa (come tutti i verbi pronominali) a lemma autonomo ed etichettata
come voce "CO[mune]" nota cioè a utenti laureati e diplomati,
distinto dalla forma tr. auspicare, e senza alcuna nota di censura
puristica:
"auspicàrsi v.pronom.tr.
[io mi àuspico] CO augurarsi: mi a. che tu venga presto".
E così il De Mauro (2002)
dei sinonimi e contrari riporta il lemma "auspicàrsi
v.pronom.tr. CO[mune]" per il quale indica due "sin.
FO[ndamentale] sperare AD [Alta Disponibilità] augurarsi". E in maniera
circolare per il lemma "augurarsi
v.pronom.tr. AD" segnala i due "sin. FO sperare CO
auspicarsi". E il De Mauro compatto (2004) ("versione
ridotta" del De Mauro 2000) lemmatizza a sua volta, pur senza ess., "auspicàrsi v.pronom.tr. [io mi
àuspico] CO augurarsi". Nell'Etimologico di De
Mauro/Mancini (2000) auspicarsi appare ancora come
"der.[ivato]" sotto il lemma auspicare.
3. Gli indifferenti e i
detrattori
La dizionaristica
novecentesca italiana è per contro in genere lacunosa al riguardo ignorando
tale uso. E così ancora il Treccani-Simone (2009) e lo Zingarelli (2019).
La tradizione puristica
sembra invece inaugurata dal Garzanti-Patota (2004) per il quale auspicarsi
è "improprio". Nell'ed. Garzanti/Patota (2005 e 2010)
l'"improprio" viene così argomentato: "infatti auspicare ha
già il significato di 'augurarsi' e quindi non ha bisogno di essere completato
da si". Un'argomentazione, questa, che fa un pò pensare a quella
avanzata in passato per censurare il pron. suicidarsi rispetto
all'auto-sufficiente sui-cidare.
Per il Gabrielli/Hoepli
(2008) "nessuna giustificazione" ha auspicarsi, "che
nasce evidentemente dalla confusione con augurarsi: bene, quindi,
mi auguro d'incontrarlo, scorretto mi auspico di incontrarlo".
A. Gabrielli (2009) in Si
dice o non si dice?, nuova ed. a cura di P. Pivetti, si pone la domanda di
un ipotetico parlante: "È sbagliato dire auspicarsi, come quando si sente
dire: Io mi auspico che tutto vada bene? (p. 35). Per rispondere in
maniera perentoria, senza tentennamenti: "È decisamente sbagliato.
(...). Quella forma pronominale auspicarsi deriva dall'influenza di augurarsi:
Mi auguro che tutto vada bene. Questo è corretto" (pp. 35-36).
Per A. Colombo (in 'A me
mi', 2011) mi auspico, ci auspichiamo sono un "errore"
che "accade sempre più spesso di sentir dire o leggere, anche da parte di persone
colte"; "una innovazione in corso non prevista dai
dizionari" (p. 62).
Naturalmente anche Della
Valle – Patota (in Ciliegie o Ciliege 2012) riprendono la censura
morfo-lessicale: "auspicare o auspicarsi? auspicare"
(p. 18).
4. La storia si ripete
L'ostracismo dato a auspicarsi
richiama l'analoga condanna ottocentesca inflitta ad augurarsi.
Nel Repertorio per la
lingua italiana di voci non buone o male adoperate di Leopoldo Rodinò
(1858) si legge: "AUGURARSI mal si adopera per – Sperare, promettersi –
Es. Mi auguro [spero] di vedervi domani in tribunale".
Nel Lessico dell'infima e
corrotta italianità, P. Fanfani – C. Arlia (18771, 19075)
rincarando la dose dichiarano: "In questi tempi di paroloni e di frasi
altosonanti, anche Augurarsi fa le spese della nuova lingua. Onde di qua
senti, v. g. Mi auguro l'occasione di poterla servire; di là leggi: Mi
auguro l'onore di una sua lettera, e così va dicendo. Vacuità, vacuità, e
nient'altro che vacuità e spropositato modo" (p. 53).
5. Perché auspicare
tr. è diventato pron. auspicarsi
La motivazione del
cambiamento (da non confondere con la motivazione del giudizio di
correttezza/erroneità) è dovuta, come peraltro chiaramente indicato dallo stesso
Sabatini, a una estensione semantica di auspicare sul modello di augurarsi.
Per Gabrielli invece "confusione" e "influenza".
Tale evoluzione documenta
peraltro il passaggio di auspicare da I) verbo intr. monovalente come
Termine Specialistico [1611] :"TS stor. in Roma antica, esercitare
l'ufficio di auspice, trarre gli auspici" a II) auspicare v.
tr. trivalente [1863] "v.tr. CO augurare, caldeggiare: il ministro
auspicò il ristabilimento delle trattative; desiderare", e quindi a
III) v. pron. auspicarsi trivalente [1928] 'augurarsi'.
6. Auspicarsi
nell'uso dei parlanti
A voler documentare l'uso
dei parlanti, nel "Sole 24 Ore" (1983-2008 e 2009) ci sono due ess.:
(i) R. Casati: "Quando pubblico un testo specialistico di
ricerca sul mio sito web, mi auspico un accesso non ristretto, anzi il
più largo possibile, e gratuito" (16.4.2000).
(ii) in una lettera del 6.9.2009 della giornalista Cristina
Battocletti: "Gentile signora Moceri, (...) tutti ci auspichiamo in
questo campo solo un progresso per il benessere della mamma e del
bambino".
Sulla scorta di Google libri
è possibile riscontrare alcuni ess., tra cui:
1928: "così oggi io mi auspico che da queste modeste, ma
sentite parole ... (Il Risorgimento italiano rivista storica 1928, p.
562).
1939: "Per la formazione di un tale giudice contribuiscono quindi
tanti fattori anche complessi per cui io mi auspicherei che la cosa
fosse presa seriamente a cuore da parte dell'ENCI (...)" (Rassegna
cinofila. Organo ufficiale dell'Ente nazionale della cinofilia italiana, p.
236).
Ministero per Costituente 1946: "Io mi auspicavo sempre,
quando c'era la milizia forestale, che venissero fatti dei corsi
d'istruzione, e che la parte giovane degli agricoltori, fosse portata allo
studio di questi problemi" (Rapporto della Commissione Economica, Istituto
Poligrafico dello Stato, p. 231).
1951 Cultura neolatina: "un secondo volume, che ci si auspica non
lontano" (vol. 11-12, p. 174).
1955 Relazioni internazionali: "Ci si auspica pertanto l'avvento di una politica
economica più limitata" (vol. 19, p. I, p. 123).
1955 L'universo: "Nè ad alcuno sfugge l' importanza di tali problemi, la cui
risoluzione ci si auspica avvenga presto e nel modo più soddisfacente
per Europei ed Africani" (vol. 35, p. 484).
1960 Orpheus. Rivista di umanità classica e cristiana:
"nella Pace ci si auspica che questi contadini (...) con la
pace possano e vogliano ritornare in campagna" (voll. 7-9, p. 43).
7. Perché infine auspicarsi
non è errato
Concludendo, a nostro
giudizio, tale uso è del tutto corretto sia perché a) non compromette la
comprensione di un testo, sia perché b) riscontrato presso italofoni e
italografi colti (cfr. Colombo 2011), compresi i lessicografi che lo codificano
(De Mauro, De Mauro-Mancini, Devoto-Oli-Serianni-Trifone), in giornali colti
("Sole 24 Ore"), riviste specialistiche, e quindi non privilegio di
parlanti italiano popolare.
Auspicarsi
risulta alla fine, secondo la classificazione demauriana, di uso
"COmune" rispetto ad Augurarsi di "Alta
Disponibilità", che fa parte cioè delle 7000 parole del "vocabolario di
base" della lingua italiana.
* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania