Nel vasto regno della grammatica italiana, poche creature sono più sfuggenti e versatili del piccolo pronome ne. Lo usiamo ogni giorno - ne voglio, ne ho abbastanza, ne vengo da lontano - ma spesso senza sapere davvero chi sia, cosa sostituisca, o dove ci porti. Questa fiaba mette in scena Nevolina, spirito del ne, e il suo viaggio tra quantità, provenienze e fraintendimenti. Una storia per chi ama la lingua, la logica e un pizzico di magia sintattica.
Nel regno di Quantalia, ogni cosa aveva un numero, ogni pensiero una misura, ogni desiderio un’unità. I bambini non chiedevano voglio un gelato, ma ne voglio uno. Gli adulti non dicevano ho problemi, ma ne ho troppi. Eppure, nessuno sapeva davvero chi fosse quel ne che compariva ovunque.
A governare il regno c’era Re Grammasio, sovrano severo ma curioso, che un giorno si accorse di una strana nebbia linguistica: frasi come ne vengo da lontano si confondevano con ne voglio ancora. Il popolo era smarrito. Così il re convocò la creatura responsabile: Nevolina, spirito del ne.
Nevolina apparve in un soffio di particelle, piccola come una virgola, agile come un avverbio.
- Maestà, sono dappertutto e nessuno mi vede. Sono il pronome che sostituisce ciò che è già noto. Se si parla di biscotti, e poi si dice ne voglio due, io porto due biscotti. Se si dice ne ho abbastanza, io capisco che si parla di quantità.
Il re aggrottò la fronte.
- E quando dici ne vengo da Milano? Sei tu o è il luogo?
- Ah, lì sono ne locativo. Vengo da lì. Non c’entro con le quantità.
Il re, sempre più confuso, chiamò il mago Sintassio, che tracciò due cerchi sul pavimento del castello: uno per il ne partitivo, l’altro per il ne locativo. Nevolina saltellava da uno all’altro, recitando:
Ne ho mangiati tre! (partitivo)
Ne vengo da lontano! (locativo)
Ne hai abbastanza? (partitivo)
Ne sei uscito vivo? (locativo)
Il popolo, radunato nella sala delle concordanze, cominciò a capire. Ogni volta che Nevolina compariva, bisognava chiedersi: Di cosa si parlava prima? - solo così il ne aveva senso.
Ma proprio quando tutto sembrava chiarito, arrivò Ciolino, spirito del ci, geloso della fama di Nevolina. Cominciò a confondere le acque:
- Ci penso io! - Ci vado domani! - Ci metto il cuore!
Il re sbiancò.
- Ora anche ci è polifunzionale?
Nevolina sorrise.
- Maestà, è sempre stato così. Siamo spiriti della sostituzione. Io sostituisco quantità e luoghi, Ciolino sostituisce luoghi, persone, idee, emozioni. Siamo piccoli, ma potenti.
Il re, finalmente illuminato, fece scolpire due frasi all’ingresso del castello:
Ne si usa quando si parla di quantità o provenienza. Ci si usa quando si parla di luogo, coinvolgimento o riflessione.
Da quel giorno, nel regno di Quantalia, ogni frase con ne o ci veniva preceduta da un pensiero chiaro. E Nevolina, finalmente, non fu più accusata di confondere, ma di chiarire.
***
"Gognizzare", il verbo che punisce
Nello sterminato lessico della lingua italiana, dove ogni parola ha una genealogia e ogni errore può diventare un caso, nasce oggi un verbo, affilato e necessario: gognizzare. Non è un semplice sinonimo di “correggere” o “segnalare”. È qualcosa di più radicale, più pubblico, più esposto. Gognizzare significa inchiodare l’errore alla sua responsabilità, metterlo sotto gli occhi di tutti, non per umiliare, ma per educare. È un atto di giustizia linguistica, una forma di responsabilità editoriale, una presa di posizione contro la sciatteria.
Il sintagma nasce da una fusione potente: gogna, lo strumento medievale di punizione pubblica, e il suffisso -izzare, che trasforma un concetto in azione. Gognizzare, dunque, è l’atto di mettere alla gogna linguistica un errore grave, documentandolo con precisione, attribuendogli una fonte, una data, una tipologia. È un gesto che non si accontenta della correzione silenziosa, ma pretende trasparenza, memoria, consapevolezza.
Nel mondo dell’informazione, dove i titoli giornalistici sono spesso il primo contatto tra il lettore e la realtà, gognizzare diventa un dovere. Un titolo sbagliato non è solo una svista: è una distorsione pubblica, una falla nel patto comunicativo. Ecco perché gognizzare non è vendetta, ma vigilanza. Non è sarcasmo, ma cura. Non è accanimento, ma archivio.
Il verbo si presta a molteplici usi, tutti attivi e consapevoli. Si può gognizzare un titolo, un manifesto, un comunicato stampa. Si può gognizzare un errore grammaticale, sintattico, ortografico, logico. Si può gognizzare anche un’abitudine linguistica che tradisce la precisione. E ogni volta che lo si fa, si contribuisce a una cultura della lingua più attenta, più responsabile, più viva.
Ecco alcuni esempi d’uso:
Il docente ha invitato gli studenti a gognizzare gli strafalcioni trovati nei manifesti pubblicitari. Prima di pubblicare, controlla bene: se non vuoi essere gognizzato domani mattina. Abbiamo gognizzato cinque titoli con errori sintattici pubblicati oggi, tutti documentati e archiviati.
La lingua italiana ha bisogno di parole nuove che non siano solo decorative, ma operative. Gognizzare è una di queste. È un verbo che non si limita a descrivere, ma agisce. E da oggi, entra nel vocabolario di chi ama la lingua, la verità e la responsabilità.
Eventuale lemmatizzazione:
gognizzare /go·gniʒˈʒa·re/ [der. di gogna, con il suff. -izzare] v. tr. – Esporre pubblicamente un errore linguistico grave, con intento correttivo e documentale. ◆ Nel giornalismo, gognizzare un titolo significa denunciarne l’errore ortografico o sintattico, fornendo fonte e data. ◆ Nel contesto scolastico, il verbo è usato per promuovere la riflessione critica sulla lingua. ◆ In ambito editoriale, gognizzare equivale a inchiodare l’errore alla sua responsabilità pubblica, contribuendo alla costruzione di un archivio linguistico trasparente.
Uso estensivo: può riferirsi anche alla denuncia di abusi stilistici, ambiguità logiche o violazioni del buon senso comunicativo in testi pubblici. Registro: medio-alto, connotazione ironica e vigilante. Sinonimi parziali: segnalare, denunciare, stigmatizzare (ma con minor forza espositiva). Contrari: occultare, minimizzare, giustificare.
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