Il congiuntivo è il tempo della possibilità, del dubbio, del desiderio. Eppure, nella lingua parlata (e scritta) di oggi, viene spesso dimenticato, sostituito, persino deriso. Questa fiaba lo immagina come un personaggio esiliato dal Regno dell’Indicativo, costretto a vagare tra frasi sbagliate e costruzioni approssimative. Ma ogni esilio può diventare ritorno, se qualcuno ne riconosce il valore.
Nel Regno di Sintassia, ogni tempo verbale aveva un compito preciso. L’Indicativo regnava con fermezza: raccontava ciò che è certo, ciò che accade davvero. Diceva: io so, tu vai, lui ha detto. Il Condizionale sussurrava possibilità: vorrei, potresti, sarebbe bello. L’Imperativo gridava ordini: vai!, smetti!, ascolta!.
Ma il Congiuntivo… ah, il Congiuntivo era diverso. Non descriveva il mondo com’è, ma quello che potrebbe essere. Parlava di desideri, paure, dubbi, ipotesi. Diceva: che tu sia felice, che lui venga presto, che noi avessimo capito. Era il tempo dell’incertezza, dell’anima, della profondità.
Troppo elegante, troppo sfuggente. Così, un giorno, il Re dell’Indicativo lo convocò:
- Congiuntivo, sei troppo complicato. La gente non ti usa più. Ti confonde con me, ti ignora, ti sostituisce. Sei in esilio.
Il Congiuntivo non protestò. Raccolse le sue forme — sia, fossi, venisse, avessi — e partì. Vagò tra le frasi sbagliate:
Credo che lui è stanco (ma si dovrebbe dire sia stanco)
Spero che tu vieni (ma si dovrebbe dire venga)
Penso che lei ha ragione (ma si dovrebbe dire abbia ragione)
Ogni volta si fermava, sospirava, e lasciava un’ombra di dubbio.
Nel suo esilio, incontrò la Congiunzione “che”, che piangeva:
- Senza di te, io non ho senso. Mi usano per legare frasi che non si legano. Mi mettono dappertutto, anche dove non servo. - E quando servo davvero - aggiunse il Congiuntivo - mi ignorano.
Incontrò anche il Subordinato Dipendente, che barcollava:
- Senza il tuo aiuto, non riesco a esprimere possibilità, emozione, sogno. Mi riducono a cronaca. — Eppure - disse il Congiuntivo - io sono fatto proprio per te. Quando la frase principale esprime incertezza, desiderio, opinione, io dovrei entrare in scena.
Il Subordinato si illuminò:
- Quindi… se dico Spero che tu vieni, sbaglio? - Sì. Dovresti dire Spero che tu venga. Perché “spero” è un verbo che esprime desiderio. - E Penso che lui è bravo? - No, no. Penso che lui sia bravo. “Pensare” è opinione, non certezza.
Il Congiuntivo, commosso, decise di tornare. Non al palazzo del Re (dal quale era stato esiliato), ma tra la gente. Si nascose nei libri, nei versi, nei pensieri profondi. E lì, qualcuno lo riscoprì.
Una bambina disse: Vorrei che tu fossi qui. Un poeta scrisse: Che io non perda mai la meraviglia. Un insegnante spiegò: Il congiuntivo si usa quando la realtà è incerta, desiderata, temuta, ipotizzata. È il tempo dell’anima.
Il Re dell’Indicativo, vedendo tutto ciò, capì. Non si può governare senza possibilità. Così revocò l’esilio, e il Congiuntivo tornò. Non come suddito, ma come custode del dubbio e della speranza.
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Ecco alcune regole, chiarissime, sull’uso del congiuntivo.
Dopo verbi di opinione, dubbio, desiderio, emozione
Credo che tu sia stanco
Spero che lei venga
Temo che noi abbiamo sbagliato
Dopo espressioni impersonali che indicano incertezza
È possibile che lui sia partito
È improbabile che tu abbia ragione
Dopo congiunzioni come “benché”, “sebbene”, “affinché”, “purché”
Benché sia tardi, usciamo
Ti aiuto purché tu studi
Nelle frasi ipotetiche irreali o desiderative
Se io fossi ricco…
Magari lui venisse!
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La lingua “biforcuta” della stampa
La donna è stata trovata priva di vita, ma non si esclude che possa essere ancora viva
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Quel ‘non me n’ero accorto’, però, ha bucato gli schermi ed è scivolato affianco a tante vite reali

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