Nel vasto repertorio dei verbi italiani che descrivono stati d’animo, posture temporali e tensioni verso il futuro, “attendere” e “aspettare” occupano una posizione di rilievo. Ambi i sintagmi richiamano l’idea di una sospensione, di un tempo che si dilata nell’attesa di qualcosa o qualcuno. Eppure, come spesso accade con i sinonimi, la loro (apparente) intercambiabilità cela sfumature che vale la pena esplorare con attenzione, per cogliere le pieghe del significato e le preferenze d’uso che la lingua, nel suo uso vivo, ci suggerisce.
Nell’accezione più comune, i due verbi sono perfettamente sovrapponibili: si può attendere un treno o aspettarlo, attendere una risposta o aspettarla, attendere qualcuno fuori o aspettarlo nello stesso luogo. In questi casi, la scelta tra l’uno e l’altro (verbo) è spesso dettata solo dal gusto personale o dal registro del discorso.
Tuttavia, a un’osservazione più attenta emergono alcune differenze. “Aspettare”* (dal latino exspĕctare ‘aspettare’) è il verbo più frequente, più colloquiale, più immediato. È quello che si usa nel parlare quotidiano, nei comandi rapidi, nelle frasi di uso comune: “Aspetta un momento”, “Aspettami sotto casa”, “Aspettiamo che smetta di piovere”. Ha anche, sebbene più raramente, un significato vicino a “fare attenzione”, come in “Aspetta a parlare” o “Aspetta a giudicare”.
“Attendere”, invece, ha un tono più formale, più solenne, talvolta più carico di aspettativa. Si presta bene a contesti in cui l’attesa è lunga, carica di significato, o legata a eventi importanti: “Attende con trepidazione l’esito dell’esame”, “Attende da anni un riconoscimento”. Deriva dal latino attendere, composto da ad- e tendere, cioè “tendere verso”. Qui l’attesa non è solo visiva, ma interiore, protesa, quasi muscolare. È un verbo che implica concentrazione, dedizione, tensione verso un fine. Inoltre, “attendere” possiede un’accezione che “aspettare” non ha: quella di “dedicarsi a qualcosa con cura e costanza”, come in “attendere al proprio dovere”, “attendere agli studi”. In questi casi, la sostituzione con “aspettare” non è possibile.
Anche nei derivati si riflettono queste differenze. Da “aspettare” derivano “aspettativa”, nel senso di speranza o previsione, e “aspettatore”, termine raro ma attestato, che indica chi assiste a uno spettacolo. Da “attendere” provengono, invece, “attesa”, che indica il tempo dell’aspettare, e “attendibile”, che qualifica ciò o chi merita fiducia, perché degno di essere atteso nel senso di “creduto”. E ancora, l’espressione “attendere a” mantiene viva quella sfumatura di dedizione che “aspettare” non contempla.
Per concludere queste modeste noterelle, se è vero che i due verbi possono spesso sostituirsi senza danno, è altrettanto vero che la lingua, con la sua finezza, ci invita a scegliere con cura. “Aspettare” è il verbo dell’immediatezza, della quotidianità, dell’attesa concreta. “Attendere” è quello della solennità, della dedizione, della fiducia proiettata nel tempo. E in questa sottile differenza si gioca, come sempre, la precisione dello stile.
---
* Non si confonda aspettare con "spettare".

Nessun commento:
Posta un commento