Ci sono verbi, nel nostro melodioso lessico, che si somigliano come fratelli, ma che nel cuore della lingua battono con ritmi diversi. Compiere e compire sono tra questi: condividono radice, significato di base e coniugazione, ma divergono nel respiro, nel tono, nella vibrazione concettuale. Non sono propriamente “identici”: uno è più operativo, l’altro più conclusivo. Uno è il verbo dell’azione, l’altro del compimento.
Entrambi derivano dal latino complēre, “riempire completamente”, composto da com- (“insieme”) e plēre (“riempire”). Da qui si è sviluppata l’idea di portare a termine, di concludere ciò che è stato iniziato. Ma già nel latino tardo e nelle lingue romanze si nota una biforcazione: compiere si afferma come forma dominante, mentre compire sopravvive in registri più solenni, poetici, rituali.
Nella lingua d’uso, compiere è il verbo dell’azione portata a termine: si compie un gesto, un dovere, un’età. È il verbo che troviamo nei documenti, nei giornali, nei discorsi quotidiani. Compire, invece, conserva una patina più riflessiva, più cerimoniale: è il verbo del suggello, della chiusura, del compimento esistenziale.
Ecco una serie di esempi che mettono in evidenza la differenza:
«Ha compiuto un gesto eroico salvando il bambino» → azione concreta, realizzata.
«Ha saputo compire il suo cammino con dignità» → chiusura esistenziale, uso poetico dell’infinito.
«Quando compi diciott’anni potrai votare» → traguardo anagrafico, uso comune.
«Quando compirai il tuo destino, forse ne comprenderai il senso» → uso letterario, con enfasi sul compimento.
«Il progetto è stato compiuto nei tempi previsti» → registro tecnico, neutro.
«Il rito si è compito nel suo tempo, secondo tradizione» → uso poetico, intransitivo, con valore conclusivo.
«Ha compiuto il suo dovere senza esitazioni» → azione portata a termine.
«Il ciclo si è compito nel silenzio» → chiusura naturale, tono elegiaco.
La nostra letteratura offre esempi emblematici di entrambi i verbi. In I Promessi Sposi, Manzoni scrive:
«Quando Renzo compié il suo racconto, Lucia non rispose nulla.» (cap. XXXV)
Qui compiere è usato nel senso di “terminare un discorso”, con tono narrativo e neutro.
Dante, nel Paradiso, usa invece compire in senso più alto e spirituale:
«Così com’io del suo aspetto compita, / mi volsi al mio maestro...» (Paradiso, XXXIII, 55–56)
L’uso del participio passato compita è raro e prezioso: indica il compimento di una visione, il suggello di un’esperienza mistica.
Anche nel linguaggio religioso, compire conserva forza rituale:
«Si è compita la profezia» → forma riflessiva, solenne, conclusiva.
Va sottolineato che compire è oggi raro nei tempi composti, e il participio passato compito può generare ambiguità, essendo formalmente coincidente con l’aggettivo. Per questo, l’uso più efficace di compire si concentra nei tempi semplici e nell’infinito, dove conserva la sua aura rituale e conclusiva.
In certi contesti, compire può apparire affettato o fuori luogo; in altri, può donare al testo una profondità che compiere non raggiunge. È una scelta stilistica che va calibrata con sensibilità e consapevolezza.
Insomma – e concludiamo questa noterelle – compire e compiere sono due volti dello stesso verbo: uno più pragmatico, l’altro più contemplativo. Conoscerli entrambi, e saperli usare con discernimento, è segno di padronanza linguistica e sensibilità stilistica. E in una lingua, come quella di Dante e di Manzoni, dove ogni sfumatura conta, questa distinzione è una ricchezza da custodire.
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Un po’ di “pedanterie linguistiche”
“Solerte” non è sinonimo di “solido” . Alcuni lo adoperano impropriamente per indicare affidabilità, ma solerte significa “attivo, diligente, premuroso”, con sfumature di zelo.
“Ove” non è solo avverbio di luogo, ma anche congiunzione condizionale. “Ove tu voglia partecipare…” è perfettamente corretto, ma spesso percepito come errore o arcaismo.
“Siccome” non è sinonimo di “poiché” (come riportano alcuni vocabolari). Nella lingua classica siccome significa “così come”, con valore comparativo. L’uso causale (“siccome piove, resto a casa”) è “moderno” e spesso criticato nei registri formali.
“D’altronde” e “d’altra parte” non sono sempre intercambiabili. D’altronde implica una giustificazione o una spiegazione; d’altra parte introduce un punto di vista alternativo. E.g.: «Ha sbagliato, d’altronde era stanco» vs «Ha sbagliato, d’altra parte non aveva esperienza» .

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